mercoledì 24 agosto 2022

IL DOCUMENTO 70Il Deutero-Paolo delle Epistole

 (segue da qui)

VII. Il Deutero-Paolo delle Epistole.

L'Apocalisse di Giovanni, che abbiamo considerato come il ponte che lega il messianismo ebraico al messianismo cristiano, inizia, dopo i due prologhi, con un ciclo di 7 epistole indirizzate a sette chiese. Una fase letteraria un po' più avanzata del cristianesimo primitivo ci offrirà un altro ciclo di 7 epistole attribuite a Ignazio, e indirizzate anch'esse a 7 chiese. È inquadrato cronologicamente da questi due cicli di epistole che si presenta quello delle epistole paoline, indirizzate, come loro, esattamente a 7 chiese: a quelle dei Romani, Corinzi, Galati, Efesini, Filippesi, Colossesi e Tessalonicesi. Quella coincidenza aveva già colpito gli antichi, poiché il canone di Muratori dichiara che se Paolo ha scritto a 7 comunità, era per seguire l'esempio di Giovanni nell'Apocalisse.

Se, continuando ad applicare il simbolismo del numero alla letteratura epistolare, aggiungiamo a queste 7 epistole la seconda ai Corinzi e la seconda ai Tessalonicesi, le due a Timoteo, quelle a Tito, a Filemone e agli Ebrei, troviamo che il numero totale delle epistole attribuite a Paolo è 14 = 2 x 7. A questo gruppo di 14 epistole paoline vengono ad aggiungersi due di Pietro, tre di Giovanni, una di Giacomo e una di Giuda, che portano il numero totale delle epistole del Nuovo Testamento a 21 = 3 x 7.

Questo numero sacro di 7 è troppo caratteristico dei metodi familiari alla letteratura apocalittica perché si possa vedere, nelle epistole paoline, qualcosa di diverso da un nuovo ramo di quella letteratura. Perché se l'antichità in generale ignorava il principio della proprietà letteraria e se i Greci e i Romani attribuivano comunemente i loro scritti a uomini ai quali pretendevano così di rendere omaggio, la pseudepigrafia è una procedura costante nella letteratura apocalittica. La più classica delle apocalissi, quella che è divenuta il prototipo di tutte le altre, era attribuita a Daniele. Altre furono attribuite ad Adamo, a Enoc, a Mosè, ai 12 patriarchi. La Chiesa pagano-cristiana non ha fatto quindi che seguire fedelmente la tradizione che gli era prescritta dai suoi immediati predecessori, attribuendo i suoi scritti didattici al primo dei suoi apostoli, a Paolo.

I negatori dell'autenticità delle epistole paoline fanno anche valere che nei dati biografici su Paolo inseriti negli Atti, non è fatta alcuna allusione alla sua attività letteraria; che quando arrivò a Roma, nessuno sembra conoscerlo in quanto autore dell'epistola che è ritenuto aver scritto ai Romani; infine può sembrare sorprendente che un ex fariseo citi l'Antico Testamento secondo la versione dei Settanta e non secondo il testo originale, che doveva sapere più o meno a memoria. Gli accade perfino a più riprese di basare le sue speculazioni su un errore di traduzione della versione dei Settanta.

Vi è di più: l'autore anonimo delle epistole paoline ha cura di non menzionare mai la distruzione di Gerusalemme nel 70. Ovviamente, poiché egli dà ai suoi scritti la forma di lettere scritte prima di quella data! Eppure le idee che sviluppa presuppongono quella catastrofe, il che è particolarmente evidente nel capitolo 11 dell'epistola ai Romani. Ma se questo testo è stato scritto dopo il 70, non può essere un caso che l'autore eviti con tanta cura di parlare espressamente della fine tragica della guerra giudaica.

Crediamo, quindi, che se quattordici epistole del Nuovo Testamento portano il nome di Paolo, non può trattarsi che di una finzione letteraria. Ma possiamo ritenere che queste epistole rappresentino la dottrina professata dopo il 70 dalle comunità della diaspora, la cui origine può in generale essere ricondotta all'attività di Paolo. Costui, naturalmente, aveva potuto insegnare loro solo il messianismo precristiano, ma quando dopo il 70 quella fase del messianismo si evolse nel cristianesimo, esse non tardarono a seguirne l'esempio. Non lo fecero senza combinare le idee messianiche di origine ebraica con altri elementi ispirati al loro ambiente circostante, in particolare alla miscela di religioni pagane che erano allora in voga nelle colonie romane, e che si definisce il sincretismo orientale.

