IV
LA PASQUA NAZIONALE
Dopo un periodo primitivo, caratterizzato dal mito della morte del Sole e della sua resurrezione, allo scopo di assicurare l'abbondanza dei frutti naturali, i misteri antichi furono monopolizzati dalla città, per interessi collettivi, fino al momento in cui gruppi di iniziati convertirono i loro dèi della natura in Salvatori delle anime. Demetra, ad esempio, si presenta non solo come la dea karpophora, colei che procura i raccolti, ma anche come la thesmophora, colei che reca le leggi. [1]
«Sono io, diceva similmente Iside, che ho stabilito le leggi per gli uomini e ho fissato le regole che nessuno può scalfire». [2]
Ritroveremo nel rito dell'agnello pasquale, al seguito di uno sviluppo preistorico in tutti i punti analogo a quello dei misteri, la fase del culto nazionale?
La versione dell'Esodo attribuisce, infatti, alla festa ebraica un valore storico: essa sarebbe un memoriale di un episodio capitale della vita di Israele. Non potendo Jahvé sopportare a lungo una festa agraria estranea al suo culto, ne traspose il significato: il mito dell'agonia della natura, in primavera, cedette il posto alla leggenda del popolo ebraico schiacciato sotto il giogo egiziano, poi rinascente all'improvviso a nuova vita, dopo il passaggio del Mar Rosso.
Il re Giosia aveva intrapreso la lotta contro i culti locali: aveva innalzato il Tempio di Jahvé, percorse la Palestina, profanando gli alti luoghi dove si sacrificava ad altri dèi, gettando le ceneri dei loro santuari sulle tombe, affinché fossero per sempre contaminate; poi fece il comandamento di celebrare la Pasqua al Signore come una grande festa nazionale. Questa volta il sacrificio degli agnelli non fu abbandonato all'iniziativa dei padri di famiglia; esso ebbe luogo nel Tempio stesso e per le cure dei leviti: [3]
«Quindi immolarono la Pasqua; i sacerdoti spruzzavano il sangue con le loro mani, mentre i Leviti scuoiavano gli animali... tutto il servizio del Signore fu preparato per celebrare la Pasqua e per offrire olocausti sull'altare del Signore, secondo l'ordine del re Giosia». [4]
Il profeta Ezechiele ha persino tentato di cancellare completamente il carattere familiare della Pasqua per sostituirgli un sacrificio espiatorio a Jahvé. Egli consigliava di sacrificare, il primo e il settimo giorno dell'anno, un giovane vitello senza difetto, e di macchiare col suo sangue le porte dei cortili del Tempio, così come i quattro angoli sporgenti dell'altare. Il 14 nisan, all'inaugurazione della festa degli azzimi, il principe avrebbe offerto un vitello per i suoi peccati e quelli di tutto il popolo. [5]
Agli inizi dell'era cristiana, la Pasqua era diventata un grande pellegrinaggio popolare. In quell'occasione, da tutte le parti della Palestina, così come dall'estero, gli ebrei accorrevano a Gerusalemme, per rinnovare la loro fede nella tradizione degli antenati. Giuseppe [6] ha potuto valutare a tre milioni l'affluenza dei viaggiatori nella città santa.
Ma l'opera di asservimento a Jahvé dell'antico rito solare portò ad una vittoria completa e definitiva? E occorre allora considerare il cristianesimo come un ramo staccato dalla leggenda rifondata dall'Esodo? Oppure ammetteremo che, in concomitanza alla festa nazionalizzata, una Pasqua esoterica sussistette all'ombra del Tempio, custode della tradizione originale, fino al giorno in cui, sotto la spinta di una recrudescenza di misticismo, essa pervenne a soppiantare la religione ebraica, che credeva di averla estinta?
Sembra difficile ammettere che un rito messo al servizio dello stato e divenuto propriamente ebraico abbia potuto generare una religione dell'individuo, che avrebbe dovuto rovinare nel contempo il giudaismo e lo spirito nazionale. La mutilazione operata dai leviti ne arrestò l'evoluzione. Una convinzione patrocinata dalle autorità pubbliche svanisce e non trova più la vitalità necessaria per fare opera vitale. L'agnello, un tempo emanazione del Sole e fonte di rinnovamento, non era più altro che un animale da ovile, immolato alla gloria di Jahvé. L'antica comunione domestica aveva perso il suo rude carattere di cibo divino per simboleggiare solo una favola popolare. In simili condizioni, la leggenda di un dio sacrificato, che dona per mezzo dell'eucarestia il suo corpo e il suo sangue, non avrebbe potuto prendere forma.
