venerdì 3 gennaio 2025

GESÙ DIO DELLA PASQUA — La Pasqua nella mitologia del Nuovo Testamento, l'Apocalisse

(segue da qui)

 LA PASQUA CRISTIANA


I

LA PASQUA NELLA MITOLOGIA 

DEL NUOVO TESTAMENTO, 

L'APOCALISSE

In seguito ai tentativi, per quanto timidi, di alcuni esegeti miticisti, allo scopo di dimostrare l'influenza della festa nazionale ebraica su certi tratti tardivi della leggenda evangelica, gli storicisti dichiararono che, lungi dal costituire il nucleo della tradizione, la Pasqua fu considerata come una raffigurazione anticipata dell'opera redentrice unicamente per ragioni di elevato simbolismo, una volta affermato il Cristianesimo come concorrente della Legge. [1

Al fine di non utilizzare affatto testimonianze respinte in linea di principio, abbiamo provvisoriamente abbandonato l'importante questione della sopravvivenza di un culto dell'Agnello tra i primi cristiani, per studiare anzitutto questo culto stesso nella sua evoluzione specifica in seno al giudaismo. Siccome bisogna ben riconoscere che esso conteneva tutti gli elementi di un mistero e tendeva a comporre la storia di un dio Giosuè che muore e risorge, siamo ora in diritto di domandarci se, contrariamente all'opinione consolidata, non sussistano nel Nuovo Testamento tracce di una parentela primitiva reale tra Gesù e l'animale sacro che salvò gli ebrei.

La concezione più antica del cristianesimo sembra essere quella che l'Apocalisse ha conservato. Secondo gli storicisti quell'opera sarebbe stata composta tra il 90 e il 96, una quarantina d'anni dopo le epistole di Paolo; ma essi ammettono che l'autore ha utilizzato documenti arcaici, puramente ebraici — quindi passibili altrettanto bene di essere precristiani — sicché noi ci troviamo certamente in presenza di un tema mitologico ben anteriore a quello di Paolo.

Gesù vi ​​si trova raffigurato in quattro maniere diverse: da bambino celeste, [2] da sommo sacerdote, [3] da cavaliere che devasta le nazioni; [4] ma la rappresentazione che domina di più le altre e che ricorre più di trenta volte nel corso del racconto è quella di un agnello. È davanti a un agnello che si prostrano, suonando l'arpa e facendo oscillare calici di profumo, i quattro animali che presiedono ai quattro punti cardinali e i ventiquattro vegliardi delle costellazioni. È sotto i tratti di un agnello che Gesù rompe i sette sigilli del libro del Giudizio, che provocano le ultime calamità. È un agnello che seguono sul monte Sion i centoquarantaquattromila giusti scampati al disastro universale. È contro l'agnello che combattono le dieci corna della Bestia romana. Infine, è per celebrare le sue nozze con l'agnello che si adorna la Sposa, la Gerusalemme spirituale che Giovanni, sulla vetta di un monte, vede scendere dall'alto del cielo.

Sembra naturale che un'opera, del tutto simbolica, assimili Gesù ad un agnello in senso puramente figurato. Però l'autore non ha certo cercato, mediante l'impiego di quell'immagine, un confronto con la Pasqua, alla maniera di Paolo e dello scrittore del quarto vangelo. Per nulla dominato dall’idea che Gesù ha suggellato tra Dio e i suoi fedeli una nuova alleanza, in sostituzione a quella che celebrava la festa ebraica, il suo agnello, provvisto di sette corna e di sette occhi, che sono i sette spiriti di Dio, [5] non ha nulla in comune con l'animale domestico che si serviva arrostito sulla tavola familiare: l'ostilità contro il giudaismo che implica la concezione di una Pasqua che soppiantasse quella antica è estranea all'opera giovannea. 

Charles-François Dupuis, [6] Ernest Havet [7] e John M. Robertson [8] ritengono che si tratta della descrizione di un mito solare, dove l'Agnello rappresenterebbe la costellazione dell'Ariete. Si vedono così in obbligo di invocare l'influenza dei culti misterici su un autore che pretendono, del resto, completamente soggetto allo spirito ebraico. 

