(segue da qui)
III
Essenza e Causa della Religiosità.
LE DIFFICOLTÀ DEL CRISTIANESIMO. [1]
Cos'è la religiosità? È un senso elevato di comunità, che pensa nell'orizzonte dell'eternità attraverso l'immaginazione sensibile. [2]
Il senso di comunità è l'amore cristiano, cioè un amore privo di desiderio o edificante, che opera in modo elevante. Infatti, ciò che deve renderci veramente umani, ciò che vuole nobilitare e spiritualizzare, deve provenire come un elemento opposto al nostro egoismo. Questo egoismo, che come tutto ciò che è destinato a rimanere costituisce il fondamento duraturo, ha bisogno di una luce rosea che splenda sulle oscurità della nostra natura animale. Così, l'ἀγάπη, in opposizione a ἔρως (sebbene anche Platone usi questa parola per riferirsi all’amore per la vera bellezza), è forse l’esperienza più sublime che possiamo avere come sentimento, anche se in realtà l’amore per la verità lo supera ancora, in quanto rappresenta il più alto sviluppo che può scaturire dalla radice oscura dell’egoismo.
Per essere concreti, è necessario il livello inferiore, ma per meritare il nome di umanità, la nostra vita deve essere nobilitata. E l'uomo, nella vita ecclesiastica, riceve la verità attraverso l’immaginazione; certamente si può offrire alle masse il puro discorso della ragione, ma esse fuggirebbero. Per trattenerle, bisogna raccontare una storia, il che è immediatamente paragonabile alla richiesta comune di chiarire un concetto con un esempio: un tale esempio è già, in parte, una narrazione. La vera questione è se le fantasie proposte agiscano in modo deleterio o benefico.
Così la religione è una questione di immaginazione ragionata, e perciò come predestinata a essere nuovamente distrutta, mentre la teologia, che deve applicare la scienza all’immaginazione, è per ciò stesso predestinata a parlare via via di sé fino a dissolversi. Cosa che i teologi hanno probabilmente già fatto fin troppo, e fatto troppo poco in senso concreto.
Ma se la religione è una questione di sentimento e piena di immaginazione, la sua immaginazione è intrisa del senso della verità; il religioso sente che tutto proviene dall’unità infinita, verso cui tutto ritorna, e che per questa unità nulla ha un'esistenza propria, poiché tutto in essa si dissolve. Per questo, il nome di Dio è come uno schermo posto dall’immaginazione davanti all’infinito: uno schermo nasconde e “protegge”, e la parola Dio nasconde la verità autentica, ma protegge la consapevolezza della sua universalità. L'uomo religioso, a cui si vuole togliere con la ragione il concetto di Dio, sentirà che gli viene sottratto qualcosa di essenziale.
Può ora “un essere umano” superare la religione nel concetto? Sì, ma più di religioso “un popolo” non può essere; [3] chi vuole rendere saggia la massa finirà per ingannarla. Il collegium logicum non è fatto per la nazione; se il filosofo volesse raggiungerla, dovrebbe predicare, e con ogni probabilità verrebbe accusato con rabbia: “Guardate il bugiardo, che laggiù parla diversamente”. [4] Eppure, la massa, dopo ogni critica, vuole anche sentire certezze. Ma la critica, procedendo inesorabilmente per la sua strada, ha fatto perdere anche le cose migliori; il mondo è stato sconvolto dalla parola in quanto tale, come accade nel nostro tempo.
Da dove proviene il desiderio di religiosità, la religiosità stessa? La prima “causa” è l’angoscia della vita, che spinge l’uomo a cercare liberazione dal dolore e dalla sofferenza attraverso il culto di un potere superiore; per questo Lattanzio afferma: Religio esse non potest, ubi metus nullus est. (De ira Dei § 11).