Ma la leggenda di Giosia rivela che, a dispetto di tutti i tentativi di nazionalizzazione, sussisteva tra gli ebrei una tendenza a celebrare la Pasqua al di fuori del culto ufficiale. Se questo re si è sforzato perché il sacrificio fosse d'ora in poi compiuto dai sacerdoti, è chiaramente er lottare contro il costume primitivo, ancora in vigore a quell'epoca, molto tempo dopo l'uscita dall'Egitto.
«In Israele non era stata celebrata una Pasqua come quella dai giorni del profeta Samuele. Nessuno dei re d'Israele aveva mai celebrato una Pasqua, come quella celebrata da Giosia». [7]
La sua riforma non fu affatto interamente rispettata:
«Tuttavia», confessa il narratore, [8] «i sacerdoti degli alti luoghi non salirono all'altare del Signore a Gerusalemme, ma mangiarono pane azzimo in mezzo ai loro fratelli».
Il rito della Pasqua comporta, infatti, come pratica essenziale e caratteristica, il consumo del pane senza lievito, spezzato con le dita da chi presiede alla festa e distribuito in frammenti, prima della condivisione dell'agnello arrosto, a simboleggiare l'unione dei membri della famiglia, a loro volta frammenti di uno stesso corpo. I sacrificatori degli alti luoghi, che continuavano dopo il regno di Giosia a mangiare pani senza lievito, ai margini della liturgia ufficiale, sembrano essere i membri di una setta esoterica della Pasqua.
Però, se è da un culto indipendente che il cristianesimo trae probabilmente la sua origine, non si deve concludere che il rito nazionalizzato, che festeggiava la salvezza di Israele, non abbia avuto sul suo sviluppo alcuna influenza. La Pasqua primitiva forniva la materia, vale a dire le pratiche cerimoniali che hanno servito da nucleo di cristallizzazione al grande movimento di idee che doveva rinnovare la coscienza spirituale; essa forniva inoltre, tramite un'organizzazione restata familiare e destinata così ad assicurare la conservazione dei membri di una comunità fraterna, il tipo di una religione misterica, dispensatrice di vantaggi personali. Ma se la Pasqua di Jahvé aveva perso il significato profondo del sacrificio originario, per trasformarsi in simbolo, essa diede almeno al simbolo un valore idealista, che trasse il culto dalla sua barbarie magica, per farne un'opera sociale; essa apportò la mitologia di eroi popolari, chiamati a diventare il fondamento dei racconti evangelici e di tutta una filosofia. Questi tipi rappresentativi della gloria d'Israele persero, entrando in una setta che perseguiva fini individuali, il loro carattere propriamente nazionale, per divenire salvatori di anime. A contatto con un'effervescenza collettiva, il rito che celebrava il rinnovamento del Sole acquistò un bagaglio teologico. che lo trasfigurò. Da questo matrimonio nacque il cristianesimo.
