venerdì 29 dicembre 2023

Gli scritti di San Paolo — L'EPISTOLA AI ROMANI (Introduzione)

 


Il Dio di Coincidenza

Può qualcuno negare che

Una cosa dopo l'altra

In sequenza e logica

Mai vista prima

Non può essere che la

Interferenza di un Dio

Determinata a provare che

Ognuno che pretende

Di conoscere ora

Una cospirazione è

Demente?

(Kent Murphy)

 

Joseph Turmel (di cui in questo blog ho imparato a conoscere ed apprezzare il geniale commentario del Quarto Vangelo) pone una grande sfida ai suoi lettori. Il suo caso in breve: tutta la mistica delle epistole paoline, pace il folle apologeta protestante Albert Schweitzer, non è originale. È interpolata. Dai marcioniti prima. Dai proto-cattolici dopo. Quel che rimane sono pochi, ridicoli frammenti: un Paolo apocalitticista (e fin qui anche Robert Stahl era arrivato alla stessa conclusione) ma che aspetta, con la imminente Fine dei Tempi, anche il ritorno di Gesù nella gloria. Punto. Stop. Turmel è simile a Robert Drews, che pretende [Judaean Christiani in the Middle Decades of the First Century, Journal of Early Christian History, 13:2, 48-67] di dedurre dal solo impulsore Chresto svetoniano l'esistenza di giudeocristiani che aspettavano ardentemente il ritorno di Gesù nella gloria.

Il punto debole dell'esegesi di Turmel è quindi lo stesso dell'esegesi di Robert Drews: fino a che punto la fede nella resurrezione di Gesù, nonché nel suo imminente ritorno nella gloria (che fa tutt'uno con quella resurrezione, perché altrimenti essa si declassificherebbe a semplice martirio  come si dice — “vendicato da dio”) non sia anch'essa, di suo proprio diritto, parte integrante di quella stessa “mistica” che Turmel avrebbe voluto espungere dalle epistole per attribuirla, in quanto elemento tanto estraneo quanto interpolato, a Marcione e ai bastardi nemici di Marcione ?

Dopotutto, una resurrezione presuppone una visione del “risorto”, e una visione del “risorto” è pura mistica, ciò che un ateo quale io sono liquiderebbe come esperienza mistico-allucinatoria: non lo è? (se la risposta è no, allora David Skrbina sarebbe giustificato a sospettare una congiura anti-gentile tra i primi giudeocristiani).

Intendiamoci: Joseph Turmel è storicista. Il suo Gesù storico è il migliore che si possa ipotizzare. Un pazzo apocalitticista col solo torto di voler “forzare la fine” (l'esatta trasgressione talmudica condannata in Ketubot 111a), ossia l'avvento del Messia, credendo di avere dio dalla sua al momento in cui lui e i suoi discepoli avrebbero sguainato le spade pur di incalzare il corso provvidenziale degli eventi. Non dissimile dai seguenti pazzi invasati storicamente esistiti (docet Flavio Giuseppe):

  1.  il  ‘Samaritano’ (Antichità Giudaiche 18:85-87);
  2.  Teuda (Antichità Giudaiche 20:97-99);
  3. un gruppo di figure non nominate attive durante il procuratorato di Felice (Guerra Giudaica 2:258-260; Antichità Giudaiche 20:167-168);
  4. l'‘Egiziano’ (Guerra Giudaica 2:261-63; Antichità Giudaiche 20:169-172);  
  5. una figura non nominata sotto Festo (Antichità Giudaiche 20:188);  
  6. un'altra figura non nominata che condusse i suoi seguaci al tempio appena prima della sua distruzione nel 70 E.C. (Guerra Giudaica 6:283-287);
  7. Gionata, un sicario palestinese che fu attivo a Cirene dopo la guerra (Guerra Giudaica 7:437-50; Vita 424-425). 

Con una differenza, però, che ipso facto smentisce quanto appena detto: tutti quei cosiddetti “profeti del segno” non lasciarono seguaci, non lasciarono il minimo indizio, dopo la loro dipartita, di un barlume di speranza nella loro resurrezione. Per Gesù, i folli apologeti cristiani e i fin troppo distratti atei storicisti ne vorrebbero uno, anzi ben più di uno (!), contra factum che, così facendo, rendono Gesù totalmente DIVERSO da quella lista di pazzi invasati in cui si avrebbe voluto classificarlo serenamente, senza tante storie.  