L'agnello simboleggia forse la mitezza dell'inviato di Dio, come quello di Geremia, [9] «pieno di mansuetudine», o quello di Isaia [10] che, di fronte alle accuse, mantiene il silenzio dell'innocente? Ma l'agnello dell'Apocalisse non rassomiglia all'animale indifeso che adoravano i mistici del Medioevo. Esso si mostra al contrario molto vendicativo. Egli pascerà le nazioni con una verga di ferro e scatenerà sul mondo cataclismi senza precedenti. Quando apre il sesto sigillo, si verifica un grande terremoto, il sole si oscura, la luna assume il colore del sangue, le stelle cadono come i frutti del fico scossi dal vento, il cielo si ripiega come un libro che si arrotola e gli umani, terrorizzati, supplicano le montagne di crollare su di loro, al fine di nasconderli dalla furia dell'agnello. [11]

L'autore si trova addirittura visibilmente imbarazzato da un termine che, sotto l'impulso di una forza misteriosa, si crede tuttavia obbligato ad impiegare. Siccome non è la figura di questo animale che avrebbe voluto evocare, ma un essere ben più terrificante, dà al suo agnello la figura di un ariete fantastico e lo chiama il Leone della tribù di Giuda. [12]

Resta ancora un'ipotesi: designando Gesù con una tale insistenza con l'immagine di un animale sacrificale, l'Apocalisse ha voluto che fosse sempre presente nella mente del lettore la visione di Gesù suppliziato?

Per giudicare quell'ipotesi nel suo giusto valore, basta leggere il capitolo 12 del libro, che ripercorre tutta la vita del Messia e l'opera di redenzione.

Assistiamo dapprima alla nascita di Gesù

«Poi un grande segno apparve nel cielo: una donna rivestita del sole, con la luna sotto i piedi e una corona di dodici stelle sul capo. 

Era incinta, e gridava per le doglie e il travaglio del parto».

La liberazione non avviene senza difficoltà: un grosso serpente rosso a sette teste si mette in agguato davanti alla donna, pronto a divorare il bambino che sarebbe venuto al mondo.

Quest'ultimo nasce infine; ma ecco che invece di discendere sulla terra, come si aspetterebbe un evemerista, per compiervi un ministero storico e perire sulla croce, il messia, uscendo dal grembo di sua madre, è assunto verso Dio e verso il suo Trono.

Si capisce lo stupore che quella biografia del messia provoca nel clan degli esegeti tradizionalisti:

«Che riassunto della sua vita», si lamenta Wellhausen: «egli viene al mondo e scompare!»

Non si può però ammettere, si invoca, [13] che un autore che scriveva alla fine del I° secolo, in un'epoca in cui già diversi vangeli erano apparsi, ignorasse il ministero di Gesù e la sua crocifissione! Senza dubbio, ma l'autore riecheggia chiaramente una tradizione più antica che non sapeva nulla di questi eventi.

La teologia cristiana non si mostra affatto imbarazzata nel risolvere la difficoltà: essa ha sempre a sua disposizione un tesoro di interpretazioni, che disarma l'avversario. Come mai, pochi anni dopo l'avventura di Gesù, i cristiani hanno potuto rappresentarsi il Messia come un neonato immediatamente rapito in cielo? Tutt'altro che molto semplice, secondo Bernard Allo: il ministero del Cristo costituisce, in ordine di tempo, la fase iniziale della salvezza; esso corrisponde ai dolori del parto di una società nuova. Quanto alla passione che sembra, a prima analisi, totalmente elusa, essa sarebbe figurata dalla lotta tra il Drago e gli Arcangeli, che segue immediatamente. [14]

Quella spiegazione, di un simbolismo molto filosofico e per nulla del tutto alla maniera primitiva di uno scrittore di apocalissi, merita di essere conservata preziosamente nel museo delle scappatoie teologiche.

Al seguito di Wellhausen, [15] la maggior parte degli esegeti afferma che l'autore cristiano sia andato a trarre ispirazione da antiche apocalissi ebraiche artificialmente ricucite. Come stupirsi allora che il suo racconto non collimi affatto con la tesi evemerista e con la leggenda del Gesù dei Vangeli?

Che Giovanni abbia in effetti utilizzato documenti come il libro di Daniele o quello di Zaccaria, nessuno lo contesta; ma che un teologo si limiti a copiare passivamente manoscritti in contraddizione con la propria fede, senza tentare di interpolare un versetto, per ristabilire l'ortodossia, la supposizione sembra improbabile. Affinché la Chiesa abbia ammesso l'Apocalisse nel suo canone, occorreva che il suo tenore dovesse corrispondere pienamente alla mitologia stabilita. Infatti, come sottolinea Eduard Reuss, [16] quell'opera è la prima di cui l'autorità ecclesiastica abbia invocato la testimonianza al di fuori dell'Antico Testamento, mentre essa sembrava ignorare le Epistole, i Sinottici e gli Atti. Giustino Martire, ad esempio, non pronuncia nessun altro nome di apostolo oltre a quello di Giovanni. Così si spiega l'antipatia dei padri greci del III° secolo nei confronti di un racconto che non corrispondeva più alla leggenda di Gesù, nella sua forma definitiva.

