III
MESSIANISMO E MISTERO
OSSIA L'IMPOSSIBILE INNESTO
Gli esegeti indipendenti non aggiungono alcuna fede ai racconti del Nuovo Testamento, di cui si compiacciono di contestare riga per riga il valore; quello della passione stessa sembra loro del tutto contaminato di mitologia. Perché quindi, dopo una critica così spietata, essi tengono ancora per autentica la crocifissione di Gesù sotto Ponzio Pilato, dopo una carriera di agitazione messianica? L'analisi delle fonti non può fornire la ragione di una conclusione così inaspettata. È un postulato filosofico che sostiene tutta la tesi dello storicismo: il prestigio del profeta galileo avrebbe suscitato il movimento iniziale: in mancanza di un animatore, il cristianesimo, divenuto inspiegabile, sembrerebbe sorgere dal nulla: [1]
Tutti gli elementi del Vangelo, dice Alfred Loisy, [2] preesistevano nel giudaismo, ma ci è voluto Gesù per percepirne e crearne la sintesi luminosa, semplice, moralmente toccante, che fu la fede evangelica.
Gli autori che, sull'esempio di Edgar Quinet, [3] invocano la forte personalità di Gesù, l'impronta indelebile lasciata nell'animo dei suoi discepoli, sarebbero in diritto di concludere che una predicazione ardente, sorretta da una solida dottrina, è necessaria per l'esplosione delle credenze mistiche; ma gli esegeti non credono più al valore di Gesù. Essi arrivano addirittura a sostenere che questo creatore di una tradizione millenaria si rivelasse ai suoi connazionali come un individuo «insignificante», al punto che Paolo, consapevole di quella carenza, invece di andare ad attingere la sua fede alla fonte, ha dovuto sbarazzarsi del Cristo secondo la carne. [4] Una così scarsa stima nei riguardi di quella personalità mal si adatta all'asserzione che essa avrebbe costituito l'elemento vitale del fervore cristiano.
Le considerazioni storiche che testimonierebbero a favore di un fondatore individuale si mostrano più consistenti?
Nessuno, nei primi secoli, si dice, anche tra gli avversari contemporanei degli eventi, non ha messo in dubbio la realtà umana di Gesù. Quest'argomentazione impressiona perché è incompleta. Non abbiamo il diritto di domandarci se i testimoni abbiano contestato l'esistenza di un personaggio senza domandarci anche se si siano presi la briga di rilevare le inesattezze fattuali della sua leggenda. Se può apparire a buon diritto strano che della gente, persuasa che Gesù non fosse che un mito, non l'abbia affatto gridato ai cristiani, sarebbe nondimeno improbabile, nell'ipotesi della storicità, che il gruppo ostile non manifestasse affatto lo zelo di ristabilire una verità oscurata da preoccupazioni dogmatiche.
Ammettiamo che una vita nascosta in Galilea non abbia affatto lasciato traccia, non avrebbe dovuto essere lo stesso del processo di Gerusalemme. Se il supplizio di un rabbino in conflitto con l'autorità sembra poca cosa allo storico, che guarda dall'alto dei secoli, un'esecuzione giudiziaria non manca di attirare la moltitudine. È difficile che non si siano trovati testimoni per raccontare l'evento alla loro maniera, tanto più che, dall'indomani, gli Apostoli creano una setta presto odiata e perseguitata. Perché dunque nessuno ha detto, ad esempio: «Mio padre o mio nonno ha assistito alle varie fasi del dramma e mi ha riferito i fatti. Ebbene! Non è vero che una folla immensa acclamò l'arrivo di Gesù e gli fece un tappeto di fronde e di vesti, che, quell'anno, due sommi sacerdoti condivisero eccezionalmente il pontificato, che la crocifissione ebbe luogo in un giorno di inattività obbligatoria, che due ladroni furono suppliziati nello stesso tempo, che la terra tremò e che le tenebre coprirono il mondo. Ecco appunto a cosa si riducono i fatti:...» Così, accanto alla tradizione cristiana, di ispirazione essenzialmente teologica, avrebbe dovuto formarsi tra gli avversari una tradizione più vicina al senso comune, forse alla lunga altrettanto poco veritiera dell’altra, ma che avrebbe attestato l’esistenza di eventi storici variamente interpretati.
Ma se ci riferiamo al Contro Celso di Origene e ai Dialoghi con Trifone di Giustino, constatiamo che mai la discussione si affranca dai testi. Nessun contraddittore, ellenico o ebreo, cerca di servirsi di un'altra fonte. Essi dispongono evidentemente, per ogni testimonianza, solo dei racconti evangelici.