Perché, o anche loro devono godere del diritto di avere fedeli nella loro resurrezione post-mortem, oppure nemmeno Gesù deve godere di tale diritto, implicando così che Gesù non merita di essere classificato tra quei pazzi invasati, il che equivale a dire che Gesù non merita di essere definito figura storica. 

Che io sappia, solo lo zelota Niger della Perea fu creduto risorto, ma lui non fu un “profeta del segno”:

«Incendiata la torre, i romani si ritirarono assai contenti al pensiero che anche Niger era perito; quello invece, saltando giù dalla torre, si era rifugiato nel sotterraneo più profondo della fortezza e tre giorni dopo si fece sentire da quelli che erano venuti a cercarlo in gramaglie per seppellirlo. Sbucato fuori, riempì di gioia insperata tutti i giudei che lo ritennero salvato dalla volontà di Dio perché li guidasse nelle future battaglie». (Guerra Giudaica 3:27-28)

Perciò la fede storicista di Turmel è infondata. Se va postulato gratuitamente che Gesù fosse stato l'unico ad essere creduto risorto tra i “profeti dei segni”, allora altrettanto gratuitamente si potrebbe non annoverarlo tra loro, bensì classificarlo presso un'altra categoria: quella degli Dèi che muoiono e risorgono.


Quindi mi trovo di fronte ad un bivio

  • o Turmel avrebbe ragione, in ogni caso, ad aver provato che il 90% delle epistole cosiddette “paoline” sono mere interpolazioni del secondo secolo, e manca quindi poco alla paternità del restante 10% di venir risucchiata a sua volta nello stesso periodo, in virtù della stessa mistica ricorrente in egual misura in tutti i punti delle epistole, pace lo stesso Turmel...
  • ...oppure Turmel avrebbe torto, e Richard Carrier tutte le ragioni del mondo, a credere in un Paolo autore sostanziale delle epistole paoline, ovviamente nella versione ridotta preservata (si spera) fedelmente da Marcione, rispetto a quella sicuramente corrotta dai proto-cattolici finita oggi nelle nostre fetide bibbie.

Quale direzione scegliere? 

Intanto, sono soddisfatto, per il momento, ad aver ridotto il problema ad un bivio, anziché ad un trivio (come sarebbe, se avessi cioè aggiunto la terza possibilità contemplata e seguita da Turmel stesso: di un Paolo storico non mistico a cui viene iniettata un'intera mistica nel secondo secolo, a suon di interpolazioni).

Ripeto quale è tale bivio: o Paolo è tutt'intero un prodotto fatto e finito del secondo secolo, oppure il Paolo dell'Apostolikon è sostanzialmente il Paolo autentico. Tertium non datur. 

GLI SCRITTI DI SAN PAOLO

I

L'epistola 

ai Romani 

traduzione nuova con introduzione

note e commentari

di 

HENRI DELAFOSSE


INTRODUZIONE

Quando Paolo scrisse l'epistola ai Romani (nell'anno 56), egli dimorava a Corinto. Il suo domicilio era nella casa di Gaio, che era anche il luogo di riunione «di tutta la chiesa» (Romani 16:23). I cristiani di Roma non gli avevano mai dato segno di vita; egli non li aveva mai visti.

Nondimeno egli si decise a inviare loro una lettera che, così come si presenta a noi oggi, comincia con un alto complimento (1:8: «Si celebra la vostra fede nel mondo intero»), poi si imbarca in una teologia astrusa alla quale sono associate prescrizioni morali talvolta inaspettate (per esempio 13:7: «si deve pagare il tributo») e osservazioni retrospettive ancor più inaspettate (6:18-23, i cristiani di Roma hanno vissuto un tempo nella dissolutezza).

Gli esegeti si domandano perché Paolo abbia spedito alla comunità cristiana di Roma quel pasticcio strano, e ne danno solo spiegazioni abbastanza imbarazzanti. In ogni caso, le loro soluzioni lasciano il posto per nuove ricerche.

Si passeranno qui in rassegna successivamente tutte le questioni trattate dall'epistola. In questo esame si seguirà per quanto possibile l'ordine dell'epistola stessa. Però, qua e là, si sarà obbligati ad abbandonarlo. E precisamente, fin dall'inizio, gli si farà un'infedeltà, poiché ci si occuperà prima di tutto della questione della raccolta.

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