martedì 23 agosto 2022

IL DOCUMENTO 70Il Paolo storico degli Atti

 (segue da qui)

VI. Il Paolo storico degli Atti.

A seguito dei rimaneggiamenti successivi di cui sono stati oggetto, i libri storici dell'Antico Testamento rappresentano le epoche anteriori alla Legge come se fossero già stati sotto il regime della Legge. Attraverso la stessa mancanza di prospettiva storica, il Nuovo Testamento ritrae le epoche precedenti allo sdoppiamento del messianismo come se fossero già ispirate da quella idea. Così, la Chiesa attribuisce a Paolo delle epistole che suppongono lo sdoppiamento, fenomeno che Paolo doveva ignorare poiché visse prima dell'anno 70. Per ricostruire la vita storica di Paolo, conviene dunque scartare in quanto sospetta la testimonianza di queste epistole. Esporremo più oltre altre ragioni che crediamo di avere per contestare la loro autenticità.

Per contro, è sorprendente fino a che punto il libro degli Atti, attraverso tutti i rimaneggiamenti, lascia ancora trasparire la verità storica, purché lo si legga con una mente libera da ogni pregiudizio dogmatico e teologico.

Nel capitolo 18 il libro degli Atti riporta che Priscilla e Aquila incontrano a Efeso un ebreo alessandrino di nome Apollo, che senza aver mai avuto alcun contatto con Gesù o i discepoli, semplicemente perché era versato nelle scritture e conosceva il battesimo di Giovanni Battista, insegnava una dottrina esattamente (άκριβώς) conforme a quella degli apostoli. La dottrina degli apostoli non differiva quindi essenzialmente da quella che poteva insegnare un uomo che non sapesse nulla dell'esistenza di Gesù. Era dunque il messianismo nazoreo, non il cristianesimo, che predicavano gli apostoli.

Naturalmente, questo episodio imbarazza alquanto gli esegeti che non si sono mai sognati di dubitare dell'origine cristiana del ministero di Paolo; i teologi lo hanno dichiarato inautentico, senza rendersi conto che in questo caso il suo peso si troverebbe piuttosto accresciuto che diminuito. Infatti, se dovesse ritrovarsi confermato che questo tratto è stato interpolato nel racconto degli Atti, ciò proverebbe semplicemente che, perfino in un'epoca posteriore, si faceva ancora della dottrina degli apostoli un'idea diversissima da quella che doveva prevalere più tardi nella Chiesa.

La nostra tesi si trova confermata dall'esame dei discorsi che, secondo gli Atti, Paolo avrebbe pronunciato sia nel corso dei suoi viaggi missionari, sia nel corso del suo processo. Questi discorsi impressionano per l'assenza quasi totale di ogni pensiero specificamente cristiano. I teologi stessi ne sono stati colpiti, ma se, per spiegarla, sono ricorsi di nuovo all'espediente di dichiarare secondari questi discorsi, non si vede neppure quale vantaggio sperano di ottenere da quella argomentazione. È il caso dei discorsi di Paolo come dell'episodio di Apollo: più la loro stesura è stata tardiva, e più diventa flagrante la loro contraddizione con le concezioni che dovevano presto fissarsi definitivamente nella Chiesa.

Il discorso di Paolo all'Areopago, per esempio, è una dissertazione sulla concezione ebraica della divinità, messa in parallelo con quella della filosofia pagana. Sappiamo che Paolo era un ex fariseo. Ora, di tutte le sette ebraiche, quella dei farisei era la sola che si preoccupava di diffondere le sue dottrine tra i gentili. Sembra perfino, in questo senso, aver peccato per eccesso di zelo. Un testo che il vangelo secondo Matteo pone in bocca a Gesù stesso, li accusa formalmente di questo (Matteo 23:15).

La prima parte del discorso di Paolo all'Areopago non differisce in nulla da quelli che i propagandisti farisei potevano fare ai pagani nei loro viaggi missionari. Tuttavia, Paolo non era rimasto fariseo, si era convertito al messianismo. Ecco perché, alla fine del suo discorso, annuncia il giudizio finale e l'avvento — escatologico, beninteso — del Messia. Tutto ciò non esula dal quadro del messianismo precristiano. Ma questo quadro è rotto alla fine del discorso, da una porzione di frase che fa menzione della resurrezione del Messia — di questo stesso Messia che fin qui il discorso aveva presentato ai pagani unicamente come il giudice supremo del giudizio finale. Questa porzione di frase si collega quindi male a ciò che precede, c'è addirittura un flagrante disaccordo, e non esitiamo a considerarla un'aggiunta. Di per sé, la menzione della resurrezione dei morti che è ritenuta provocare il tumulto non ha nulla di inverosimile, perché questa è un'idea comune ai farisei e ai messianisti. Siamo lontani dal Deutero-Paolo delle epistole, che non vuole sapere altro che Gesù Cristo, e Gesù Cristo crocifisso.

Rileggiamo anche la storia del processo dell'apostolo. Dapprima lo si accusa, a torto o a ragione, di aver introdotto dei Greci nel Tempio. Questa è un'accusa che risulta dalla sua attività missionaria, e abbiamo visto che sforzandosi di fare proseliti, Paolo non ha fatto che seguire l'esempio dei suoi vecchi amici farisei. Lo si accusa anche di predicare contro la Legge e il Tempio; questa è una denuncia che, molto prima dell'avvento del cristianesimo, i rappresentanti del culto ufficiale scagliavano contro la setta dei messianisti.