Tuttavia, la domanda è posta solo a metà in modo corretto; non è filosofico chiedere la causa di una categoria, come ad esempio la gravità. “Una” caduta ha una causa, ma “la” caduta ha una sua comprensibilità intrinseca. Non si deve cercare la causa di una categoria, che è un fattore della vita. Nel mondo ricerchiamo cause, ma chi chiede la causa del mondo non è ancora saggio. La vera questione, dunque, è: Come dobbiamo pensare la religione in un sistema ordinato? Per questo la parola è tra virgolette.
Si può invece parlare di una causa della religiosità nel singolo individuo. E la risposta è: l’angoscia della vita. [5]
Ma questa è solo una parte del discorso. L’inizio va distinto dall’arrivo, il fiore dalla radice. La causa risiede nella radice, ma il più alto e raffinato risultato a cui l’albero può giungere sta nel fiore. La radice della religiosità è il bisogno, la pressione, l’egoismo, la necessità di un sostegno. E questa causa può realizzarsi in cose futili come il totem e il tabù, ma anche nel Padre di Gesù Cristo. Il fiore è invece l’autonegazione del religioso, che tuttavia non è ancora la pura rassegnazione, perché in essa si cela ancora l’egoismo. Ma le mieux est l’ennemi du bien; non sottovalutiamo il valore delle cose secondarie. Infatti, è proprio l’animo religioso ad avere un’inclinazione all’auto-nobilitazione, che inizialmente viene alimentata e rafforzata dalla fede nell’aiuto divino; e dunque è linguaggio da strada deridere dicendo: “Sono questi i risultati di secoli di cristianesimo?”
Angeli non lo diventiamo in nessun luogo, e proprio nella donna si cela per prima un demonio, che deve essere trattenuto dagli uomini, mentre l’uomo è una bestia per la sua oscura natura primitiva, la quale deve nobilitarsi grazie alla donna. Perché tutti siamo malvagi, ma con la predisposizione a migliorarci, a convertirci, a mutare strada, e perversa è la nazione che non si lascia più convertire a Gesù Cristo e al Suo Padre. Bisogna ricordare, infine, che convertire e pervertire derivano entrambi da vertere.
Un uomo saggio racchiude in sé tutto ciò che fanno gli altri e, viceversa, una lunga esperienza di vita può conferire una certa autorevolezza, permettendo così una vita filosofica, anche quando non si può più contare sull’aiuto divino. Tuttavia, quell’aiuto divino, che per l’uomo religioso appare come grazia e favore celeste, è nella sua vera essenza una cooperazione dell’eterno con il temporale, attraverso la quale l’uomo stesso diventa più divino. Se pensiamo alla parola “grazia”, possiamo associarla a “discendere” (anche se linguisticamente questo non è del tutto certo), quindi: un favore concesso come un abbassamento, dal signore al servo. Ma… i favori non scendono dalle nuvole. La grazia concede nobilitazione, arricchisce, rende più divino nell’essenza stessa, ma non porta felicità. Tuttavia, ciò che nel linguaggio della Chiesa viene chiamato “desiderio di grazia” dovrà interiorizzarsi, cioè: il desiderio di allontanamento o sollievo dal dolore deve nobilitarsi fino a diventare desiderio di liberazione dalla propria corruzione, se davvero la religione deve spiritualizzare la natura umana. [6]
All’inizio, dunque, il punto di partenza non è molto diverso dall’egoismo, un misero desiderio di favori per ottenere ciò che si vuole, ma… nella vita quotidiana, senza religione, l’uomo non progredisce affatto. In passato si coltivava, come una pianta in serra, un certo senso di comunità, che oggi resta un desiderio inappagato.
E tuttavia, l’inizio non è la questione principale; pensiamo alla Chiesa di Roma. [7] Chi, per esperienza giovanile, è in grado di giudicare con equità le manifestazioni teatrali di quel contesto, dovrà ammettere che non possiamo semplicemente respingerle come un mero strumento di realizzazione dell’egoismo; c’era anche un altro scopo, e fin da subito esse portavano miglioramento e nobilitazione delle anime.
Allo stesso modo, la grazia può interiorizzarsi come desiderio di auto-nobilitazione, che senza religione sarebbe difficile da trovare; la lotta dello spirito divino contro il male nella natura, nella propria natura, è un impegno in cui deve fondersi lo spirito umano, anche se la fede nella radicale malvagità della natura – della nostra natura – è tanto unilaterale quanto la fede nella sua bontà assoluta. Tutto è relativo, tutto si trasforma, e l’uno porta con sé l’altro. Tuttavia, ai suoi tempi Kant, con la sua dottrina della radicale malvagità nell’uomo, fu più saggio e completo rispetto agli “umanisti” solitari della sua epoca, con la loro fede nella bontà onnisciente e onnipotente dell’essere eterno. Senza il diabolico, il divino non è nulla. E la natura è il divenire eterno dell’eterno, la Natura Dei.
In questo contesto parliamo della natura in quanto tale!
Nei primi secoli si discusse molto sulla natura di Cristo: umana e divina insieme. Lattanzio (3° secolo) affermava di non voler entrare in questo dibattito, poiché Dio non è mai nato. [8] Ma allora, che cos’è questa natura divina?
In realtà, possiamo parlare solo di una natura, buona per origine e cattiva per condizione, ma che non è una realtà data. Infatti, Dio o Spirito e Natura sono l’Infinito nella relazione tra giorno e notte, coscienza e incoscienza, veglia e sonno, volontà e meccanismo involontario, come unità nelle opposizioni. Tuttavia, non si deve credere nello Spirito, nel Mondo e in Dio come in cose esistenti; essi sono, così come la natura, un eterno mutamento o un continuo divenire. Nell’infinito Spirito e nella Natura troviamo la nullità umana come un’umanità infinitamente dispersa nel pensiero; la natura non ci dà mai il potere di dire che qualcosa è compiuto, e per questo l’ideale dell’annientamento di sé non sarà qui predicato. Eppure, vi è una differenza tra il sedersi inerte nella morte e lo sforzo eterno per vincere; abbiamo un lavoro incessante, che non sarà mai concluso. Rimaniamo peccatori, ma se non ci impegniamo in questo lavoro, sprofondiamo nel baratro. Questo è particolarmente evidente ai nostri giorni; per natura non siamo peggiori dei nostri antenati, ma la nostra generazione si comporta in modo molto più osceno e immorale a causa della liberazione degli impulsi interiori.
Ernest Renan ha detto che l’umanità è riuscita a mantenere un certo decoro solo grazie alla minaccia dell’inferno. E con malinconia ha esclamato: *“Ah, pauvre bête!” Eppure, la diavolessa nella donna può rimanere ben nascosta, e la bestia selvaggia nell’uomo può essere compatibile con una condotta esemplare, purché si sappia dominare la propria natura. Senza autocontrollo, emerge la bestialità, ed è per questo che dobbiamo lottare e combattere, cosa che è sempre stata sostenuta e incentivata attraverso le favole e i miti, che in qualche misura hanno orientato l’uomo.
La natura è la natura di Dio e, in relazione a nasci (nascere), può essere compresa come un’autonomizzazione dell’idea del divenire, il lato imperfetto di ciò che chiamiamo divino. Se diciamo che Dio è oggi molto insoddisfatto del suo mondo, ci troviamo di fronte a uno specchio cosmico della nostra piccola umanità.
L’uomo dotato di comprensione, che non sopprime né reprime la propria natura, ma cerca di temperarla e nobilitarla, potrebbe dire: Se solo ci avvicinassimo di più alla meta dell’annientamento di sé! E se la saggezza può permettersi unilaterali affermazioni: Dobbiamo privarci, fare penitenza; in ogni caso, cercare di essere soddisfatti nel modo più semplice possibile. Perché la vera libertà è l’autodeterminazione, l’autocontrollo.
