venerdì 27 dicembre 2024

GESÙ DIO DELLA PASQUA — Un altro abisso da colmare: Dall'agape all'Eucarestia

(segue da qui)

IV
UN ALTRO ABISSO DA COLMARE: 
DALL'AGAPE ALL'EUCARESTIA

La tesi della storicità non riesce meglio a spiegare la formazione dei riti cristiani: la soluzione di continuità che separa la leggenda di un profeta crocifisso da una teologia della salvezza, la ritroviamo altrettanto profonda, quando si tratta di mostrare come il pasto fraterno della primitiva Chiesa abbia potuto mutarsi nel sacramento dell'eucarestia.

La religione, nata da un insieme di atti compiuti per esercitare poteri sulla natura, ha conservato fin dalla sua origine economica l'istinto per la figurazione simbolica: come ha dimostrato William Robertson Smith, essa non si concepisce senza il rito. Questo elemento, colpendo l'immaginazione dei credenti, insegnando loro per mezzo di gesta evocative una teologia astratta, dà alla dogmatica il suo colore e la sua vita. L'incanto dei fedeli non proveniva dall'idea generale – propria tutt'al più a una speculazione di teologi – che un messaggero di Jahvé fosse appena morto e poi fosse resuscitato. Erano le pratiche di commemorazione di una vita divina che suscitavano la fede e la sostenevano. Se una dottrina non prende corpo immediatamente in formule, preghiere, atteggiamenti e rappresentazioni, non provoca affatto slancio.

I dogmi dei misteri antichi riposavano a loro volta sui riti. Come ha mostrato lo stesso Alfred Loisy, a cui non resta altro che applicare la sua tesi al cristianesimo, le idee di salvezza non determinarono di per sé il culto degli dèi morenti e risorgenti: questi primitivamente simboleggiavano i ritmi della vegetazione o le rivoluzioni celesti; erano oggetto di cerimonie in cui si rappresentavano le fasi di declino e di rinnovamento della natura. Fu molto tempo dopo, quando la coscienza morale si affinò, che questi riti, suscitando l'idea di rigenerazione, si trasformarono in simbolo di morte alla vita terrena, poi in resurrezione gloriosa ad una vita di purezza. [1]

Gli esegeti si rappresentano del tutto diversamente l'evoluzione del cristianesimo: la sua dottrina non riposerebbe su pratiche mistiche, ma sulle peripezie di un'avventura storica.

Degli ebrei, spiegano, hanno visto Gesù e hanno avuto la visione del suo corpo risorto. Queste constatazioni produssero, con la fede nel ritorno imminente del Messia, sentimenti intensi che, dopo un contatto con i misteri pagani, si concretizzarono in riti di salvezza, costitutivi di una religione nuova.

La morte di un predicatore e il credo nella sua resurrezione potevano generare il memoriale della passione? Le circostanze storiche, anche quelle di valore religioso, non si trasformano naturalmente in pratiche mistiche. Un mondo dimora tra esse, quello che separa la realtà, più o meno interpretata dall'immaginazione, dalle esigenze irriducibili della vita culturale. Si sarebbe potuto evocare forse, in origine, la memoria di Gesù. agli anniversari; ma una formazione rituale di quella natura, soprattutto quando non esprime una dottrina coerente, comporta uno sviluppo di una tale lentezza che l'oblio della personalità oggetto di quella commemorazione sarebbe occorso ben prima della costituzione di una cristologia. Se dobbiamo ammettere che il cristianesimo verteva  unicamente su un vago entusiasmo per una persona, su una fede ideale in un ritorno trionfale, e che ci vollero diversi adattamenti dottrinali prima che quella fede si appropriasse di un culto significativo, noi non ci spieghiamo la causa del fermento iniziale, che non aveva affatto ancora per supporto un corpo di cerimonie, l'unico capace di accattivare le folle.