Se gli avversari del cristianesimo non hanno negato l’esistenza di Gesù, se non hanno affatto opposto una biografia del profeta, secondo una tradizione ebraica, questo modo di polemica, lungi dal costituire un'argomentazione a favore della storicità, prova bensì che nessuno, nei primi secoli, sapesse nulla di Gesù.
Resta però quella difficoltà che, in eccezione alla regola delle mitologie, la leggenda evangelica si ritrova mescolata alla storia. Senza dubbio i primi cristiani non si credevano proprio i contemporanei del loro messia. In Paolo, che scriveva, si dice, da venticinque a trentacinque anni dopo il dramma del Calvario, noi non riscontriamo alcuna allusione che permetta di integrare il ministero terreno del figlio di Dio negli annali del popolo ebraico. [5] Esso sembra svolgersi al di fuori del tempo e del luogo. La tesi della storicità appare solo con i Vangeli, tra gli anni 80 e 120 della nostra era, secondo la cronologia generalmente ammessa. Eppure lo conosciamo solo nello stato in cui lo presentano i manoscritti del III° e IV° secolo.
C'è da meravigliarsi che Gesù sia stato a contatto con personaggi reali, quando lo stesso Antico Testamento attribuisce agli esseri mitici la tendenza ad avvicinarsi agli uomini, al punto da assumerne il volto e discendere in mezzo a loro? Lo Jahvé del Pentateuco si è mescolato più volte con gli uomini. Gli dèi tribali, come i cosiddetti patriarchi, fanno figura di uomini reali. Un essere collettivo, il popolo d'Israele, è rappresentato da Isaia come un individuo
«disprezzato e abbandonato dagli uomini, un uomo di dolori». [6]
Però una tendenza parallela e opposta opera per dotare la divinità di attributi trascendenti. Mentre il mistico prova il bisogno di avvicinare al suo cuore e ala sua anima candida l'essere adorato, il filosofo cerca di accordare l'immagine del Creatore con l'idea che la ragione dà del suo potere e del suo ruolo. Finché domina lo spirito mistico. l'umanizzazione del dio prosegue. Quando la religione, trionfante, si incorpora nell'organismo politico, la ragione riprende i suoi diritti: sotto l'influenza dell'analisi teologica, il dio, vergognatosi di una semplicità familiare, riacquista la sua dimora celeste.
Gli dèi misterici a loro volta si sono abbassati a poco a poco verso la creatura. Essi non subirono la definitiva evoluzione che consiste nell'integrarsi in un quadro storico definito, ma già si orientavano in quella direzione: nei primi secoli, si mostrava ancora a Nysa la tomba di Attis e di Osiride, ed Erodoto fa di Attis un figlio di Creso, ucciso alla caccia al cinghiale. [7]
Se la leggenda di Gesù prende luogo in una storia relativamente recente, è per una ragione teologica particolare. La tradizione voleva che il Messia discendesse sulla terra alla fine del mondo, per compiere il Giudizio finale. Ma la caduta di Gerusalemme, nell'anno 70, apparve agli ebrei come quella catastrofe ultima. Israël Levi [8] ha riportato due racconti folcloristici, che fanno nascere anch'essi il Messia proprio nel momento in cui il Tempio crolla. I cristiani, avidi di prendere il posto degli ebrei decaduti e, da allora in poi, in violenta opposizione con loro, arrivarono a paragonarli ai principi di questo mondo, che avevano messo a morte Gesù, e ad attribuire loro questo crimine. Non esitarono nemmeno a dare all'autore del tradimento il nome Giuda. Ecco perché, contrariamente alla tendenza naturale dei miti a rimandare la loro azione, per orgoglio di casta, in un passato lontano e favoloso, il dramma della passione non poteva minimamene risalire più oltre dell'anno 70, svolgendosi quindi necessariamente nel mezzo di eventi e di personaggi reali.
I «resti», invocati come prova della sopravvivenza disturbante, nei Vangeli, di una tradizione storica, si interpretano al contrario molto logicamente in un senso religioso.
