Il Dio di CoincidenzaPuò qualcuno negare cheUna cosa dopo l'altraIn sequenza e logicaMai vista primaNon può essere che laInterferenza di un DioDeterminata a provare cheOgnuno che pretendeDi conoscere oraUna cospirazione èDemente?(Kent Murphy)
Quando si parla di miticismo bisognerebbe smettere di adoperare le classificazioni nate all'interno del paradigma prevalente, reo di ritenere ancora autentiche una manciata di “lettere” di Paolo, per mano di studiosi di dubbia profondità o di folli apologeti cristiani ignari per definizione del valore scientifico del miticismo. Gerard Bolland è per un verso effettivamente il diretto erede del grande Bruno Bauer, di Loman, di Pierson e Naber, cioè di tutti i critici radicali olandesi che, con le loro disincantate analisi delle “lettere” paoline, seppero convincerci della totale inautenticità delle epistole. Nello stesso tempo, da studioso intelligente qual è, Bolland muta completamente paradigma. Non c'è più finalmente una ottusa reductio ad Judaeum a guidare la sua ricerca, non c'è retorica giudaizzante nei suoi scritti, assente è pure la solita zolfa del “Gesù ebreo, amen e così via”. Se dietro altri miticisti si poteva scorgere in controluce la vecchia (fallace) convinzione che il mito di Gesù fosse sorto in terra giudaica da pii ebrei adoratori di YHWH come dio supremo, con Bolland non è più così: Alessandria d'Egitto si presta ad essere la vera culla della credenza definita oggi perlopiù come “demiurgia negativa”, e quindi la vera culla del crestianesimo. Per inciso, ho detto: “crestianesimo”, e non “cristianesimo”. Sì, perché il culto di Giosué Chrestos — non una figura storica — precede nettamente il frutto della congiura giudaizzante, vale a dire la religione di Giosué “che fu chiamato il Christos”. Il cambiamento da “Chrestos” a “Christos” ci dà il segreto della nascita del cristianesimo: una demiurgia negativa che fu alterata in demiurgia positiva — in questo senso “giudaizzata” — dove il salvatore (dal demiurgo) Gesù viene identificato, a suon di falsi testimonia, col Messia, il Cristo davidico, per divenire “Gesù Cristo”. Se infatti Gesù fosse rimasto concepito come un essere divino, perfetto — il “Buono” appunto —, avrebbe continuato a rappresentare una perenne spada di Damocle sul capo del dio ebraico, insidiando a quest'ultimo il titolo di dio supremo. Farne un messia davidico sarebbe equivalso a umanizzarlo, a storicizzarlo in tempi recenti, perché il messia era atteso (dagli ebrei) per gli ultimi tempi. Umanizzarlo equivaleva a ridare al dio creatore, a YHWH — e non più a un Dio Padre ignoto —, la supremazia in fatto di dèi. Messianizzarlo equivaleva a subordinare Gesù al dio creatore. Ma l'originaria demiurgia negativa dei crestiani — che provocò, per logica reazione, la setta dei cristiani —, non riconobbe mai la superiorità morale e spirituale al funesto demiurgo. Marcione è stato respinto dalla Chiesa di Roma perché insegnava che “Gesù venne dal Padre che è al di sopra del dio che fece il mondo, al fine di abolire i profeti e la Legge e tutte le opere di questo dio che fece il mondo” (Ireneo, Adversus Haereses 1:27, 2): evidentemente la Chiesa di Marcione, isolata nel Ponto, non si era abbastanza giudaizzata.
“Gesù ebreo”? “Origini palestinesi” ? “Figlio di Davide”? Ma piantiamola. Fatte le debite proporzioni, prese tutte le distanze del caso, penso che la seguente recensione dell'opera di Bolland da parte di G.A. van den Bergh van Eysinga sia un'ottima prefazione ai libri del grande filosofo olandese, di cui offro per la prima volta la traduzione.
(Un'opera postuma di Gerard Bolland — ‘Filosofia della religione’ — è stata già tradotta e pubblicata qui).
BOLLAND SULL'ORIGINE DEL CRISTIANESIMO
In occasione del quinto anniversario della morte di Bolland, de Idee ha pubblicato un numero speciale dedicato a lui (aprile 1927), nel quale l’articolo “Bolland e la religione”, redatto dal pastore E. J. van der Brugh, tratta in modo eccellente questo aspetto; tuttavia, purtroppo, non vi si trova alcun contributo dedicato alla critica radicale di Bolland e ai suoi instancabili tentativi di far luce sul campo ancora oscuro dell’origine del cristianesimo.