Ma gli storicisti si trovano costretti immediatamente ad un'altra difficoltà: non appena hanno affermato che l'autore ha copiato sbadatamente un'apocalisse relativa a un messia ebreo, devono fare quella triste constatazione: non esiste un messia rapito in cielo alla sua nascita nella tradizione religiosa del giudaismo! Per sostenere una teoria intesa a salvaguardare la storicità di Gesù, eccoli nella necessità di immaginare una seconda teoria capace di spiegare come Giovanni abbia potuto ricavare dall'Antico Testamento una concezione messianica che lì si cercherebbe invano!

Israël Lévi [17] ha finito per scoprire nel Talmud di Gerusalemme e nel commentario rabbinico delle Lamentazioni [18] un messia eclissato fin dalla nascita. La leggenda riporta che nell'anno 70 un arabo, avvertito da un muggito di mucca, annunciò ad un contadino che stava andando incontro alla distruzione del Tempio; un altro muggito lo convince che il liberatore è appena nato. Il contadino lascia il suo aratro e va a cercare le fasce per il bambino. Arrivando, la madre gli disse:

«Egli è nato sotto una cattiva stella, perché subito sono venuti i venti e gli uragani che lo hanno portato via».

Una variante sostituisce l'arabo con Elia e il muggito della mucca con una voce celeste.

Lo spirito di quella leggenda differisce essenzialmente da quello dell'Apocalisse. In quest'ultimo libro, il messia è rapito verso Dio, che lo pone così sotto la sua protezione, in attesa che egli vada a pascere le nazioni. Nel Talmud, al posto di un'ascensione al cielo, assistiamo a una scomparsa nell'uragano della disfatta, simbolo delle speranze messianiche svanite. Una simile versione, che dipende chiaramente dal folclore, non ha potuto costituire la fonte di un misticismo cristiano, molto più preoccupato della salvezza individuale che delle aspirazioni nazionaliste.

Troveremo almeno nel seguito del racconto un'allusione qualunque al sacrificio del Messia? Messo in custodia presso Dio, una lotta, alla quale egli non si degna di prendere parte, si ingaggia con le potenze del male:

«Michele e i suoi angeli combatterono contro il dragone. Il dragone e i suoi angeli combatterono,

ma non vinsero, e per loro non ci fu più posto nel cielo.

Il gran dragone, il serpente antico, che è chiamato diavolo e Satana, il seduttore di tutto il mondo, fu gettato giù; fu gettato sulla terra, e con lui furono gettati anche i suoi angeli». [19]

Vi era a questo punto una buona occasione per dire, parafrasando l'Ascensione di Isaia, che il drago riuscì a portare la mano sull'agnello o sul bambino e a sospenderlo al legno. Invece di ciò, dopo la vittoria degli arcangeli e senza che ci sia menzione di un sacrificio espiatorio del dio, l’opera di redenzione si trova compiuta:

«Allora udii una gran voce nel cielo, che diceva: Ora è venuta la salvezza e la potenza, il regno del nostro Dio e il potere del suo Cristo, perché è stato gettato giù l'accusatore dei nostri fratelli, colui che giorno e notte li accusava davanti al nostro Dio. 

Essi lo hanno vinto per mezzo del sangue dell'Agnello»[20]

Gli storicisti si aggrappano disperatamente a quest'ultima parte della frase, come se costituisse una rappresentazione simbolica della crocifissione. Però appare chiaramente che la designazione del sangue dell'Agnello non si riferisce ad un episodio della vita del Messia, che si svolgerebbe in questo momento del racconto. Non si tratta di un atto specifico compiuto dal dio, per decidere della sorte degli eserciti, ma bensì piuttosto di una forza spirituale, di natura magica, che procura i mezzi per vincere. Questa è evidentemente un'allusione ad un sacrificio rituale, analogo a quello della Pasqua, che permise agli ebrei di fronteggiare il faraone. Se restasse il minimo dubbio non vi sarebbe che da leggere il capitolo 16, che racconta una fase del Giudizio. Un angelo versa una coppa che trasforma le acque in sangue e colpisce gli infedeli con un'ulcera maligna. L'autore espone le ragioni di questo castigo:

«Essi infatti hanno versato il sangue dei santi e dei profeti, e tu hai dato loro sangue da bere». [21]

Anche in questo caso era proprio il momento per accusare i malvagi di aver versato un sangue molto più prezioso ancora; ma in nessun passo del libro, che pur descrive ogni sorta di crimini, si è parlato del crimine supremo: quello di suppliziare un dio.

In preda alla disperazione, gli storicisti si trovano obbligati ad andare a cercare allusioni al sacrificio del Messia altrove rispetto ai punti dove esse avevano un posto naturale: in episodi senza legame col racconto, e di conseguenza visibilmente aggiunti dai copisti posteriori.

È così che l’autore, parlando della grande città chiamata spiritualmente Sodoma ed Egitto, aggiunge:

«dove anche il loro Signore è stato crocifisso». [22]

L'espressione stessa, così poco nella maniera simbolica dello scrittore primitivo, rivela un'aggiunta tardiva. Non svolgendo la crocifissione alcun ruolo nell'Apocalisse, non si può tenere conto di quella glossa.

Similmente, leggiamo all’inizio del libro:

«Ecco che egli viene sulle nubi; e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo hanno trafitto». [23

Un lettore dei Vangeli pensa subito alla crocifissione; ma vi è lì solo una reminiscenza di Zaccaria:

«E guarderanno a me che hanno trafitto». [24]

Si tratta di coloro che rinnegano il Signore. Gli storicisti che, in occasione di un'asserzione di Salomon Reinach, [25] contestano che la perforazione dei piedi e delle mani, nel Salmo 22, risvegli naturalmente l'idea di crocifissione, meglio espressa secondo loro da quella dell'esposizione o dell'impiccagione, non invocheranno forse, come simbolo della passione del Cristo nell'Apocalisse, un testo che parla, chiaramente in senso figurato, di un Messia trafitto.

Da nessuna parte il tema di un sacrificio del dio si trova esposto nel corso di un capitolo che abbia l'aspetto della relazione di un evento. Ci viene detto che Gesù:

«ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue», [26]

oppure ancora che i giusti 

«hanno lavato le loro vesti, e le hanno imbiancate nel sangue dell'Agnello». [27]

«Tu sei degno di ricevere il libro e di aprirne i sigilli, perché sei stato immolato e col tuo sangue ci hai ricomprati a Dio da ogni tribù, da ogni linguaggio». [28]

«Io fui morto, ed ecco io vivo nei secoli dei secoli». [29]

Malgrado lo stile essenzialmente descrittivo dell'Apocalisse, nessuno di questi testi fa parte di un racconto in cui il Messia interverrebbe personalmente nell'opera di salvezza. Mai ci viene parlato di un ministero del Messia o anche di un'attività qualunque. Ogni volta che il tema sembrerebbe esigerlo assistiamo soltanto al combattimento dei giusti o degli arcangeli. Senza dubbio l'Agnello ha vinto, [30] ma quella vittoria non sembra ottenuta in seguito ad un'espiazione. Il narratore della fine del mondo non aveva dunque da parlare della morte del suo dio? Ma, proprio al contrario, la venuta del Messia faceva parte integrante del Giudizio, di cui essa costituiva la prima fase.

Così Giovanni non ha neppure scelto l'immagine dell'agnello immolato per indicare la passione. Come spiegare però questa strana insistenza?

Se penetriamo un po' più avanti nell'analisi delle diverse figure di Gesù, notiamo che tutte, introdotte molto naturalmente, si interpretano senza difficoltà, tranne quella che domina l'opera. Conformemente alla regola classica del simbolismo, l'autore presta agli esseri la forma che corrisponde meglio al loro ruolo. Risvegliando la prima apparizione del Messia l'idea della nascita, i tratti di un neonato celeste saranno i più evocativi. Quando alla fine dei tempi il dio viene a calpestare le nazioni, l'immagine che si impone è quella di una carica di cavalleria, caratterizzata da un destriero focoso. Gesù, nella sua gloria, circondato da sette fiaccole, diventa un pontefice dal pettorale d'oro, vestito del copricapo e recante sette stelle nella mano destra. Per contro l'immagine dell'agnello, lungi dall'evocare un sacrificio divino sconosciuto all'autore, si riferisce ad azioni che non richiamano per nulla un simile confronto e anzi provocano accostamenti incoerenti o ridicoli. Che un agnello apra un libro, si sieda su un trono e celebri le sue nozze con una città, simili rappresentazioni non rientrano chiaramente in un simbolismo normale. Una volta che abbiamo estratto dall'Apocalisse tutte le immagini suscettibili di interpretarsi in senso figurato, ne resta una, in fondo al crogiolo, assolutamente irriducibile, sopravvivenza della credenza in un dio ritualmente sgozzato sotto la forma concreta di un agnello.

Intravediamo anche alcuni dettagli della cerimonia: gli officianti, vestiti di bianco, [31] lavavano le loro vesti nel sangue che colava dall'altare, [32] come ancora ai nostri giorni, sul monte Gerizim, nella Pasqua dei Samaritani. [33] Essi suonavano la cetra e presentavano fiale d'oro piene di profumi. [34] Poi un cantico si elevava:

«Tu sei degno, o Signore, di ricevere il libro (della vita) e di aprirne i sigilli, perché sei stato immolato e col tuo sangue ci hai ricomprati a Dio da ogni tribù, da ogni linguaggio, da ogni popolo, da ogni nazione;

E ci hai fatti re e sacerdoti davanti a Dio: e regneremo sopra la terra». [35]

NOTE

[1] Maurice Goguel, Jésus de Nazareth mythe ou histoire?, pag. 222-224, Parigi, Payot, 1925.

[2] Apocalisse 12:5.

[3] Ibidem 1:13-16.

[4] Ibidem 19:11-16.

[5] Ibidem 5:6.

[6] Origines de tous les cultes ou Réligion universelle. Religion chrétienne, capitolo 2: Sur la réparation. Nuova edizione, volume 5, pag. 122-128, Parigi, libreria storica Emile Babeuf, 1822.

[7] Le Christianisme et ses origines, volume 4; Le Nouveau Testament, capitolo 5, pag. 332, Parigi, Calmann-Lévy, 1884.

[8] Pagan Christs, Studies in comparative hierology, pag. 142, 164, 205, nota 2, 208, 330, Londra, Watts and Co, 1911.

[9] Geremia 11:19.

[10] Isaia 53:7.

[11] Apocalisse 6:12-14, 16.

[12] Ibidem 5:5.

[13] Maurice Goguel, Jésus de Nazareth mythe ou histoire?, pag. 194, Parigi, Payot, 1925.

[14] E. Bernard Allo, Le Douzième chapitre de l'Apocalypse, nella Revue biblique internationale, agosto 1909, pag. 539, Parigi, J. Gabalda. 

Léon Gry, Les Chapitres XI et XII de l'Apocalypse, nella Revue biblique internationale, 1 aprile 1922, pag. 211.

[15] Zur apokalyptischen Literatur, in Skizzen und Vorarbeiten, volume 6, pag. 221, Berlino, G. Reimer, 1899.

[16] Histoire de la théologie chrétienne au siècle apostolique, volume 1, pag. 431, Strasburgo e Parigi, Treuttel e Wurtz, 1864.

[17] Le Ravissement du Messie enfant, nella Revue des études juives, volume 74, pag. 113 e seguenti, 75, pag. 113 e seguenti, 77, pag. 1 e seguenti, Parigi, A. Durlacher, 1922, 1923.

[18Talmud di Gerusalemme, Berachot 5a (traduzione di Schwab, pag. 42) e Echa Rabatti, 1:16.

[19] Apocalisse 12:7-9.

[20] Ibidem 12:10-11.

[21] Ibidem 16:6.

[22] Ibidem 11:8.

[23] Ibidem 1:7.

[24] Zaccaria 12.10.

[25] Maurice Goguel, Jésus de Nazareth mythe ou histoire?, pag. 219.

Salomon Reinach, Le Verset 17 du Psaume XXII, nella Revue de l'histoire des religions, volume 52, 1905, pag. 260-266, Parigi, Ernest Leroux.

Cultes, mythes et religions, volume 2, pag. 437-442, Parigi, Ernest Leroux.

[26] Apocalisse 1:6.

[27] Ibidem 7:14.

[28] Ibidem 5:9.

[29] Ibidem 1:18.

[30] Ibidem 3:21; 5.5.

[31] Ibidem 7:13.

[32] Ibidem 7:14.

[33] D. Sidersky, Il Sacrificio pasquale dei Samaritani (articolo inedito): «Ricordiamo che i Samaritani sono rivestiti per la cerimonia di vesti bianche... le vesti bianche delle persone che mantengono le vittime sono asperse di sangue».

[34] Apocalisse 5:8.

[35] Ibidem 5:9-10. 

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