I due eroi pasquali che hanno fornito il maggior numero di tratti alla leggenda di Gesù sono Mosè e il suo continuatore Giosuè. Arthur Drews [9] ha stilato un quadro comparativo edificante delle loro opere rispettive:
«Marco», dice, «comincia il suo racconto con l'episodio del battesimo di Gesù nel Giordano. Mosè aveva così inaugurato la sua carriera di capo di Israele col passaggio del Mar Rosso, e Giosuè col passaggio del Giordano. Quella attraversata era considerata come un battesimo... [10] Matteo, nella sua storia dell'infanzia di Gesù, fa anche allusione a quella di Mosè, in quanto il massacro degli Innocenti non forma che l'equivalente dell'ordine del Faraone di uccidere tutti i neonati maschi. Il nome della madre di Gesù, Maria, riproduce quello della sorella materna di Mosè (Miriam) e della madre di Giosuè. La tentazione del Figlio di Dio da parte di Satana risponde al fatto che... Mosè passò quaranta giorni e quaranta notti nel digiuno, quando ricevette da Jahvé i comandamenti, base dell'alleanza con Israele..., per non parlare del racconto rabbinico che riporta che anche Mosè fu tentato da Satana stesso... Se Mosè si circonda di dodici capitribù e di settanta anziani, se Giosuè sceglie dodici aiutanti al passaggio del Giordano, Gesù farà lo stesso e si rivelerà così come loro sostituto. Mosè ricevette la visita di suo suocero Ietro, accompagnato da sua moglie e dai suoi figli; lo chiamano fuori dalla sua tenda e lo rimproverano di consumarsi al servizio del popolo. Allo stesso modo Gesù ricevette la visita di sua madre e dei suoi fratelli, che lo chiamarono di mezzo alla folla e lo accusarono di alienazione mentale... Mosè nutre gli Israeliti con le quaglie e la manna, Gesù sazia il popolo affamato con il miracolo dei pani e dei pesci. Inoltre Mosè aveva attraversato il Mar Rosso e scalato il monte sacro, Giosuè aveva attraversato il Giordano a piedi asciutti,... esattamente allo stesso modo Gesù cammina sul lago... Pietro riconosce in Gesù il Messia, e con due altri discepoli egli è condotto su una montagna dove incontra — chi? — Mosè ed Elia! Gli stessi che fin qui avevano servito da modello al racconto, loro appaiono ora di persona, e Gesù è trasfigurato sotto i loro occhi. Ma tutto questo episodio non è che un pastiche del racconto dell'Esodo, [11] dove Mosè sale sul Sinai con i suoi tre seguaci Aaron, Nadab e Abihu e vi scorge Dio, la cui luminosità lo trasfigura a sua volta... Mosè rifiuta di opporsi all'esaltazione profetica di Eldad e di Medad; allo stesso modo Gesù rifiuta di proibire al taumaturgo straniero i suoi esorcismi... L'espulsione dei cambiavalute e mercanti dal tempio e il rovesciamento delle loro tavole riflette l'ira di Mosè alla vista del vitello d'oro, ira che gli fa spezzare le tavole della Legge... Infine bisogna anche, secondo la concezione di Luca, che Gesù ascenda al cielo..., come si immaginò anche una ascensione di Mosè. Sembra addirittura che il sacrificio volontario di Gesù sulla croce non manchi nella storia di Mosè e di Giosuè».
Arthur Drews non dà le ragioni che gli fanno supporre che questi due eroi fossero messi a morte per la salvezza del popolo; egli parla soltanto dell'usanza, frequente tra i barbari, di offrire in vittime espiatorie i capi, considerati come i migliori tra loro; Sembra però che il racconto del Deuteronomio abbia conservato alcune tracce del sacrificio di Mosè.
«In quello stesso giorno Jahvé parlò a Mosè, dicendo: Sali su questo monte degli Abarim, sul monte Nebo... Tu morrai sul monte su cui stai per salire e sarai riunito al tuo popolo, come Aaronne tuo fratello è morto sul monte di Hor ed è stato riunito al suo popolo». [12]
Il monte evoca bene l’idea di un alto luogo, dove si sgozzavano le vittime. È sul monte Moria che Abramo trascina Isacco, [13] e, per una coincidenza strana, l'esecuzione di Gesù, benché semplice misura giudiziaria, secondo gli storicisti, ebbe luogo a sua volta su un'altura, come un'immolazione rituale.
Il seguito del racconto biblico dà l'impressione che la morte di Mosè non sia stata affatto naturale, che l'ultimo editore abbia semplicemente soppresso i passi relativi a un sacrificio umano, riprovato a suo tempo:
«Mosè, il servo di Jahvé, morì là nel paese di Moab, secondo l'ordine di Jahvé..., non se gl'indebolì la vista, né se gli smossero i denti». [14]
Bossuet ha compreso la necessità di quella morte espiatoria, autentico olocausto, che non lascia più traccia della vittima:
«Affinché si entri nella terra promessa», dice, [15] «bisogna che Mosè muoia, e che la legge sia sepolta con lui in un sepolcro sconosciuto agli uomini».
Il Libro 5 degli Oracoli sibillini ha conservato forse anche una testimonianza del sacrificio di Giosuè: [16]
«Qualcuno ridiscenderà dal cielo, un uomo eminente, che stese le sue braccia sul legno fecondo, il migliore degli Ebrei, colui che un tempo arrestò il sole, parlando con una bella voce, con labbra pure». [17]
I cristiani stessi sono stati colpiti dalla rassomiglianza che unisce Gesù ai due grandi eroi dell'Antico Testamento:
«Vi è ancora su Gesù Cristo», dice Bossuet, [18] una profezia speciale di Mosè; ed eccola: «Dio vi susciterà un profeta come me, della vostra nazione e in mezzo ai vostri fratelli; voi lo ascolterete». [19] È un profeta particolare che Dio promette al suo popolo: un profeta come me, dice Mosè: un profeta simile a me, come egli aggiunge nel seguito».
«Veniamo a Giosuè, figlio di Nun, modello di Gesù Cristo non solo per le sue azioni, ma anche per il suo nome», dice san Girolamo. [20] «Egli passò il Giordano, si impadronì del paese nemico, lo divise tra gli Israeliti vittoriosi e, con la spartizione che fece delle città, dei paesi, delle montagne, dei fiumi, dei torrenti e delle frontiere della Palestina, egli ci rappresenta un'immagine del regno spirituale della Chiesa e della Gerusalemme celeste».
L'assimilazione di Giosuè a Gesù non stupirà, se consideriamo che l'eroe che fermò il sole non è mai stato un conquistatore della storia, come lo rappresenta la leggenda evemerizzata della Bibbia, ma un essere degno di colui a cui egli doveva servire da modello, una personificazione di Jahvé stesso.
Secondo John Robertson [21] e Arthur Drews, [22] Giosuè si identifica con l'Angelo o con il Volto, e doveva divenire il Metatrone del Talmud, il Logos di Filone e del IV° Vangelo.
«Ecco», dice l'Esodo, [23] «io mando un angelo davanti a te per proteggerti lungo la via, e per introdurti nel luogo che ho preparato.
Sii guardingo in sua presenza, e ubbidisci alla sua voce; non ti ribellare a lui, perché egli non perdonerà le vostre trasgressioni; perché il mio nome è in lui».
Ma noi sappiamo che il nome di Jahvé risiede anche nel nome di Giosuè o Gesù, che significa soccorso di Jahvé, e l'Angelo è dato agli ebrei per soccorrerli:
«per proteggerti lungo la via».
L'Esodo dice ancora:
«Il mio Angelo andrà innanzi a te e t'introdurrà nel paese degli Amorei, degli Hittei, dei Ferezei, dei Cananei, degli Hivvei e dei Gebusei, e li sterminerò». [24]
Similmente, al momento della sua morte, Giosuè, ricordando le sue imprese, disse agli ebrei:
«E passaste il Giordano, e arrivaste a Gerico; gli abitanti di Gerico, gli Amorei, i Ferezei, i Cananei, gli Ittiti, i Ghirgasei, gli Ivvei e i Gebusei combatterono contro di voi e io li diedi nelle vostre mani». [25]
Non si può minimamente riscontrare assimilazione più sorprendente.
Un altro passo del libro di Giosuè ci sembra egualmente caratteristico:
«Mentre Giosuè era presso Gerico, egli alzò gli occhi, guardò, ed ecco un uomo in piedi che gli stava davanti, tenendo in mano la spada sguainata. Giosuè andò verso di lui, e gli disse: «Sei tu dei nostri, o dei nostri nemici?» E quello rispose: «No, io sono il capo dell'esercito di Jahvé; arrivo adesso». Allora Giosuè cadde con la faccia a terra». [26]
Così L'Angelo svolgeva esattamente la stessa funzione di Giosuè: capo dell'esercito di Jahvé, per condurre gli ebrei in terra promessa. Noi cogliamo qui una fase curiosissima di sdoppiamento: la versione divina e la versione umanizzata si trovano conservate fianco a fianco.
Il trattato Baba-Bathra del Talmud di Babilonia [27] assegna a Giosuè un titolo che porterà Gesù: Giosuè il Figlio; il trattato Yevamoth [28] lo chiama Principe della Presenza. Anche lì vi è sopravvivenza della personalità dell'Angelo, la cui presenza in mezzo agli ebrei ha permesso loro di conquistare la Palestina.
«Sii guardingo in sua presenza».
Di fronte a simili testimonianze, restano solo gli esegeti storicisti a sostenere che Giosuè fosse un «famoso generale ebreo». Essi si stupiscono che gli ebrei abbiano potuto ritenere questo eroe un essere soprannaturale, mentre i libri sacri riportavano la sua vita da semplice mortale. Ma la legge dell'oblio delle origini spiega perfettamente perché i fedeli del culto dell'Angelo abbiano ignorato che il grande capitano, di cui custodivano altrettanto la memoria, non fosse che un usurpatore dei titoli del loro dio.