Io stesso avevo già avuto occasione, nella mia opera Die Holländische radikale Kritik (Jena, Eugen Diederichs, 1912), di delineare l’importanza di Bolland sotto questo riguardo e di assegnargli un posto d’onore nella schiera dei suoi cultori. Ora mi propongo di esaminare più da vicino le sue numerose pubblicazioni relative a questo ambito di ricerca.
Bolland iniziò assumendo il punto di vista della Leben-Jesu-Forschung liberale. In uno scritto apparso a Batavia nel 1891, “Il Vangelo di Giovanni esaminato nella sua origine”, egli definisce la dissoluzione della figura storica di Gesù e di Paolo ancora come “una degenerazione malsana”, e considera Gesù come l’esempio nel quale vede incarnato al meglio il proprio ideale morale. Anzi, ancora il 21 novembre 1894, in un discorso su “Il cristianesimo non dogmatico” tenuto presso la Libera Comunità, lo sentiamo dire: “Facciamo in modo che la vita evangelica di Gesù rimanga sempre presente alla nostra mente e a quella dei nostri figli come il meglio da cui possiamo trarre edificazione morale e religiosa”. [1] Egli conosceva chiaramente l’esistenza di negatori della storicità, ma non voleva saperne.
Già due anni dopo, scrivendo su “Il cristianesimo nella sua formazione”, [2] egli lascia udire tutt’altro tono. Ora si trova nell’incertezza. Il motto posto in epigrafe al suo saggio è tratto dai Verisimilia di Pierson-Naber: “Ignoramus Christianae religionis prima initia” [=“Ignoriamo i primi inizi della religione cristiana”]. [3] Con il suo studio egli intende offrire una panoramica di dati interessanti, ma rintracciati altrove in modo disperso, per rendere conto a sé stesso e ad altri di ciò che le più recenti ricerche hanno portato alla luce. Non riesce però a giungere a conclusioni riassuntive e definitive, poiché l'Antica Madre (denominazione desunta dal libro di Johnson, Antiqua Mater) possiede “tutto il misterioso e l’enigmatico di una Sfinge”. Egli afferma che, con tutto ciò, non riesce a penetrare il segreto del cristianesimo e aggiunge, in modo scettico, anzi agnostico: “A rigor di termini, probabilmente non sarà mai scoperto.” In questo studio egli dimostra di conoscere, oltre ai già menzionati Pierson-Naber e Johnson, anche Loman, Steck e van Manen.
Solo nel 1906 il suo tono non risuona più incerto. [4] Da allora egli vede il cristianesimo come un nuovo idealismo, sorto nelle sinagoghe ellenistiche della Diaspora, che interpretavano allegoricamente la Sacra Scrittura. Non era forse il giudaismo ellenistico egiziano già un cristianesimo senza Cristo, un preludio al cristianesimo? Il Vangelo degli Egiziani, in uso presso i Naasseni o Ofiti, sarebbe stato il vangelo originario. Questa setta insegnava la trinità del divino. Il più antico vangelo avrebbe rappresentato un Chrèstos (= “Buono”) [5] in senso allegorico, una figura non più giudaica, che nei nostri vangeli è stata mantenuta nella forma giudaica del Christos o Messia. Il segreto degli Gnostici o Intellettuali alessandrini dell’inizio del 2° secolo rimase noto per un certo tempo negli ambienti gnostici, ma lì si degradò rapidamente e si oscurò; i Padri della Chiesa ortodossa dopo il 150 non lo compresero più, e si appropriarono degli scritti dei teosofi del periodo precristiano, ma bandirono dalla Chiesa coloro nei quali viveva ancora lo spirito dell’antica sapienza. Il Vangelo degli Egiziani va considerato come una parabola edificante e salutare per la moltitudine, il cui significato autentico e atemporale poteva tuttavia essere ulteriormente spiegato solo a pochi. [6] Tale significato non va cercato in avvenimenti accaduti intorno all’anno 30 nel paese giudaico; una luce più chiara su ciò la proiettano la Septuaginta, Filone, Seneca, Musonio, Epitteto e altri. “Poiché lo spirito rinnovante del mondo, che ha prodotto l’incomparabile vangelo del vero Figlio di Dio, Giosué, è stato lo spirito di innovatori giudeo-alessandrini, i quali hanno sostituito ‘Mosè, servo del Signore’, con ‘Giosué, figlio del Padre’, poiché essi erano usciti oltre il giudaismo palestinese verso una ‘gnosi’ o conoscenza platonica e stoica”. [7] Il vangelo, secondo lui, sarebbe stato scritto fra il 75 e il 100.