La dottrina che doveva logicamente risultare da quella sintesi è precisamente quella che è sviluppata nelle epistole attribuite a Paolo. Conviene esaminare separatamente i due elementi costitutivi di quella nuova dottrina, dapprima quello che deriva dall'idea messianica e in seguito quello che è stato ispirato al sincretismo orientale.


a) L'elemento messianico della dottrina deutero-paolina.

La dottrina dell'espiazione sostitutiva, che forma la base della teologia del Deutero-Paolo delle epistole, suppone necessariamente la passione del Messia. Ora, il documento 70, nel quale abbiamo riconosciuto la prima bozza del racconto evangelico, se già ci rappresenta il Messia perseguitato da Satana, non fa ancora alcuna menzione né della sua passione né della sua morte. Ci mostra il Messia portato via verso Dio, ma sembra che si figuri questo rapimento, come quello di Enoc, non preceduto dalla morte. In Deutero-Paolo, al contrario, che è certamente anteriore ai Vangeli poiché li ignora, la crocifissione del Messia è diventata la base di tutta la sua teologia. Cosa si è quindi verificato?

Si è verificato un evento di un'importanza così capitale per la nostra Storia che è esso, e non la data ipotetica della nascita di Gesù Cristo, che si sarebbe dovuto prendere per punto fisso del nostro sistema cronologico: Gerusalemme è stata distrutta, e durante l'assedio, i Romani hanno crocifisso un gran numero dei loro prigionieri. Il legno, si dice, finì per mancare per questo supplizio. Lo storico Giuseppe riporta di aver visto, in una cavalcata che fece attorno alla città, diverse centinaia di ebrei inchiodati alle croci.

Nella letteratura ebraica, l'idea del Messia non ha mai avuto contorni ben precisi. A volte, come in Daniele, ci appare come la personificazione di un ideale umanitario; più tardi, ci è rappresentato come un guerriero, che libera il suo popolo dal giogo dei Romani, oppure come il giudice supremo che presiede al giudizio finale. Altrove, ci appare spiritualizzato e privo di ogni carattere nazionale. Infine nelle epistole paoline, diverrà la personificazione della comunità dei fedeli, il suo corpo essendo la Chiesa. Non sarebbe stato in un senso analogo, cioè come personificazione della comunità dei fedeli, che, al limite tra il messianismo ebraico e il messianismo paolino, nel momento in cui così tanti ebrei furono crocifissi dai Romani, si sarebbe parlato per la prima volta della crocifissione del Messia?

Le aspirazioni politiche dei messianisti furono definitivamente infrante. Non restava loro che soffrire e, per rendere queste sofferenze tollerabili, farle rientrare nel piano divino. Si doveva adattare l'idea del Messia a questo nuovo ruolo. La nazione intera è crocifissa, e il Messia, personificazione della nazione, ci viene rappresentato inchiodato sulla croce.

Se i messianisti ebrei credevano già nella virtù espiatoria delle sofferenze dei giusti, quella virtù doveva a maggior ragione essere attribuita alle sofferenze di coloro che erano stati crocifissi dai Romani per aver combattuto per la buona causa della loro patria e della loro fede.

Se si considera così la passione del Messia alle sue origini come un simbolo che concretizza la disfatta della nazione ebraica, si scartano di colpo una serie di difficoltà sollevate dall'interpretazione storica del racconto della passione. Come può Gesù, sebbene condannato dagli ebrei, subire il supplizio romano della croce? E come ha potuto il sinedrio, un gran giorno di festa equiparato al sabato, intraprendere una spedizione a mano armata per fare arrestare Gesù, sedere in giudizio e fare eseguire una sentenza? 

Il processo stesso è un groviglio di impossibilità e di contraddizioni, sia a riguardo della legge ebraica che del diritto romano, a tal punto che i giuristi più competenti vi si perdono. Essi hanno finito per dichiarare questo processo, dal punto di vista giuridico, una autentica mostruosità.


b) L'elemento sincretistico della dottrina deutero-paolina.

Noi crediamo quindi che l'idea della passione del Messia non debba essere ridotta al fatto individuale della crocifissione di un uomo, ma al fatto collettivo della disfatta degli ebrei da parte dei Romani nel 70. Ecco l'elemento che la teologia delle epistole attribuite a Paolo ha mutuato dal giudaismo. Ma quella idea aveva anche una notevole affinità con i tratti essenziali del sincretismo orientale e non doveva tardare ad assimilarli. Guignebert, nel suo «Cristianesimo antico», dà a questo argomento dettagli di grande interesse, che cercheremo di riassumere.