Gesù manifesta sconvenienti fragilità, si mostra umile, obbediente e perfino inferiore a Dio, non per rassomigliare a un uomo, ma per compiere, secondo le prescrizioni rituali, l'opera della salvezza. Paolo stesso, l'apostolo che si allontana dalla carne al fine di aggrapparsi alla gnosi, considera la debolezza e l'obbedienza del Salvatore come necessità dottrinali:
«Come per la disubbidienza di un solo uomo i molti sono stati resi peccatori, così anche per l'ubbidienza di uno solo i molti saranno resi giusti». [9]
«Lui che esisteva in forma di Dio non considerò come una prerogativa l'uguaglianza con Dio, ma svuotò sé stesso». [10]
Così egli appare sotto la forma dello schiavo e si lascia crocifiggere a causa della sua debolezza. [11]
Una parola ingiuriosa contro il Figlio dell'uomo può essere rimessa, perché egli è venuto soprattutto per redimere i peccati.
La madre, i fratelli e le sorelle di Gesù esistono solo per mostrare, per antitesi, l'ascensione del santo al di sopra dei vincoli della carne: ogni volta che essi compaiono, [12] è unicamente per provocare repliche come queste:
«Donna, che cosa c'è tra te e me?...
Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?»
Così costoro non esitano ad accusarlo di demenza. Anche lì si tratta di una necessità dottrinale. Paolo non insegna forse che la sapienza del mondo è follia per Dio e che la follia di Dio è la vera sapienza? [13]
Per la stessa ragione Gesù non può fare alcun miracolo a Nazaret. In effetti nessuno è profeta nel suo paese, nell'intimità dei propri cari, che trattengono il santo sulla terra e gli impediscono di manifestare i segni del suo sacerdozio. [14]
Gesù rifiuta a Giacomo e a Giovanni un posto alla sua destra e l'altro alla sua sinistra nel Regno a venire, [15] per dare ai suoi discepoli una lezione di modestia. Egli riconosce che non è Dio, perché i primi cristiani lo consideravano ancora come un messaggero celeste, un servitore. Ignora i disegni del Padre perché ha accettato, per amore degli uomini, un ruolo subalterno. Si ritrova abbandonato, come un semplice mortale, perché sia compiuto un rito espiatorio: la deviazione sul Figlio dell'ira divina. La stessa «volgare» esecuzione giudiziaria non appare come un dettaglio improbabile nella vita di un essere soprannaturale: accusato dell'ignominia degli uomini e maledetto dal Padre, egli doveva morire nel modo più ignominioso: il supplizio degli schiavi, che, appunto, comportava la maledizione. [16]
Se gli storicisti non sono riusciti a penetrare il significato allegorico o cultuale di certe scene in apparenza oziose o inappropriate, è perché una critica troppo sottile impedisce l'accesso alla conoscenza nascosta: il filologo non sente la voce che esce dal tabernacolo. I «pilastri» di Schmiedel, che utilizza ancora l’esegesi moderna, sono i supporti di una religione misterica.
Se consideriamo ora il cristianesimo primitivo nella sua stessa evoluzione, come la tesi tradizionale lo rappresenta, gli dobbiamo riconoscere un carattere fondamentalmente anomalo: l’attesa del ritorno di Gesù, quella semplice speranza messianica, sprovvista di dottrina, di riti e di organizzazione gerarchica, risulterebbe, per una trasformazione totale della sua natura, in un culto misterico che assicura agli iniziati una immortalità beata in una dimora celeste!
Una grande difficoltà sollevata dall'ipotesi dello storicismo è quella di implicare così l'esistenza di un cristianesimo provvisorio, per così dire provvisorio, prima della costituzione di una religione fondata sui dogmi della redenzione e dell'eucarestia, estranei agli ebrei. Ma questo tema provvisorio avrebbe potuto imporsi solo alla condizione di sollevare così l'entusiasmo delle folle. Se il movimento che ha suscitato non si rivelava capace di estendersi da sé su gran parte del bacino del Mediterraneo, di oltrepassare i limiti di una setta oscura e odiata sul proprio territorio, non si comprende perché gli Elleni abbiano sentito l’imperioso bisogno di trasporne le credenze Gli esegeti si pongono così nell'obbligo difficile di scoprire una leva morale diversa da quella di un mistero di salvezza. Come ha potuto una speranza incoerente, dopo alcuni anni di penetrazione che non si spiega, subire tutto di colpo una trasfusione che la rigenera e la ricrea?
La credenza in un messia crocifisso conteneva elementi che la rendevano incompatibile con il giudaismo come con la civiltà greco-romana.