Chiamare Dio “Padre” è un modo di dire greco; presso gli ebrei, Dio era un Signore elevato, sovrumano e soprannaturale. Nel contesto cosmopolita e greco di Alessandria, l’ebreo giunge a comprendere che il vero figlio di Dio non è il giusto, bensì il chrèstos, l’uomo sovrumanamente buono, che media tra gli uomini e la perfezione celeste. Un tale mediatore era anche il sommo sacerdote giudaico, che ad Alessandria veniva chiamato Christos, da intendersi o come mediatore riconciliatore, o come signore redentore. Dalla Stoà, l’ebreo di Alessandria apprende l’interpretazione allegorica dell’Antico Testamento; non si poteva restare fermi al mosaismo palestinese: il successore di Mosè è Giosuè (Jozua), ma il vero Giosuè non è ancora quello; lo è soltanto il Figlio del Padre, riconciliatore e misericordioso, il chrèstos amorevole, quale realizzazione del principio di mediazione, di cui anche il Christos mosaico, ossia il sacerdote unto, non era che un presagio simbolico. Nel Vangelo alessandrino si diceva che bisognava diventare chrèstos come il Padre, che i chrèstoi avrebbero popolato la terra — benché, in senso stretto, solo il Padre potesse essere chiamato buono. Le Scritture ebraiche, per questi gnostici, erano divenute involucri fanciulleschi di qualcosa di molto più spirituale. Il Giosuè evangelico era, come Salvatore, solo in parte giudaico: redentore del giudaismo in quanto redentore dei giudei dal loro giudaismo, re nella misura in cui il suo Spirito, dopo aver compiuto la mediazione sul segno della vita ventura, la croce, era rivissuto nel corpo della Comunità di Giosuè. Il Signore della Comunità era lo Spirito della Comunità.
Quanto precede è tratto da un breve articolo su Chrestus e Christus. Quando Bolland scrive in forma concisa e riassuntiva, senza le innumerevoli citazioni e riferimenti che spesso appesantiscono il testo, è molto più facile cogliere la sua reale intenzione. Ciò rende questo abbozzo divulgativo di particolare importanza.
Nel suo scritto “La passione e la morte di Gesù Cristo”, [8] Bolland espone come l’intero mondo concettuale alessandrino si sia improvvisamente cristallizzato attorno all’idea, elevata a fatto, che nel paese dei giudei la bontà divina abbia camminato in carne e ossa. Sta nella stessa idea di una retribuzione del male con il bene il fatto che la rivelazione di tale idea, ossia la nobile e divina chrèstotès (bontà), debba soffrire e morire per il mondo. L’opera di Bolland “Il Giosuè evangelico” [9] parlerà quindi di una condensazione dell’interpretazione allegorica alessandrina della Scrittura e di una storicizzazione della gnosi giudaica. Gesù è nato dallo spirito della profezia e da una vergine che rappresenta la nazione giudaica: Maria, o Miriam, — nome che esprime il legame con il mosaismo.
Da varie pubblicazioni successive [10] traggo quanto segue: la storia evangelica è stata composta nello spirito dei Doceti, per i quali Cristo era una rappresentazione apparente, un paradeigma, un modello simbolico. Secondo loro, Gesù aveva vissuto, parlato e sofferto solo in apparenza. Il mistero del Cristo è il mistero nascosto di uno spirito che si manifesta nella carne del Vangelo alla fede. Il Figlio evangelico è dunque l’effimero esempio terreno dell’eterna umanità celeste, chiamata “paterna” (secondo Platone): un ideale cinico-stoico e cosmopolita di filantropia. Se il Padre è detto “l’Uomo”, la sua immagine eterna è detta “il Figlio dell’Uomo”, e il mondo è considerato opera di potenze inferiori.
L’opera principale di Bolland in questo ambito è “La grande questione per la cristianità dei nostri giorni”. [11] In essa egli descrive il Vangelo come una reazione contro il messianismo giudaico. Tra il 75 e il 125 sarebbe stata resa nota la Buona Novella, secondo la quale Gesù, prima della caduta del tempio di Gerusalemme, dunque prima dell’anno 70, era apparso in forma umana come sacrificio pasquale perfetto offerto dal Padre al Principe di questo mondo, per inaugurare una nuova alleanza incruenta con il vero Israele.
Alcuni anni più tardi, Bolland riconoscerà nel mistero orfico un fattore importante per la nascita del cristianesimo. Nella sua opera “Orphische Mysterien” [12] le parole finali suonano così: “È evidente che il cristianesimo, con il Figlio che rimane uno con il Padre e con il santo Pneuma di Dio e dell’uomo, non deriva dal giudaismo né dalla filosofia greca; esso parla il linguaggio dei misteri, si presenta come giudaico su uno sfondo teosofico greco, e il Vangelo è una ripetizione — arricchita, elevata e nobilitata dal modo di pensare e di esprimersi giudeo—alessandrino — della concezione orfica riguardante la passione, la morte e la rinascita del dio solare e del dio del vino Dioniso, il Figlio ideale del cielo e della terra, che anima i suoi devoti, li precede e li conduce nell'eternità dell’essere luminoso, che è Padre di sé stesso, Figlio di sé stesso e, oltre a ciò, Pneuma. Il mistero di Cristo, il mistero del Vangelo, è il mistero di Orfeo, il mistero del Pescatore, ma a un livello più elevato”.
Se Loman aveva sostenuto che: la storia evangelica non è la storia di un individuo, ma della Comunità, e che essa è stata intuitivamente e spontaneamente composta da quella Comunità; se Van Manen aveva ritenuto che: i vangeli raccontano sì la storia di un uomo, ma quest’uomo fin dall’inizio è dipinto come uomo-Dio e perciò rimane per noi inconoscibile; Bolland compone una sintesi quando considera il racconto evangelico come la storia dell’uomo-Dio, il quale deve il suo esistere terreno alla necessità della Comunità, cioè della moltitudine non filosofica, proprio perché come idea pura dovrebbe rimanere inconoscibile. L’immagine cristologica evangelica è quindi deliberatamente poetica per la Comunità, e ciò per mano degli gnostici alessandrini. In questo modo viene valorizzato l’elemento poetico di Loman e l’aspetto popolare—filosofico, troppo trascurato nella ricerca. Come avrebbero potuto avvicinarsi le forze culturali ellenistiche, senza questo momento filosofico, al cristianesimo? La sapienza delle scuole filosofiche resta latentemente conservata nel Vangelo: platonismo secondo l’interpretazione alessandrina, Filone, la Stoà più giovane. Così Bolland, insieme al nostro J. van Loon, si colloca più vicino a Bruno Bauer; ma a loro è stato di beneficio ciò che la critica radicale olandese, a partire da Bauer, ha prodotto attraverso Allard Pierson, A. D. Loman, W. C. van Manen e altri.
Si potrebbe, considerando i numerosi predecessori di Bolland, dai cui lavori egli ha tratto soddisfazione e utilità, porsi la domanda se egli sia stato davvero originale. Io rispondo con una frase di Richard Reitzenstein: [13] “L’originalità è, nel senso pieno, un elogio piuttosto dubbio, e anzi incompatibile con la vera cultura, sia per l’individuo sia per un popolo; ben diverso è lodare l’individualità, la forza di riplasmare ciò che si è ereditato secondo la propria natura e nobilitarlo”. Questo è ciò che Bolland ha fatto. Egli ha permesso ai fatti e ai dati, per lo più scoperti da altri, di parlare da soli e ne ha rivelato il significato. A mio avviso, il valore duraturo della sua opera consiste in questo: ci ha insegnato a non guardare più alla Palestina come culla della nuova religione; essa è piuttosto frutto della Diaspora ed è stata originariamente una dottrina segreta gnostica. Bolland ha rivolto la nostra attenzione alle correnti religiose e filosofiche del tempo attorno all’inizio della nostra era. Il celebre filologo berlinese Eduard Norden mi scrisse privatamente, in riferimento a quanto aveva letto su Bolland nella mia Holländische radikale Kritik: “Ho constatato con piacere che le mie concezioni di una teosofia precristiana (egiziano-giudaica) si allineano con i pensieri di Bolland”. [14] La stessa cosa potrebbe oggi dire Erwin Goodenough, il grande esperto di cultura greco-romana, il quale suppone l’esistenza, già un paio di secoli prima di Filone ad Alessandria, di un mistero persiano-isiaco-platonico-pitagorico, fondato su un concetto divino alto e monoteistico, che doveva risultare gradito agli ebrei e che ha condotto alla formazione di un mistero ebraico. [15]