Avendo l'Impero romano abbassato, verso l'inizio della nostra era, le barriere che separavano i popoli dell'Oriente, vediamo stabilirsi tra loro uno scambio di idee religiose, che portò ad una miscuglio di religioni definito il sincretismo orientale. Le divinità che si rassomigliano parecchio tendono a confondersi.

Il tratto più sorprendente nella storia mitologica di questi dèi è che sono ritenuti morire in un certo periodo dell'anno per risorgere presto, provocando così nel cuore dei loro fedeli successivamente un profondo dolore e una gioia delirante.

Al fine di partecipare, in senso mistico, alla morte e alla resurrezione del suo dio, il fedele cerca di identificarsi con lui mediante una serie di pratiche cultuali giudicate efficaci. Queste sono in particolare il battesimo del sangue e il pasto di comunione.

È inutile far sottolineare qui ciò che numerosi lavori di storici delle religioni hanno già messo in piena luce, ossia le sorprendenti somiglianze di questi vari riti con il battesimo e l'eucarestia dei cristiani.

Non si tratta solo di riti, ma di una certa rappresentazione del destino e della salvezza, della fiducia riposta in un Signore divino, intermediario tra l'uomo e la divinità suprema e che ha acconsentito a vivere, a soffrire come un uomo, affinché l'uomo, abbastanza vicino a lui per assimilarsi a lui, potesse salvarsi, attaccandosi, per così dire, alla sua fortuna. E questa è precisamente la dottrina delle epistole attribuite a Paolo sulla missione e il ruolo del Signore Gesù, senza che nemmeno l'elemento morale così importante che quella dottrina implicava — voglio dire la prescrizione di una vita non solo pia, ma pura, dignitosa, caritatevole — le fosse peculiare, perché i Misteri avevano, pure loro, ancorché ad un grado minore, esigenze dello stesso ordine, nei confronti dei loro iniziati. 

Essendo il messia degli ebrei assimilato così da Deutero-Paolo al Salvatore, al Soter del sincretismo orientale, egli prende anche il titolo che si applica particolarmente alle divinità salvifiche in Asia Minore, in Egitto, in Siria, quando si parla di loro in greco: il titolo di Kyrios, Signore. Nel linguaggio comune, è con questo termine che gli schiavi greci manifestano il loro rispetto per i loro padroni, ed è in effetti una relazione di padrone e schiavo che Deutero-Paolo intende esprimere quando, riservando per sé il titolo di doulos, schiavo, dà a Gesù quello di Kyrios.

L'attribuzione del titolo di Kyrios a Gesù doveva avere conseguenze impreviste per l'evoluzione del pensiero cristiano. Perché questo termine aveva già un significato ben preciso nella terminologia della religione ebraica: è con questo che la Septuaginta aveva tradotto il tetragramma Jahvé, il nome dell'Eterno. Prendendo il titolo che, fino ad allora, era stato riservato esclusivamente all'Eterno, il Messia comincia a identificarsi con lui, e vediamo così la speculazione cristologica imboccare la via che la condurrà alle grandi controversie dogmatiche del terzo secolo.

D'altra parte, quella nuova dignità di Kyrios conferita al Messia mal si accordava con il titolo che gli avevano dato i messianisti: Ebed Jahvé, servo di Jahvé, ma la Septuaginta e i testi più antichi del Nuovo Testamento rendono l'ebraico Ebed con il greco: païs. Ora païs significa anche bambino o figlio. Si prenderà dunque da ora in avanti il termine païs tou theou nel senso di Figlio di Dio, e per dare più precisione al suo pensiero, lo si sostituirà presto con: hyios tou theou. Il messianismo assimila così la nozione altrettanto ellenistica del «Figlio di Dio», e vedremo presto il quarto Vangelo fare del Messia, il Figlio di Dio, la pietra angolare di tutta la sua teologia. 

Quella analisi dei termini Kyrios, païs e hyios spiega perché, in seguito, la cristologia svilupperà simultaneamente due idee assolutamente inconciliabili per la ragione; la Chiesa interpreterà, in senso sempre più letterale, la nozione di Figlio di Dio, e allo stesso tempo il titolo di Kyrios conferito al Figlio porterà alla perfetta identificazione del Figlio con il Padre. Tutto il mistero del dogma della Trinità risiede lì.

Nessun commento: