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2. L'UNITÀ DEL LIBRO.
A prescindere dalle conclusioni che si possono trarre sul modo in cui esso fu composto, va riconosciuta la relativa unità del libro nella sua forma tradizionale. Che ci debbano essere lievi aggiunte o interpolazioni è naturale in un libro proveniente dall'antichità, che è stato molto letto ed è passato per le mani di molti copisti. I casi di questo tipo che occorrono e sono riconosciuti dai critici testuali non influiscono minimamente sulla visione generale che dobbiamo assumere. Nessuno dei pezzi che compongono la composizione può essere rimosso senza danneggiare l'insieme. Se supponiamo che essa finisca, come spesso si è pensato, in 14:23, sentiamo che non c'è una vera e propria chiusura.
Nel contenuto come pure nella forma essa è un tutt'uno come si presenta. Con un po' di buona volontà possiamo trovarvi ciò che potrebbe sembrare allo scrittore uno sviluppo coerente della dottrina paolina e una risposta ordinata alle obiezioni mosse contro di essa. Le disquisizioni minori si inseriscono nello schema complessivo. Una conclusione come quella che abbiamo era una sua parte essenziale. Il testo tradizionale non è di conseguenza il prodotto di una congiuntura accidentale di frammenti sparsi. C'è identità di stile, come si può vedere dal confronto con l'Epistola di Giacomo o di Clemente Romano o con una delle Epistole giovannee. Così, anche la maggior parte dei critici che propongono di dividerla sono stati costretti a riconoscere l'origine “'paolina” delle parti separate, e non solo di quella che considerano l'epistola originale indirizzata ai Romani.
Questa insistenza sull'unità dell'opera va messa in primo piano per evitare di fraintendere quanto segue.
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