Ecco come un teorico della messa, Louis Coulange, [2] si rappresenta le prime riunioni cristiane, che sarebbero l'origine dell'eucarestia.
Coloro a cui è stato dato di visitare un noviziato o un seminario sanno che, in queste sante case, non ci si mette a tavola né si esce senza rivolgere a Dio preghiere in un atteggiamento raccolto e con un cerimoniale che non manca di maestosità. Essi conoscono anche la schietta allegria che, nei giorni di festa, anima gli invitati tra il rito dell'inizio e quello della fine. Si è riconoscenti a Dio per i suoi benefici e ci si tiene a dirglielo. Ma fatto ciò, si ratifica l'oracolo dello Spirito santo che dichiara che il buon vino allieta il cuore dell'uomo. In una parola, persino nei seminari, persino nei noviziati, il pasto resta un atto profano malgrado il contesto religioso che lo circonda.
Quella osservazione vale anche per il banchetto dei primi cristiani che, a sua volta, si svolgeva tra due ghirlande di preghiera. 
La riunione di addio, che Gesù aveva dato ai suoi discepoli, all'avvicinarsi della sua morte, nei pressi di Gerusalemme, doveva lasciare un ricordo imperituro, si spiega, perché il Maestro vi aveva espresso il presentimento di non bere più il prodotto della vite se non nel Regno di Dio, dove i suoi compagni lo avrebbero ritrovato.

Queste parole invincibili di speranza, dice Alfred Loisy, [3] sono ciò che c'è di più solidamente autentico nella tradizione.

Gli Apostoli si trovavano così indotti naturalmente a commemorare nelle agapi questo giorno solenne. In origine esse non avrebbero avuto un significato propriamente rituale. Furono assimilate alla festa pasquale dagli Evangelisti solo per i bisogni della loro causa. Il pane ne costituiva l'elemento principale, come conviene ad una riunione di gente semplice, e non perché sembrasse di natura adatta a rappresentare il corpo del Salvatore. Il calice di vino poteva pure figurarvi per la stessa ragione. 

L'espressione la frazione del pane impiegata dall'autore degli Atti non si riporta, sembra, ad alcun valore mistico.

È in queste riunioni che i primi cristiani si ritrovavano, come ai tempi di Gesù, uniti da uno stesso sentimento.

Non è forse ai pasti dei discepoli che sono coordinate le apparizioni di Gesù risorto, quelle almeno che hanno una qualche consistenza di memoria storica?... ci si è abituati a quell'idea, che egli fosse ancora vivo, che fosse lì, in mezzo ai suoi, spezzando il pane e presentando il calice, con formule di benedizione... Così si creava il sentimento della sua presenza invisibile, non ancora negli elementi del pasto, ma nella società di coloro che vi partecipavano. Il pasto comunitario divenne così l'atto principale, distintivo... Si deve vedervi l'inizio del culto cristiano. [4]

Non restava altro che effettuare l’operazione indispensabile alla tesi della storicità: innestare su quella pratica commemorativa l’idea di transustanziazione divina, venuta dai misteri greci.

Alcuni esegeti, però, colpiti dal fatto che il rituale della Didaché, così come il racconto degli Atti, non rappresentino la frazione del pane come una commemorazione dell'ultima cena, ritengono che quel costume abbia dovuto nascere spontaneamente, forse dall'epoca di Gesù, perché era la maniera abituale di riunirsi per gente pia. [5] Ma la stessa difficoltà sussiste:

Tra il punto di partenza e il punto di arrivo, riconosce Maurice Goguel, [6] il contrasto è tale che sembrerebbe quasi che si sia in presenza di due fatti senza relazione l'un con l'altro... Tra il pasto della chiesa di Gerusalemme e la cena corinzia una rivoluzione si è verificata, la parola non è troppo forte.

Se è vero che esiste una separazione netta tra il profano e il sacro, come, dalla morte di Gesù al ministero di Paolo, in venticinque o trent'anni, un semplice pasto comunitario. semplicemente venato di pietà, avrebbe potuto mutarsi in rito, dove si opera la transustanziazione di una materia servile in natura divina? L'abisso che gli storicisti hanno scavato gratuitamente, al fine di salvaguardare un luogo dove possano inserire la vita di un uomo chiamato Gesù, essi si rivelano incapaci di colmarlo.

Gli Apostoli si sarebbero presi la briga di identificare il loro Maestro con i cibi? Paolo soprattutto, pur imbevuto dello spirito ellenistico, si sarebbe guardato bene dall'attribuire al pasto commemorativo, di sua propria autorità, il significato della presenza reale del Salvatore. Anche supponendolo dominato dall'influenza dei misteri, ipotesi già poco verosimile a riguardo di un ex ebreo legalista, non poteva che mutuare da essi la loro filosofia generale di salvezza, purgata da ogni traccia di impurità. Pretendere che un fariseo, disdegnoso della carne, come di tutto ciò che attiene ai sensi, dovesse introdurre nel cristianesimo il rito della manducazione del dio, per analogia inconscia con i culti di Zagreo e di Mitra, sembra tanto assurdo quanto se gli si prestasse l'intenzione, a lui che disdegnava la circoncisione, di aver sostenuto l'evirazione dei diaconi, alla maniera dei sacerdoti di Attis.

Perché nasca senza ripugnanza l'idea di consumo alimentare di una sostanza divina, occorre che l'essere soprannaturale non sia ancora assimilato a una persona umana, ma che si manifesti come una forza diffusa nella natura, un principio di vita suscettibile di incorporarsi in un oggetto, o un animale, naturalmente commestibile. Quando la leggenda si evemerizza, obbligandoci ad accettare la dottrina mostruosa di una comunione nella carne e nel sangue dell'uomo-dio, gli animi filosofici si commuovono. Si propongono diverse soluzioni: l'umanità del dio sarebbe solo un'apparenza e la comunione un gesto simbolico; oppure, se l'atto è sempre concepito come reale, almeno la carne sarebbe del tutto spirituale. L'esistenza di una polemica di questo tipo nel II° secolo dimostra che l'idea di teofagia non ha potuto nascere spontaneamente; la presenza di questo rito in seno a una comunità idealista rivela una lontana origine. Non è in un'epoca di cultura filosofica, nel momento in cui Filone faceva intendere ai credenti la sua teoria del Logos, che una pratica di forma magica ha potuto insinuarsi in un sistema religioso in via di organizzazione. Se i cristiani del II° o del III° secolo hanno creduto di mangiare realmente il corpo di Gesù e di bere il suo sangue, è perché la tradizione imponeva loro quella fede; essi non fecero che attenuare la sua barbarie originaria — come, dal canto loro, si sforzavano di fare anche gli iniziati ai misteri — attribuendole un elevato significato spirituale. Sembra inspiegabile che i fedeli abbiano adornato la loro religione con un dogma compromettente. proprio nel momento in cui i discendenti delle Baccanti e delle Menadi cercavano, tramite trasposizioni morali, di sbarazzarsi del loro ingombrante passato.

Invano si tenta di unire, in un matrimonio tardivo, il dramma storico della crocifissione al pasto teofagico. Un'associazione di idee fortuita tra la morte di Gesù e l'identificazione della sua natura con il pane che raffigura il suo corpo, il vino il suo sangue, la frazione del pane la rottura delle sue membra, rivelerebbe l'esistenza di un pensiero delirante tra i primi cristiani. Questo problema, insolubile nell'ipotesi storicista, ha dato luogo alle più straordinarie teorie. Marcione, si è detto, [7] voleva vedere nel Cristo soltanto un essere ideale. Per combattere quell'eresia e provare la realtà dell'incarnazione, i fedeli non avrebbero trovato niente di meglio che ritenere il pane e il vino consumati nei pasti fraterni la materia di cui si componevano il ​​corpo e il sangue del Signore! Questi sforzi puerili dell'esegesi moderna provano l'impossibilità di riunire gli elementi, una volta che essa li ha arbitrariamente dissociati. Se l'eucarestia ha potuto un giorno essere un rinnovamento delle sofferenze della passione, ciò non è in virtù dell'incontro di due idee diversissime, è perché queste due idee non sono che una. Questo perché la morte di Gesù si trovava inclusa nel pasto comunitario. Questo perché il rito evangelico è emerso tutt'intero da questo rito. Questo perché il cristianesimo è la trasposizione di un culto misterico.

NOTE
[1] Alfred Loisy, Les Mystères païens et le mystère chrétien, pag. 18-19, Parigi, Emile Nourry, 1919.
[2] La Messe, pag. 44-45, Parigi, F. Rieder et Cie (Collana Christianisme), 1927.
[3] Les Mystère païens et le mystère chrétien, pag. 220.
[4] Ibidem, pag. 79-90.
[5] Si veda J. Schousboe, La Messe la plus ancienne, nella Revue de l'histoire des religions. Settembre-ottobre 1927, Parigi, Ernest Leroux.
[6] L'Eucharistie, des origines à Justin Martyr, pag. 185 e 187, Parigi, Fischbacher, 1910. 
[7] Si veda in particolare Louis Colange, La Messe, pag. 60-61. Parigi, Les éditions Rieder (Collana Christianisme), 1927. 

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