Davanti al sinedrio, Paolo dichiara che viene messo sotto processo — a causa della sua fede cristiana? — Per nulla, ma a causa della resurrezione dei morti, quella credenza comune ai farisei e ai messianisti. «Il discorso prestato a Paolo cancella completamente ciò che vi è di specifico nel pensiero cristiano» (Goguel, Atti).

Davanti a Felice, l'avvocato Tertullo è incaricato di rappresentare l'accusa. Se è vero che Gesù era stato condannato a morte con il consenso, per quanto dato con malincuore, delle autorità romane, niente era più facile che accusare Paolo di propagare le idee di un uomo ufficialmente riconosciuto ufficialmente per un criminale politico. Bastava citare l'iscrizione che Pilato aveva fatto mettere sulla croce per denunciare la nuova dottrina come una minaccia diretta contro l'Impero. Al contrario, Tertullo si accontenta di accusare Paolo di fomentare le divisioni, di essere il capo della setta dei Nazorei (da non confondere con i Nazareni), e di aver tentato di profanare il Tempio. In sua difesa, anche Paolo non dice ancora nulla che sia specificamente cristiano. Il dibattito si sposta di nuovo attorno alla resurrezione dei morti. Qualche giorno più tardi, Felice, in compagnia di Drusilla, sua moglie, che era ebrea, lo ascolta sulla «pistis eis Christon». La preposizione eis permette forse di interpretare quella fede come rivolta al futuro. Non è quindi impossibile tradurre: «l'attesa del Messia».

Il racconto di questo processo riportato dal Nuovo Testamento più minuziosamente di qualsiasi altro evento, non suppone dunque per nulla l'esistenza storica di Gesù. Si può perfino affermare che la esclude. Se ancora si trattasse solo del Gesù del Vangelo, ci si stupirebbe solo a metà, perché da lunga data la teologia stessa ha dovuto constatare, senza del resto mai poterla spiegare, l'assenza del Gesù dei Vangeli nelle epistole attribuite a Paolo. Ciò che è più grave è che il racconto del processo di Paolo negli Atti non fa nemmeno alcuna menzione della morte di Gesù, che eppure è la base di tutta la teologia delle epistole paoline. Il Paolo degli Atti non conosce né la vita di Gesù secondo i vangeli, né la sua morte secondo le epistole.

Tentiamo ora di riassumere in poche parole la vita dell'apostolo Paolo, tale come si presenta nella nostra ipotesi. Nel suo «Cristianesimo antico», Guignebert indica le ragioni per le quali è impossibile che l'autore delle epistole paoline abbia fatto degli studi da fariseo a Gerusalemme; crede quindi di dover concludere per l'inautenticità dei testi che fanno di Paolo l'allievo di Gamaliele. Ma la distinzione che abbiamo appena stabilito tra il Paolo storico degli Atti e il Deutero-Paolo delle epistole ci permette di lasciare al Paolo storico il ruolo di un antico zelota del fariseismo come ce lo presentano i documenti del Nuovo Testamento.

Abbiamo già insistito sull'antagonismo che esisteva tra i farisei e i messianisti. È quindi naturale che un zelante fariseo come Paolo, anche prima dell'avvento del cristianesimo, si sia fatto il persecutore delle idee messianiche, che peraltro, già a quell'epoca, dovevano contare un certo numero di adepti tra i Greci. Infatti, di tutti i martiri messianisti, quello la cui fine eroica sembra aver più colpito il giovane fariseo, porta un nome greco, Stefano.

In seguito a una crisi alla quale non sembrano essere state estranee le impressioni ricevute durante la lapidazione di Stefano e uno scuotimento patologico del sistema nervoso, Paolo si converte al messianismo. Egli contribuisce fortemente alla propagazione delle idee messianiche nelle sinagoghe giudeo-ellenistiche e tra i gentili. Dopo un processo clamoroso, che fornirà più tardi alcuni elementi alla leggenda evangelica del processo di Gesù, è inviato a Roma. E poi le sue tracce si perdono. Sugli ultimi anni della sua vita e sulla sua morte, la tradizione ci ha conservato solo leggende senza alcun valore storico.

Come è possibile che la Chiesa non ci ha conservato nessuna informazione autentica sulla fine del più grande dei suoi apostoli? È perché ci avviciniamo all'anno 70. Il messianismo precristiano si evolverà nel cristianesimo. Si può immaginare che in Paolo l'influenza della sua educazione farisaica fosse ancora troppo forte perché potesse prendere parte a quell'evoluzione: egli restò forse fedele alla forma precristiana del messianismo. Dovettero allora scoppiare dei dissensi tra lui e le comunità che aveva fondato. La Chiesa preferì gettare il velo su queste storie poco edificanti creando leggende che lo fanno morire da martire della causa cristiana. Il Paolo storico degli Atti scomparve dalla scena, comincerà il regno del leggendario Pseudo o Deutero-Paolo delle epistole.

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