Per una coincidenza curiosa, che non sospettavamo nel formulare la nostra ipotesi guida, i due principali eroi che servirono, secondo l'esegesi contemporanea, da modello al personaggio di Gesù, si trovano proprio in relazione intima con il rito della Pasqua, di cui facciamo il principio generativo del cristianesimo. Mosè ne è il fondatore: la sua opera è stata di far uscire gli ebrei dall'Egitto, mediante il compimento del sacrificio dell'agnello. Ma egli non doveva dare il suo nome al Cristo: nella lotta che portò alla conquista della terra promessa, egli resta in cammino, immolato senza dubbio per la salvezza del popolo: egli rappresenta il messia sofferente. È a Giosuè, l'angelo di Jahvé, che era assegnato il ruolo di messia trionfatore.
Nella notte tragica in cui gli ebrei si apprestavano a raggiungere il paese di Canaan. non è proprio Jahvé, come abbiamo indicato, a colpire i primogeniti d'Egitto:
«Jahvé», dice l'Esodo, [29] «passerà oltre la porta e non permetterà al Distruttore di entrare nelle vostre case per colpirvi».
Però, negli altri passi del racconto, Jahvé pare esercitare da solo la sua vendetta. Il Distruttore è quindi uno dei suoi sdoppiamenti. Da allora in poi l’identificazione diventa facile. Il Trono ha troppa maestà per discendere dal cielo; si tratta del personaggio ben noto per essere l'esecutore delle vie divine: l'Angelo o il Volto, colui in cui risiede il nome di Jahvé, vale a dire Giosuè il Figlio, Principe della Presenza.
Questi è l'Angelo che va placato con l'offerta del sangue dell'agnello sugli stipiti delle porte. Nel seguito del racconto egli aiuta gli ebrei a uscire dall'Egitto e li conduce nel deserto, sotto forma di una nube luminosa:
«Allora l'Angelo di Dio, che precedeva il campo d'Israele, si spostò e andò a mettersi dietro a loro; anche la colonna di nuvola si spostò dalla loro avanguardia e si fermò dietro a loro.
Essa si mise fra il campo dell'Egitto e il campo d'Israele. La nuvola era tenebrosa per gli uni, mentre rischiarava gli altri nella notte». [30]
L'Angelo di Jahvé domina il rito della Pasqua e la trasposizione mitologica dell'Esodo:
«Tu conosci tutte le tribolazioni che abbiamo avute: come i nostri padri scesero in Egitto e noi in Egitto abitammo per lungo tempo e gli Egiziani maltrattarono noi e i nostri padri. Noi gridammo a Jahvé ed egli udì la nostra voce e mandò l'Angelo e ci fece uscire dall'Egitto». [31]
Questo personaggio svolgeva il ruolo di protettore di Israele, allo stesso modo in cui l'agnello sacrificato preservava le case. È l'Agnello ed è allo stesso tempo l'Angelo a recare la salvezza: un'assimilazione naturale doveva avvenire tra i due esseri.
In un passo famoso della 1° epistola ai Corinzi, [32] Paolo dice ai cristiani che i loro padri hanno tutti bevuto dalla stessa bevanda spirituale che li seguiva nel deserto, e questa roccia era Cristo! Si è dissertato a lungo sul significato di queste parole strane. L'Esodo racconta che, dopo l'uscita dall'Egitto, gli ebrei si accamparono a Refidim, dove non c'era affatto acqua da bere.
«Mosè gridò a Jahvé, dicendo: Che cosa devo fare per questo popolo? Ancora un po', e mi lapideranno.
Allora Jahvé disse a Mosè: «Mettiti di fronte al popolo e prendi con te alcuni degli anziani d'Israele; prendi anche in mano il bastone col quale hai percosso il Fiume e va'.
Ecco io starò là davanti a te, sulla roccia che è in Oreb; tu colpirai la roccia: ne scaturirà dell'acqua e il popolo berrà». [33]
Questa roccia è facile da identificare: Jahvé vi sta sopra; essa è il simbolo della sua presenza:
«Avevano tentato Jahvé, dicendo: Jahvé è in mezzo a noi, o no?» [34]
Infine Paolo ci informa che egli seguiva gli ebrei nel loro esodo; si tratta ovviamente dell'Angelo. È lui che accompagna gli ebrei, talvolta sotto la forma di nube luminosa, talvolta sotto quella di sorgente rinfrescante. Paolo stesso aveva custodito il ricordo che l'Angelo era un personaggio assimilabile a Gesù.