Ora, la religione porta al popolo il vero e il giusto; come venerazione dell’Infinito che aleggia nell’immaginazione, essa eleva la ristrettezza mentale fino a una più ampia apertura che le si confà. Tuttavia, il concetto di Dio di un vero credente non sarà mai ampio, proprio perché egli non è un uomo di intelletto. Perciò Goethe poté dire: Come è l’uomo, così è il suo Dio. Il concetto di Dio è sempre stato un riflesso della personalità umana sulle nubi, insegnandoci come si sentiva e si pensava in determinate epoche. Così, il Dio degli ebrei era geloso, invidioso e vendicativo, e proprio su questo sfondo risalta la grandezza del Vangelo, anche se esso non ha reso gli uomini “buoni”. Quanto alle follie del cristianesimo, possiamo ricordare le parole del dotto kantiano cattolico Albert Leclère di Berna: “Il est utile que des folies de vertu brillent, fut-ce d’un éclat absurde, en ce monde perverti, que la sagesse des sages est insuffisante à secouer!” (“È utile che delle follie di virtù risplendano, anche se con uno splendore assurdo, in questo mondo pervertito, che la saggezza dei saggi non è sufficiente a scuotere!”). La questione riguarda l’umanità, che non può essere resa buona nemmeno con i migliori insegnamenti. Tuttavia, gli uomini hanno bisogno di guida, sotto forma di rivelazione, che essi stessi non avrebbero mai potuto concepire, ma che le loro menti possono almeno in parte comprendere. E allora ricevono l’altro lato della loro ristrettezza mentale, ossia una ristrettezza spaziale, qualcosa di più vasto e di più impressionante del loro stesso nulla.
I teologi, che non si accontentano della filosofia, dicono spesso ai filosofi che il loro Dio personale è più di un vago Infinito. E il filosofo potrebbe benissimo chiedere loro, nel silenzio del suo studio, se allora pensano Dio come maschile o femminile, cioè se Dio possieda organi sessuali. E di fronte a un simile invito al pensiero filosofico puro, la risposta abituale è che non si dovrebbe fare una domanda del genere. Tuttavia, Dio e Natura vengono spontaneamente pensati come mascolinità e femminilità, come iniziativa e generazione. Ma questo è solo linguaggio, non fede; la moralità concepisce la propria nullità in relazione all’Infinito. Tuttavia, alcuni hanno bisogno della ristrettezza della fede, e allora la mascolinità assume la sua forma più alta: Dio Padre. E da ciò può davvero nascere qualcosa di buono nell’animo!
La religione è il riconoscimento di una venerabilità invisibile e sminuisce ciò che è presente per trasformare in verità e giustizia ciò che non è presente; ed è proprio questo il grande valore della religione, per esempio, rispetto all'arte. Non bisogna accontentarsi di questo mondo terreno, ma cercare di nobilitarsi attraverso l'astinenza dai piaceri. Tuttavia, perfino i riformati hanno allentato molte delle loro richieste: niente carte, niente teatro, niente danza, perché non possono più farle rispettare secondo l'intento originario. Eppure, nella vera religione, il non amare il mondo resta sempre in primo piano, perché “tutto il mondo giace nel male”. Si può chiamare questa affermazione fanatismo, ma il vero religioso è sempre un fanatico.
Non può provare pace per ciò che dà piacere agli altri. Ed è per questo che i pii non sono veri idealisti. L'idealismo assoluto è assolutamente privo di ideali o di concetti di desiderabilità che non esistono. Ma... così come non si va in chiesa per diventare buoni una volta per tutte, non si impara dal filosofo per essere saggi per sempre e guarire da ogni ideale. Solo nell'ora sacra del collegium logicum l'uomo prende coscienza dell'Idea vera, completa e infinita, dell'Idea divina, che va oltre ogni limitazione e ristrettezza. L'idealismo assoluto non dice che la verità sta arrivando; essa non c'è e mai arriverà. Eppure si potrebbe anche dire che la verità è sempre esistita, perché l'Idea non è così impotente da non avere alcun ruolo nella realtà.
Nel Sud Italia, si possono vedere, di tanto in tanto, asinelli con un bastone tra le orecchie, al quale, sporgente in avanti, è appeso un fascio di fieno. E così l'asinello continua a inseguire quel fieno.
Ebbene, siamo tutti come quegli asinelli. Certo, gli anziani sono diventati più indifferenti, ma se il mondo intero fosse così indifferente, non potrebbe continuare ad andare avanti; è logico che i disillusi, ai quali la vita diventa noiosa, siano rimpiazzati da persone piene di speranza e interesse, e così l'umanità si rinnova costantemente: “l'affaccendata follia resta il segno distintivo della nostra specie”.
Il pio, tuttavia, è un idealista relativo, perché tiene conto solo del proprio ideale. E Cristo è ancora in arrivo! Immaginiamo Cristo anche come il centro della vera e migliore comunità!
Solo l’invisibile può essere venerabile; la bellezza che si lascia vedere può essere chiamata attraente, ma la venerabilità non è generata dall'arte.
Così anche la natura può essere molto bella, ma mai divina. Un'osservazione antica, già fatta da Aristotele, che aggiungeva che essa doveva piuttosto essere chiamata demoniaca. [9]
E quando Camille Flammarion, per il quale l'astronomia è tutto, un giorno le ha detto: “Ah sì, sei tu che noi adoriamo!”, ha dimostrato di non comprendere il significato delle proprie parole da scienziato.
Già di per sé, nel terrore di una tempesta, lo spirito prende parte, se pensiamo che in essa agisca lo spirito divino. Perché la bellezza è, in realtà, saggezza esteriorizzata, così come la saggezza è bellezza interiorizzata. Non esiste una saggezza affascinante; basta osservare le visitatrici di una lezione di filosofia! E la logica, come scienza delle vere relazioni, non è graziosa; se, nel vedere una persona bella, la percezione delle giuste proporzioni o della logica si fa chiara, è molto probabile che in quella persona non vi sia nulla di speciale, né dolcezza, né profondità d'animo, ma solo arido egoismo. Questo termine è qui volutamente forzato, pour besoin de la cause du moment; manteniamo comunque fermo il punto che la bellezza non va adorata, perché solo lo spirituale è venerabile.
Ma ciò che è più degno di venerazione per i più nobili tra noi sarà anche ciò che è più degno di venerazione per l'uomo medio o per la persona comune?
Questo è il lato mistico e, allo stesso tempo, pratico della religione: la religiosità si innalza attraverso ciò che le discende, attraverso ciò che attira a sé, che assorbe nel proprio intimo e che la contrae. E così si arricchisce. Perché il vero nella religione è l'infinito umanizzato, e la sua verità è una verità velata, che se fosse svelata apertamente sarebbe solo sconvolgente per la gente comune. “Vi ho parlato per mezzo di parabole”, dice Cristo nel Vangelo di Giovanni. L'umanità, nel suo insieme, non può comprendere un discorso diretto e puro, e perfino l'istruzione razionale, per quanto desiderabile e lodevole, alla lunga mostra i suoi limiti, perché le masse fraintendono tutto, anche la verità. E, applicandola in modo errato, la piegano sempre al proprio volgare tornaconto. Considerando, tra l’altro, che secondo Schopenhauer, alla massa appartiene sempre uno in più di quanto ciascuno creda.
Per questo la pura ragione [10] deve contaminarsi con l’allegoria, se vuole edificare le masse. [11] E il buon predicatore si pone al di sopra della fede e dell’incredulità del suo uditorio; senza abbassarsi, egli non può innalzare. [12] I nostri moderni predicatori del 1860 e oltre erano brave persone, che non volevano mentire. Ma la loro parola critica risultava interessante solo finché si credeva ancora a qualcosa; quando si imparò a non dover credere a nulla, la gente smise di andare: avevano ascoltato la negazione assoluta in modo troppo improvviso. E le negazioni non edificano. Ciò che non si può più affermare, lo si deve interpretare simbolicamente, così da poter trarre edificazione perfino dal racconto dei demoni che entrano nei porci. (A proposito, si immagini, nota bene, le mandrie di porci di Matteo 8:30 nella terra ebraica, dove (Sanhedrin, Mishnah 11:1) si diceva: “Maledetto chi alleva porci!”) [13]
In ogni caso, l’interpretazione simbolica non è affatto nuova; già Kant osservava che la Scrittura è sempre stata interpretata in relazione ai tempi. Se si obietta che così facendo l’intera Scrittura diventa una tale farsa, ciò è in un certo senso vero, ma non necessariamente sbagliato. [14] Sebbene la Sacra Scrittura, in molti dei suoi testi, diventi preda della critica razionale, non esiste altro libro dal quale si possa estrarre o inserire tanto materiale che offra tanta ispirazione.
E tuttavia gli uomini non si accontentano mai della pura saggezza; un tempo, nella Grecia antica, un filosofo di nome Demonatte fu costretto ad ammettere che l’anima è immortale. Ma, da vero filosofo qual era, aggiunse a quella confessione: “Come tutto il resto!” Eppure, anche allora, nessuno ne fu soddisfatto. [15]
Senza immagini di concetti, nessuna predicazione può avere effetto: il buon predicatore rende la verità tangibile attraverso immagini e, così facendo, diventa prezioso. Nello spirito della religione si avverte una comunione tra la transitorietà della natura e l’eternità della spiritualità. E non esiste comunione senza divisione; non c’è altra comunità che quella della separazione: l’uomo si sente lontano da Dio proprio nel momento in cui cerca la comunione con Lui. Questo è il grande struggimento nella nostra angoscia esistenziale, che la grande massa cittadina ignora, ma che si rivela indistruttibile nel silenzio dell’animo umano.
Pensiamo, a questo proposito, al culte, al culto, al servizio divino, che è la manifestazione concreta di un sentimento comunitario umano rivolto all'infinito. Si percepisce e si vede la comunione con ciò che è elevato e degno di venerazione, pur sentendosi allo stesso tempo separati da quell'invisibile. Proprio nel culto religioso si esprime in modo peculiare questa unione e questa estraneità, senza le quali non sarebbe possibile nemmeno la preghiera. [16] E nella religione, la divisione si manifesta nella consapevolezza del peccato, mentre l'unione si realizza come un'elevante santificazione.
La santificazione, originariamente, significa separazione; ciò emerge chiaramente nell'Antico Testamento, dove in realtà non si può ancora parlare di vera santità, poiché si pone ancora troppa enfasi sulla separazione. La santità è piuttosto una sorta di purezza in mezzo al proprio ambiente, un raccoglimento interiore. La santità è purezza, così come la pulizia è una sorta di santità superficiale, che deve interiorizzarsi.
Ci si deve purificare dalla sporcizia interiore per elevarsi alla santità. Perciò il termine “santo” non è una parola priva di significato, sebbene vi siano santi singolari nel calendario e, per esempio, san Girolamo fosse una persona sgradevole, dura e ostinata, che non sarebbe mai giunta così lontano senza un'incredibile autodisciplina e mortificazione. Ma la figura gloriosa che ci mostra fino a che punto un uomo può elevarsi eticamente è san Francesco d’Assisi, la cui vita, tuttavia, ci fa anche riflettere sul fatto che solo il peccatore ha la predisposizione alla santità, e che la santità stessa non esiste senza il peccato.
Essa non è mai qualcosa di presente; viene vissuta interiormente, ma non come un dato acquisito, bensì come una lotta. Anche qui, la religione non può essere ridotta a un semplice insegnamento; e anche se, attraverso i racconti, abbiamo perso il secondo miglior metodo pedagogico per la santificazione della vita, la massa non crede più nel peccato come un'azione proibita da un essere supremo esterno a noi. Il peccato è ciò che dobbiamo condannare noi stessi e... quasi tutto ciò che è piacevole. Bisogna comunque adeguarsi a certe norme e così l'uomo è costretto a condannare molte cose verso cui è naturalmente incline. Anche in questo, la religione santifica, e nessuna religione offre più spunti di riflessione a riguardo del cristianesimo, perché in esso c’è posto per tutte le categorie di persone. E se c'è un'unica forma di orgoglio che possiamo giustificare in noi, è quella di non aver bisogno di Asiatici per istruirci. Quello che loro sanno, lo devono a noi, e gli studiosi occidentali, degni di tale nome, hanno alle spalle un percorso di studi ben diverso rispetto a un Tagore, per non parlare di persone di altre etnie. [17]
La più ricca e completa tra le religioni è il cristianesimo, [18] che in quanto tale è ricco di contrasti percepibili e di dilemmi. E questi dilemmi sono:
1°. Se il Padre di Gesù sia lo stesso Signore degli ebrei.
2°. Se il Signore Gesù abbia avuto più di una semplice parvenza di umanità.
3°. Se le persone destinate alla beatitudine siano immediatamente beate dopo la morte, oppure se rimangano in un sonno fino al giorno del giudizio.
4°. Se una persona sposata, che mangia carne e beve vino, possa veramente essere un seguace oppure un crocifissore di Cristo.
Queste questioni verranno trattate nei prossimi capitoli.
NOTE AL CAPITOLO III.
[1] I Libri dei Proverbi², Appendice, nn. 13-35.
[2] Salomon Reinach: “un ensemble de scrupules qui font obstacles au libre exercice de nos facultés” [=“un insieme di scrupoli che ostacolano il libero esercizio delle nostre facoltà”]. Un altro: anche questo lato ha la questione, il che non toglie che essa abbia il suo lato nobile.
[3] “The doctrine of the eye is for the crowd” [=“La dottrina dell’occhio è per la folla”]. (The Voice of the Silence). E chi non vuole che i suoi ascoltatori si facciano delle immagini non deve parlare alla moltitudine; essa è chiamata, ma non eletta.
[4] Tale avversione fu sperimentata dal prof. Bolland nel 1904, quando parlò davanti a un uditorio a lui ostile: studenti della Libera Università (cfr. G. A. v. d. Berg van Eysinga, G. J. P. J. Bolland, p. 232). L’accusa di ipocrisia gli fu mossa da parte cattolica. (Cfr. Bolland, De grondslag der “Vrije” e De Tijd, pp. 9-12 e 37).
[5] “Primus in orbe deos fecit timor” [=“Il timore per primo fece gli dèi nel mondo”]. Petron. framm. 27, 1. Stat. Theb. 3:661. E secondo Sesto Empirico, Adv. math. IX, 24, già Democrito aveva detto che nei tempi antichi gli uomini erano spaventati da fenomeni naturali come tuono, fulmini, comete, eclissi di sole e di luna, e credevano che vi fossero dèi che li provocavano. Ma qui si intende allora “soltanto” la religione, la religione in quanto tale.
[6] “Omnia tendunt, sicut ad ultimum finem, Deo assimilari” [=“Tutte le cose tendono, come al loro ultimo fine, ad assimilarsi a Dio”]. (Tommaso, S. c. G. 3:19). “Gratia nihil aliud est quam quaedam participata similitudo divinae naturae” [=“La grazia non è nient’altro che una certa somiglianza partecipata della natura divina”]. (S. Th. 3:62,1). Platone: “assimilazione a Dio per quanto possibile” (Teeteto 176b). Un antico testo magico egiziano menziona “il libro per essere come Dio”. Ippolito Romano verso il 222: “Sei diventato dio quando sei divenuto immortale” (Eresie 10:34). L’Asclepio ermetico alla fine: “Ci rallegriamo perché tu, mentre siamo nel corpo, ci hai divinizzati con il tuo sguardo”. Il Vangelo: “Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio”.
[7] Bolland stesso fu battezzato cattolico, sebbene suo padre non lo fosse.
[8] Lattanzio, De ira Dei 15: “Nolo enim naturam dicere, quia deus nunquam creditur natus” [=“Infatti non voglio dire natura, poiché Dio non è mai ritenuto nato”].
[9] ἡ φύσις δαιμονία, ἀλλ' οὐ θεία ἐστί [=“la natura è demoniaca, ma non divina”]. Aristotele, de divinatione per somnum c. 2, p. 463b 14.
[10] Platone: ἀπρεπῆ τὰ τοιαῦτα πολλῶν ἐναντίον λέγειν [=“è sconveniente dire tali cose davanti a molti”] (Parmenide 136d).
[11] Schopenhauer: “Nuda, la verità non può apparire a un popolo” (2:192).
[12] Sinesio di Cirene: τὰ μὲν ὃικοι φιλοσοφῶν, τὰ δ' ἔξω φιλομυθῶν [=“filosofo in casa, ma fuori amo i miti”]. Crizia: ψεύδει καλύφας ἀλήθειαν λόγῳ [=“coprendo la verità con una menzogna in un discorso”] (Sesto, Adv. Math. 9:54). Massimo di Tiro, Diss. 19:3. Sentiendum cum sapientibus, loquendum cum vulgaribus, et si mundus vult decipi, decipiatur [=“Bisogna pensare con i sapienti, parlare con i volgari, e se il mondo vuole essere ingannato, sia ingannato”]. (La συνοικείωσις [=“adattamento tipico”] dell’antichità).
[13] Cfr. Bolland, Het evangelie², p. 84.
[14] Si pensi al seguente episodio: Sebbene Bolland per principio non andasse mai al capezzale di persone che in tutta la loro vita non avevano avuto alcun interesse per la verità e che nei loro ultimi istanti desideravano appena di udirla, egli tuttavia, su pressante richiesta, andò da un’amica morente della sua defunta moglie. Le pose la mano sul capo e le disse: “Signora, Dio Padre conferma ciò che merita di essere confermato. Ciò che Dio fa, è ben fatto”.
E senza dubbio queste parole le portarono la pace di cui aveva bisogno nei difficili momenti della dipartita.
Ma secondo il contenuto effettivo le fu solo posto davanti agli occhi se una nullità umana valga la pena di un’esistenza eterna. Così la parola, in quanto tale, può essere di consolazione e cara. Cfr. I Libri dei Proverbi I, 940.
[15] Ἀθάνατος ἡ ψυχὴ ὡς πάντα [=“L’anima è immortale, come tutte le cose”]. Luciano, Vita Demonactis § 32.
[16] Cfr. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Religion, ed. Bolland, p. 20.
[17] Bolland il 4 dicembre 1919 in una lezione di filosofia greca: “Due grandi peculiarità possiede l’Europa occidentale: la storia e la matematica”. — “Una filosofia va da Anassimandro a Bolland. Dai libri degli Indù (ottimamente illustrati da Paul Deussen) parla un altro spirito; la sapienza dei Bramini è soteriologica e non giunge alla filosofia”.
Poco prima, il 21 ottobre 1920, Frederik van Eeden aveva fatto sul Groene Amsterdammer un paragone tra Bolland e Tagore.
[18] “The Christian religion in a synthesis”. T. K. Cheyne, Bible Problems (1904).
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