Mentre Bolland ci conduceva a fondo e con piena consapevolezza nella storia del passato, egli al contempo scioglieva la nostra vita spirituale dalla storia stessa; questa infatti non può fondarsi sugli eventi, ma sulla Parola Divina. In lui si compie la parola di Kant, secondo cui il guinzaglio della sacra tradizione, con tutto ciò che comporta di prescrizioni e di obblighi, potrà essere sempre meno necessario e, alla fine, diventare una catena, quando l’uomo sarà maturo. [16] Anche se la rivelazione soprannaturale dell’inizio cade interamente nell’oblio, il cristianesimo non ne risentirebbe, sosteneva Kant. Con la filosofia idealistica, quando essa si unisce alla critica radicale — possiamo dire — questo momento è giunto. Ciò che Hegel, ai suoi tempi, non osava ancora fare, presentando le sue idee rivoluzionarie in modo così velato da permettere alla destra hegeliana in teologia e nella Chiesa di giurarne fedeltà, Bolland lo poteva fare, perché era più libero e per nulla incline a compromessi. Accettando i risultati negativi della teologia moderna, in particolare della Ricerca sulla vita di Gesù, egli si muoveva in accordo con lo spirito di Hegel. La soppressione di ogni cristianesimo ecclesiastico significava per lui l’elevazione del principio cristiano. Quando scrive “La grande questione”, la domanda: “Gesù è esistito?” non rappresenta per lui una grande questione personale. La vera grande questione per la cristianità dei nostri tempi è come, avendo piena conoscenza del proprio passato, possa nobilitare costantemente il proprio futuro. [17] Non appena il protestantesimo liberale si emancipa dalla venerazione sentimentale degli eroi, dimostra la propria pietà facendo parlare la storia: facendo valere la verità sopra la religione; la verità della religione è la religione della verità, una religione capace di sopportare ogni critica e dubbio, consapevole di sé, perché si è elevata alla saggezza. Chi comprende una volta per tutte l’idea dell’unità dell’uomo-Dio, comprende insieme la necessità della sua apparizione positiva, cioè sempre inadeguata, nella storia, ma ritrova comunque in queste modalità imperfette di rivelazione l’idea stessa. La rottura totale con la fede storica porta infine a riconoscere il principio del cristianesimo, che è qualcosa di diverso dal suo inizio.
Che la filosofia idealistica apra la strada alla critica radicale è dunque cosa ben diversa dal sostenere che questa critica sia un frutto di quella filosofia — un equivoco che ho spesso confutato e che ora posso tranquillamente ignorare.
In una difesa della posizione di Bolland di fronte al dott. De Zwaan, ho affermato [18] che chi, da parte liberale, si compiaceva di tale critica, dimostrava di non comprendere quali interessi scientifici fossero in gioco. Trent’anni prima del 1911, la nostra teologia nazionale aveva già conosciuto una lotta pro e contro la storicità di Gesù; la tendenza moderna godeva allora dell’onore di ospitare al proprio interno i campioni pro e contro, e quali campioni! Uomini come Loman e Pierson da una parte, come Scholten, Kuenen e Hoekstra dall’altra. Nel 1911, gli studiosi del Nuovo Testamento nelle nostre file moderne erano ormai poche unità (da allora la situazione non è migliorata!); si lasciava lo studio a un non-teologo, come Bolland. Si possono muovere obiezioni a molte delle cose che Bolland propone, ma come uomo di scienza, si potrebbe rispondere alla semplice critica negativa: non tali auxilio! Lo studioso che considera fattori soprannaturali può possedere e diffondere una grande erudizione, ma non cerca altro che chiarire l'obscurum per obscurius [=“l’oscuro mediante il più oscuro”]. Lo spirito che sostiene il suo ragionamento è non scientifico, e il problema della nascita del cristianesimo per lui non è affatto un problema. Egli conosce infatti già la soluzione, in senso più o meno di fede ecclesiastica, prima ancora di avvicinarsi scientificamente alle fonti, poiché il Nuovo Testamento è per lui la Parola di Dio, e le esigenze dell’animo richiedono una incarnazione della Parola nel passato.
Considerando queste cose, tale critica risulta umoristica; l’intero argomento diventa un quid pro quo: il “credente” non vuole affatto spiegare la nascita del cristianesimo, poiché è qualcosa di assolutamente inspiegabile, di ordine superiore, davanti a cui il pensiero umano si arresta e deve arrestarsi: il frutto di un intervento divino nella storia. Questo unico dogma di pietà, malgrado tutti gli ornamenti filologici, è allora un peccato mortale contro lo spirito della scienza, per il quale nessun perdono viene concesso.
De Zwaan rimproverò a Bolland di non aver confutato un opuscolo dello studente Bart de Ligt. Se avesse invece preso sul serio la prefazione di De Hartog ad esso, il suo approccio verso Bolland sarebbe stato diverso. Tuttavia, il fatto che De Ligt, al momento in cui De Zwaan scriveva il suo articolo, fosse già convinto della correttezza dell’ipotesi di Bolland, sminuisce notevolmente questa testimonianza giovanile contro Bolland.
Nella mia perorazione a favore di Bolland ho detto di non assumere la difesa di ogni sua affermazione, e di pormi scettico di fronte a molte particolarità. Ho persino parlato di punti deboli nel suo ragionamento. Mi dispiace che questo lo abbia infastidito; era tuttavia inevitabile, poiché, in qualità di esperto, avrei indebolito la mia difesa se gli avessi dato ragione in ogni dettaglio come un semplice ripetitore in folio. Da ciò gli derivò il commento che, se non potevo concordare su tutto, ero diventato un arretrato. Questa era la parte piccola e umana della personalità di Bolland, che non diminuisce la sua importanza per la cultura del nostro popolo in generale, né per la mia formazione in particolare.
Non ritengo di rendere onore alla memoria di Bolland per merito mio, astenendomi da ogni critica, anche se egli non la gradiva, neppure da una prospettiva amichevole. Formalmente, a mio avviso, un punto debole consiste nella massa travolgente di dati, per lo più in forma di citazioni, che avrebbero dovuto essere collocati in note, mentre nel testo avrebbero dovuto comparire solo elaborati. Lo stile delle sue opere stanca il lettore e mostra una composizione carente della materia. A titolo di esempio, possono servire i già citati “Orphische Mysteriën” del 1917. È curioso che questo valga in minore misura per i due supplementi, che trattano temi più attuali, come i Rosacroce e lo Spiritismo, sebbene anche questi siano tutt’altro che avvincenti. Ma quanto più il suo tema si spinge nell’antichità, tanto più complessa diventa la costruzione sintattica di Bolland e tanto più sconcertante è la dispersione di dozzine di citazioni, dalle quali non sempre si trae la conclusione.
La sua concezione della Rivelazione di Giovanni, così come la presenta Wolthuis, [19] avrebbe potuto essere diversa e migliore se avesse tenuto conto dei miei studi su quel libro, pubblicati dal 1912. Per me essa non ha più forza convincente, perché con la grande bestia non si può intendere un uomo, e la venerazione dell’imperatore cade al di fuori della prospettiva di questo apocalittico. [20]
Bolland menziona talvolta qualcuno dal quale riconosce di aver appreso con gratitudine, vale a dire il dott. J. R. van Eerde, [21] sebbene con la precisazione che questi, “nella sua mancanza di erudizione filosofica e relativa ignoranza”, ha fatto pubblicare molto materiale che “non può essere definito se non erroneo o inaccettabile”. Chi però ha approfondito la critica radicale qui e altrove, trova in Bolland ripetutamente idee tratte da essa, senza alcuna menzione della loro origine. Secondo una lettera privata a me indirizzata, datata 15 giugno 1911, Bolland, nel mio articolo contro il dott. De Zwaan, avrebbe mancato di citare “De Theosophie im Christentum und Judentum” e “Onze Evangeliën en de oude Theosophie”. Attraverso le considerazioni riassuntive precedenti ritengo di aver colmato questa lacuna. Inoltre, Bolland si aspettava una spiegazione del risultato negativo del metodo delle sottrazioni. Tuttavia, io l’avevo già considerata abbastanza nota, sebbene non attraverso le opere dei critici radicali olandesi, che si preferiva lasciare non lette, ma piuttosto tramite il già celebre libro di Albert Schweitzer “Von Reimarus zu Wrede”.
La terza e ultima lacuna, che secondo Bolland mostrava la mia perorazione, era che non avevo segnalato il racconto della crocifissione come storicamente inverosimile e non avevo menzionato i numerosi riferimenti a una fabbricazione non giudaica relativamente tarda di un dramma misterico ellenistico. Richiamo questi punti per mostrare su cosa, secondo Bolland, consistesse realmente la sua ricostruzione dell’origine del cristianesimo. [22] Egli riconosce espressamente: “Qui risiede il vero miglioramento di quanto io stesso ho detto e sviluppato, senza diminuire l’importanza dell’alessandrismo, come nella domanda filoniana: chi, oltre al Padre dell’universo, è il seminatore del bene in noi (‘Dei cherubini’, 13)? I nostri vangeli, così come sono, riflettono ancora pensieri romani dai tempi di Adriano”.
Tutto ciò posso confermarlo, e nelle mie pubblicazioni successive trova piena applicazione, spesso con nuove argomentazioni, che trasformano le acute supposizioni di Bolland in certezze.
Per riassumere ancora una volta come Bolland concepiva la nascita del cristianesimo — una spiegazione che a me sembra generalmente convincente: Già prima della caduta di Gerusalemme, nel 70 E.C., i giudei mistici concepivano la redenzione non in chiave nazionalistica, ma come mistero: veniva evocato e glorificato un esempio divino e modello di sofferenza e morte terrena. Questi giudei mistici formavano un circolo teosofico.
Per fondare comunità, questi gnostici avevano bisogno per il popolo di un racconto visivo, che circolò come Vangelo tra il 70 e il 125 E.C.. Esso significava che il Signore Gesù di Nazaret, prima della distruzione del Tempio e della rottura del Vecchio Patto, apparve come offerta del Padre al Sovrano del mondo in forma umana, per l’istituzione di un nuovo e incruento patto con il vero Israele. La rottura con il giudaismo nazionale divenne irreparabile tra il 132 e il 135 (rivolta di Bar Kokhba). La Chiesa cattolicizzante o universale insegnò però intorno al 144 (anno dell’espulsione di Marcione dalla Chiesa) che il Nuovo Patto era originato dal Dio dell’Antico Testamento; il Signore di Mosè veniva identificato con il Padre del Signore Gesù Cristo. La Chiesa cattolica reclamò l’eredità dei diritti della teocrazia giudaica, culminanti nel sacerdozio; ciò fu possibile solo quando non vi era più una gerarchia legittima con il suo sommo sacerdote a Gerusalemme. A Roma si dice allora: il Sacerdote-Re è già venuto, ma è stato rifiutato dai capi del popolo giudeo; aveva delegato e inviato successori per stabilire il suo Regno tra le nazioni. I giudei perdono il loro posto di onore arrogante. Cristo salva i perduti, i pagani. Per il proselita pagano non è più necessaria una Legge da interpretare tramite i Farisei; al suo posto entra la fede in una persona, resa sempre più concreta, non tanto soprannaturale come in un’apocalisse, ma con tratti umani. Isaia 53 e Salmi 22:17 LXX descrivevano il Messia come crocefisso. La sofferenza precede la sua vittoria. In questo modo, il Cristo poteva essere identificato con gli dèi misterici tipici del mondo attorno al Mediterraneo.
Così, Gesù diventa un simbolo alessandrino della bontà di Dio, la sapienza di Dio incarnata, 1 Corinzi 1:24: “potenza di Dio e sapienza di Dio”. A questo simbolo viene attribuita l’unità della natura divina e umana. Egli è l'Idea platonica delle idee personificata; perciò è chiamato Primogenito del Padre, immagine di Dio, Logos, il più antico degli angeli di Dio, il grande arcangelo dai molti nomi — tutto ciò già presente in Filone.
La Comunità giudaica a Roma proveniva dal giudaismo ellenizzato della Diaspora. Ancora sotto Traiano (98-117) essa non è rigorosamente ortodossa, ma venera accanto a Jahvé anche Zeus Hypsistos Ouranios e Attis frigio. [23] Jahvé è identificato con Aiôn e Dioniso. Il processo di ellenizzazione del giudaismo ha portato persino a un completo mescolamento con il paganesimo e i culti misterici. Qui si comprende bene la continuità della teosofia giudaico-alessandrina in senso cristiano. L’osservazione di Bolland, secondo cui la perdita del Vangelo alla prima versione dovrebbe far riflettere chi voglia comprenderlo, mantiene il suo valore. Come si potevano far scomparire i cosiddetti ricordi di Simon Pietro annotati da Marco nel territorio giudaico? [24]
Tuttavia, il suo “Vangelo degli Egiziani” come vangelo originale mi sembra un punto molto discutibile. Se con questo termine si intende il noto titolo di un testo perduto, di cui ci sono rimasti solo pochi frammenti, allora io contesto questa interpretazione, perché esistono troppo pochi elementi a sostegno. Mi sembra piuttosto che Bolland, in quel Vangelo degli Egiziani, abbia riunito tutto ciò che riteneva componenti gnostiche del cristianesimo più antico; avrebbe fatto meglio a parlare di cristianesimo alessandrino o teosofico, piuttosto che del “Vangelo degli Egiziani”, proprio a causa dell'ambiguità del termine: un testo praticamente sconosciuto e una teosofia di vasta diffusione.
Allo stesso modo, non attribuisco grande importanza a Christos – Chrèstos, nonostante il fatto che, per effetto dell’itacismo, lo scambio fosse naturale, e per il gioco di parole si trovino anche diverse citazioni a sostegno. Johnson, in Antiqua Mater del 1887, aveva preceduto Bolland di decenni con questa ipotesi. [25]
Si può forse concludere, dall'uso relativamente scarso nel Nuovo Testamento della parola Chrèstos e dei suoi derivati (17 volte) e dal fatto che essa compaia solo sei volte nel senso indicato da Bolland, che il gioco di parole non abbia avuto un ruolo particolarmente rilevante all’origine del cristianesimo? Ma questo è un aspetto secondario. Una ricerca sulla nascita del cristianesimo che non tenga conto dei fatti acutamente osservati da Bolland e delle ipotesi ad essi collegate, dopo la sua morte, non ha fatto progressi per un quarto di secolo, anzi è rimasta indietro per almeno tre quarti di secolo.
NOTE
[1] G. J. P. J. Bolland, „Het Wereldraadsel”, Leida, 1896, p. 614 ss.
[2] „Tvveemaandelijksch Tijdschrift" 1896, p. 210 ss., 313 ss.
[3] «Non conosciamo le origini del cristianesimo».
[4] Il primo Vangelo alla luce di antichi dati, Leida, 1906; Gnosis e Vangelio, Leida 1906. (Inizialmente apparso su De XXste Eeuw).
[5] Cfr. Nederlandsche Spectator 1907, p. 350 e ss.
[6] ‘Stoà-Gnosi-Vangelo’ in XXe Eeuw 1907, IV, pp. 61 ss.
[7] Op. cit., p. 62.
[8] Leida, 1907.
[9] Leida, 1907.
[10] In Nieuws Gids 1907; apparso anche separatamente: Il fondamento dei Vangeli, Amsterdam 1907; Il Vangelo, Leida 1909; 2ª ed. 1910; La Teosofia nel Cristianesimo e nel Giudaismo, Leida 1910; I Nostri Vangeli e l'Antica Teosofia, Leida 1911.
[11] Leida, 1911; 2ª ed. 1913.
[12] Leida, 1917 (luglio), 2ª ed. 1917 (settembre), cfr. p. 46.
[13] Teologia greca antica e le sue fonti in Bibliothek Walburg, Vorträge 1924/5, Lipsia 1927.
[14] Del 27 ottobre 1924.
[15] By Light, Light. ‘The Mystic Gospel of Hellenistic Judaism’, New Haven-Londra, 1935, p. 237.
[16] I. Kant, ‘Religion innerhalb der Grenzen der blossen Vernunft, ed. Kehrbach’, p. 130.
[17] ‘I Libri dei Proverbi’, Leida 1915, p. 237.
[18] Cfr. Theol. T. del 1911.
[19] ‘Filosofia della Religione, secondo dettati, scritti e lettere di G. J. P. J. Bolland’, Leida 1923, pp. 11—19.
[20] Cfr. ora il mio ‘Antichi scritti cristiani’, L’Aia, 1946, pp. 203 ss. Nella bibliografia a p. 209 è indicato tutto ciò che ho pubblicato su questa questione.
[21] Cfr. Bolland, Il primo Vangelo alla luce di antichi dati, Leida 1906, p. IX. Si tratta del libro di Van Eerde: Il Vangelo di Matteo nella sua triplice composizione, Rotterdam 1902.
[22] In questo aveva avuto come predecessori John M. Robertson e Arthur Drews.
[23] Cfr. R. Reitzenstein, Le religioni misteriche ellenistiche, 3ª ed., Lipsia/Berlino 1927, pp. 108, 145 ss.
[24] Il Vangelo, 2ª ed., p. 146.
[25] Pp. 288 ss.
IL VANGELO
Un ‘rinnovato’ tentativo di indicare l’origine del Cristianesimo
DI
G. J. P. J. BOLLAND,
PROFESSORE DI FILOSOFIA A LEIDA.
Vengono educati in maniera psichica gli uomini psichici.
(Ireneo, 1:6, 2)
I
“Quando la Sinagoga” – dice il compianto Herman Schell nella sua ‘Apologia del Cristianesimo’ (H² 219, 220, 226) – “poteva ancora, pressappoco verso la fine del primo secolo cristiano, tentare di opporre l’“Antica Alleanza” alla nuova, il rifiuto del canone alessandrino con i suoi scritti “deuterocanonici” fu allora un mezzo appropriato: gli scritti deuterocanonici, in effetti, non erano affatto utili all’attesa politica del Messia. Siracide e Sapienza conducono all’elevata scuola di Gesù, il Verbo di Dio fatto uomo, ma non alla signoria universale del grande imperatore giudeo; gli Esseni e l'evoluzione ellenistico-alessandrina della religione giudaica furono meglio preparati al Regno di Dio del vangelo di Gesù, poiché essi stessi tendevano a scopi affini”.
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