Giosuè è unito alla Pasqua dallo stesso legame misterioso: nel calendario ebraico, l'inaugurazione della carriera dell'eroe cade nella data in cui si sceglieva l'agnello, e la sua fine corrisponde alla festa di Pasqua stessa. Infatti, secondo la leggenda, Giosuè attraversò il Giordano il 10 di nisan e la presa di possesso della Terra promessa fu consacrata il 14. [35]
Gli eroi popolari, Mosè, l'Angelo, Giosuè, le cui leggende ruotavano attorno al culto primaverile da cui erano emerse, dovevano a loro volta reagire a questo culto stesso, per trasformarne lo spirito e ricrearlo? Se il rito precede il mito, quest'ultimo, come Émile Lasbax ha giudiziosamente osservato, [36] gode di una vita propria, capace di generare forme religiose nuove. Con quale mezzo il mito di una divinità di salvezza doveva introdursi nel banchetto pasquale ?
La festa ortodossa comporta una serie di cantici sulla liberazione di Israele, cantati dai presenti alla fine del pasto: questi sono i salmi dell'Hallel. [37]
Dopo un ringraziamento in onore di Jahvé, si ricordava brevemente l'episodio dell'uscita dall’Egitto e la conquista della Palestina:
«Quando Israele uscì dall'Egitto
e la casa di Giacobbe da un popolo di lingua straniera,
Giuda divenne suo santuario,
e Israele suo dominio:
Il mare lo vide e fuggì,
il Giordano si volse indietro». [38]
Ma persino nel rito nazionalizzato i cantici non si limitano alla commemorazione di un grande evento sociale; per una curiosa sopravvivenza del sacrificio originario, dispensatore di una forza misteriosa, ecco che, dal salmo di Davide, appare l'idea della salvezza individuale dei fedeli:
«Io amo Jahvé perché ha udito
la mia voce e le mie suppliche...
I legami della morte mi avevano circondato,
le angosce dello scèol mi avevano colto;
mi aveva raggiunto la disgrazia e il dolore.
Ma io invocai il nome di Jahvé:
Jahvé! Libera l'anima mia!
Jahvé è pietoso e giusto,
il nostro Dio è misericordioso.
Jahvé protegge i semplici;
io ero ridotto in misero stato ed egli mi ha salvato.
Ritorna, anima mia, al tuo riposo,
perché Jahvé t'ha colmata di grazie.
Tu hai salvato l'anima mia dalla morte,
i miei occhi dalle lacrime,
i miei piedi da cadute.
Io camminerò alla presenza di Jahvé
sulla terra dei viventi...
Io alzerò il calice della salvezza
e invocherò il nome del Signore». [39]
La seconda parte dell'Hallel contiene anche alcuni passi che si riferiscono alla salvezza individuale:
«Jahvé, liberami dalle labbra bugiarde
e dalla lingua ingannatrice!...» [40]
«Il mio aiuto viene da Jahvé,
che ha fatto i cieli e la terra...
Jahvé è un guardiano;
Jahvé è la tua ombra, egli è alla tua destra.
Di giorno il sole non ti colpirà,
né la luna di notte.
Jahvé ti custodirà da ogni male;
egli custodirà la tua anima.
Jahvé custodirà il tuo uscire e il tuo entrare, ora e sempre». [41]
«L'anima nostra è scampata come un uccello dal laccio dell'uccellatore;
il laccio si è spezzato e noi siamo scampati». [42]
L'ultima parte dei cantici enumerava i benefici del Signore e, per due volte, ricordava i miracoli dell'uscita dall'Egitto e dell'arrivo in Terra promessa, associando così le opere di Mosè e di Giosuè al pensiero che doveva chiudere la cerimonia:
«Egli percosse i primogeniti d'Egitto,
tanto degli uomini come degli animali;
mandò segni e prodigi in mezzo a te, o Egitto,
sul Faraone e su tutti i suoi servi». [43]
«Colui che percosse gli Egiziani nei loro primogeniti,
perché la sua misericordia è eterna,
e fece uscire Israele di mezzo a loro,...
Colui che divise il Mar Rosso in due: ...
e fece passare Israele in mezzo ad esso,...
ma travolse il Faraone e il suo esercito nel Mar Rosso,...
Colui che portò il suo popolo attraverso il deserto,...
colui che percosse grandi re,...
e uccise re potenti,...
Sihon, re degli Amorrei,...
e Og, re di Bashan,...
E diede il loro paese in eredità,
perché la sua misericordia è eterna». [44]
È tutta l'opera di Mosè e di Giosuè che si trova ripercorsa; inoltre questi due eroi, che il cantico non cita affatto, si identificano in qualche modo con Jahvé stesso. Così si profilava, agli occhi dei presenti raggruppati attorno alla tavola, la figura di un giovane dio che, per mezzo di un cibo sacro, soccorreva le anime in difficoltà e le liberava dalla morte.
«Ecco il cibo che i nostri padri hanno mangiato in Egitto, recitano gli ebrei moderni! [45] Che tutti coloro che hanno fame vengano e mangino! Che tutti coloro che sono afflitti vengano a condividere la nostra gioia pasquale!»
Non si crederebbe di sentire Gesù che esorta i fedeli a sedersi al banchetto che inaugurerà il Regno di Dio?
Un rito in cui le preoccupazioni escatologiche rimasero così vive, anche dopo il suo assoggettamento a un fine nazionale, si rivela veramente di una natura capace di generare un grande mistero di salvezza.
Non è azzardato pensare che i membri della setta precristiana dovessero rafforzare ancora il significato mistico della cerimonia e recitare, in relazione a quell'idea, brani della Bibbia, la cui riunione compose la figura del Messia Gesù. Forse immaginarono, con Zaccaria, [46] il liberatore, simile all'Angelo sterminatore che aveva vegliato sui loro antenati, accampato attorno alla casa, affinché il potere che irretisce non passasse tra loro, per poi fare il suo ingresso a Gerusalemme, in mezzo a grida di gioia, umile e in groppa ad un asino. Forse che la lettura di Isaia [47] dipingeva loro il Giusto sopraffatto dalle sofferenze, colpito dall'iniquità di tutti, simile all'agnello di cui mangiavano la carne sacra, poi, dopo l'immolazione, trionfante improvvisamente sui suoi nemici. Forse che con il Salmo 22 videro i persecutori sogghignare e scuotere il capo...
Anche ai nostri giorni, quando gli ebrei non possono più minimamente sperare in un trionfo imminente, i pii racconti del giorno di Pasqua continuano a inebriare l’immaginazione:
«Quella cerimonia, che si celebra la sera», dice Henri Heine, [48] «è intrisa di una serenità malinconica, di una gravità vivace: ha qualcosa di misterioso e di magico, e il tono tradizionale e canoro col quale il padre di famiglia legge la Haggada ha qualcosa di così intimo e così penetrante, vi culla in una maniera così materna e così bruscamente vi risveglia, che anche gli ebrei che da tempo hanno abbandonato la fede dei loro padri e hanno rincorso piaceri e onori di un mondo estraneo si sentono commossi nel più profondo del loro cuore, quando questi antichi accenti così conosciuti di Pesach giungono per caso a colpire le loro orecchie».
È in questo ambiente emotivo che è dovuta nascere la leggenda di Gesù. Celebrare un eroe divino mangiando un agnello, la cui sostanza era anch'essa sacra, equivaleva ad associare le due nature. Nello stesso rito nazionale, il Salvatore si trovava spiritualmente presente alla festa: anche ai nostri giorni, a Gerusalemme come in Germania, si depone sulla tavola un calice di vino coperto, per Mosè o il Messia futuro, [49] si riserva un posto a Elia, [50] quell'altra figura di Giosuè, oppure ancora i presenti ricercano l'Afikoman, uno dei frammenti del pane spezzato, che è ritenuto rappresentare il Messia e che si custodisce in un punto della casa. La sostanza dell'agnello creava tra il convitato divino e i presenti un legame naturale: l'eroe si donava, in qualche modo, in cibo e prendeva a poco a poco nelle preoccupazioni dell'agnello il posto dell'agnello. La Pasqua, scissa in due rami, uno esoterico, l'altro nazionale, ritrovava un'unità viva nei cantici sacri e, da quella fusione, scaturiva una fede nuova.
NOTE
[1] Paul Foucart, Les Mystères d'Eleusis, pag. 62, Parigi, A. Picard, 1914.
[2] Ibidem, pag. 74, Plutarco, Iside 13, Diodoro di Sicilia, 1:14.
[3] 2 Re 22-23; 2 Cronache (Paralipomeni) 34-35.
[4] 2 Cronache 35:11, 16.
[5] Ezechiele 45:18-24.
[6] Flavio Giuseppe, Guerra Giudaica, libro 2, capitolo 14:3, capitolo 24, secondo il Panthéon littéraire).
[7] 2 Cronache 35:18.
[8] 2 Re (= 4 Re): 23:9.
[9] Le Mythe de Jésus, traduzione di Robert Stahl, pag. 200-206, Parigi, Payot, 1926.
[10] 1° ai Corinzi 10:2.
[11] Esodo 24:9-18.
[12] Deuteronomio 32:48-50.
[13] Genesi 22:2.
[14] Deuteronomio 34:5 e 7.
[15] Elevazioni sui Misteri, Nona settimana, 10° elevazione.
[16] Arthur Drews, Le Mythe de Jésus, pag. 68.
[17] Dottor Joh. Geffcken, Die Oracula Sibyllina, libro 5, 256-258, pag. 116-117, Lipsia, J.-C. Hinrichs'sche Buchhandlung, 1902.
[18] Elevazioni sui Misteri, Decima settimana, 2° elevazione.
[19] Deuteronomio 18:15.
[20] Epistola a san Paolino sullo studio dei libri sacri 18 (La Sainte Bible en latin et en français, edizione Le Maistre de Sacy, volume 3, pag. 274-275, Parigi, 1715). Ricordiamo che Gesù o Giosuè si dicono in greco Ièsous, in ebraico Iehoshuah, Ieshuah, Ieshuh o Ieshu. È per rispetto per il loro dio che i cristiani hanno finito per differenziare i due nomi.
[21] Pagan Christs, Studies on comparative hierology, pag. 163-164, Londra, Watts and C°, 1911.
[22] Le Mythe de Jésus, pag. 45-47.
[23] Esodo 23:20-21.
[24] Esodo 23:23.
[25] Giosué 24:11.
[26] Giosué 5:13-14.
[27] Foglio 60:2 (Drews, Le Mythe de Jésus, pag. 46, nota 1).
[28] Foglio 16:2 (J.-M. Robertson, Pagan Christs, pag. 165).
[29] Esodo 12:23.
[30] Esodo 14:19-20.
[31] Numeri 20:14-16.
[32] 1° ai Corinzi 10:4.
[33] Esodo 17:4-6. Si veda anche Numeri 20:8-11; Salmi 78:15, 20; 105:41; 114:8.
[34] Esodo 17:7.
[35] Giosuè 4:19; 5:10.
[36] Emile Lasbax, La Dialectique et le Rythme de l'Univers, pag. 343 e seguenti, Parigi, J. Vrin, 1925 (Cahiers de synthèse dialectique, volume 1).
[37] Salmi 113-118; 120-127; talvolta 135-137. Si veda La Haggada o Cérémonies des deux premières soirées de Pâque, traduzione di L. Blum, Parigi: Léon Kann (libreria Durlacher), 1907.
[38] Salmo 114 (113 secondo la Vulgata), 1-3.
[39] Salmo 116 (114-115 secondo la Vulgata), 1-13.
[40] Salmo 120 (119 secondo la Vulgata), 2.
[41] Salmo 121 (120 secondo la Vulgata), 2-8.
[42] Salmo 124 (123 secondo la Vulgata), 7.
[43] Salmo 135 (134 secondo la Vulgata), 8-9.
[44] Salmo 136 (135 secondo la Vulgata), 10-21.
[45] Henri Heine, Le Rabbin de Bacharach, pag. 223, Parigi: Société du Mercure de France, 1906.
[46] Zaccaria 9:8-9.
[47] Isaia 53:5, 7, 10-12.
[48] Le Rabbin de Bacharach, pag. 222.
[49] Maurice Goguel, L'Eucharistie, des origines à Justin Martyr, pag. 62 nota 1, Parigi, Fischbacher, 1910.
[50] Théodore Reinach, La Fête de Pâques, pag. 50, Parigi, E. Leroux (Bibliothèque de vulgarisation du Musée Guimet, volume 18), 1906.
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