Tra gli ebrei, il liberatore a venire fu dapprima considerato come un grande re, che avrebbe riportato il regno della giustizia e avrebbe piegato sotto la sua legge tutta la terra. Poi, nella misura in cui il popolo prendeva coscienza della volgarità dei potentati e della loro negligenza, arrivò a credere che il suo sogno potesse realizzarsi solo tramite l'intercessione di un essere divino. [17] In entrambe le concezioni, è l'idea di potenza e di trionfo a dominare: che il Messia, detentore dei fulmini di Jahvé, sia stato riconosciuto un giorno come un semplice contadino di Galilea, vittima di un'esecuzione giudiziaria infame, appare assolutamente incomprensibile.
Il profeta Isaia aveva ben rappresentato il popolo d'Israele sotto i tratti di un uomo di dolore che si offre in sacrificio espiatorio, per poi trionfare improvvisamente sui suoi nemici; ma, per confessione degli stessi storicisti, quella profezia non ha dato luogo, nel giudaismo ortodosso, ad un accostamento al Messia. Gli ebrei del II° secolo l'interpretavano come il simbolo della loro nazione sfortunata che ha dovuto soffrire e disperdersi per conquistare il mondo alla sua fede. [18] Un Messia crocifisso ripugnava così tanto alla mentalità ebraica che Paolo, l'ex fariseo, rimase turbato, anche dopo la sua conversione, dallo «scandalo della croce».
«L'idea delle sofferenze e della morte del Messia», dice Maurice Goguel, [19] «che i cristiani avevano un così grande interesse a trovare nell'Antico Testamento, vi era quindi contenuta, per loro stessa ammissione, solo in una maniera così velata che occorreva un senso speciale per scoprirla. Ciò rende a priori poco verosimile l’ipotesi che sarebbe stata la Scrittura ad aver suggerito l’idea della crocifissione del Messia».
Perché un'idea estranea agli ebrei, si conclude, abbia tuttavia prevalso, occorreva che essa fosse loro imposta da un evento storico inatteso: un uomo che si proclamò il Messia e poi perì di morte violenta.
Ma, proprio al contrario, se agli ebrei ripugnava concepire il loro salvatore come un essere debole e votato alla morte, la vicenda di un individuo suppliziato bastò a provare loro che egli non era affatto colui che attendevano. La speranza messianica si rivelava di natura del tutto inadatta ad integrarsi naturalmente nella storia di Gesù. Ammettendo che quest'uomo potesse diventare un dio, egli non avrebbe mai dovuto portare il titolo di Cristo.
Incapace di provocare un movimento in Palestina, la predicazione strana degli Apostoli si trovava votata allo stesso insuccesso tra gli Elleni. Come potevano gli ebrei della Diaspora e i timorati di Dio, di cui molti si adornavano del titolo di cittadini romani, lasciarsi conquistare dall'assicurazione dell'egemonia imminente di un popolo quasi estraneo alle loro preoccupazioni? Mal ci si immagina delle comunità soggiogate da un uomo che non aveva affatto predicato in mezzo a loro e non sapeva spogliarsi del suo nazionalismo. Una tale credenza si sarebbe scontrata immediatamente con un rivale formidabile: il culto degli imperatori. Gli Elleni aspettavano proprio un Salvatore, ma questo Salvatore non era Gesù, era il Genio dei Divini Augusti.
Il messianismo ebraico doveva sedurre ancor meno siccome comportava la credenza orientale nella resurrezione dei corpi al giorno del Giudizio. Che la terra renda un giorno il suo deposito è una tesi che l'idealismo greco non poteva supportare. [20] Paolo, passando per Atene, non fece in tempo a sollevare la questione che il suo uditorio si rifiutò di ascoltarlo. [21] Ci vollero secoli ai Padri della Chiesa per fare accettare una rappresentazione così rozza.
L'analisi stessa del tema messianico obbliga a riconoscere che il sentimento dell'attesa, creando nella mente un vuoto che l'immaginazione si esaurisce nel colmare, tende a snervarsi e a diminuire, se nessun evento positivo giunge a perpetuarne la vita.
Che un ideale politico, anche lontano e chimerico, serva da nucleo a un movimento secolare, lo si concepisce senza difficoltà, perché, in mancanza di realizzazione, ha per alimentarsi una dottrina che andrà a svilupparsi adattandosi alle realtà, e un'attività il che lo porta a una lotta continua contro gli abusi e il potere costituito. Niente di simile sorreggeva la fede nel ritorno di Gesù: quella dottrina, fondata sull'utopia sterile del governo diretto di Dio, non poteva che svanire alla prova della riflessione e dell'esperienza. La sua stessa natura lo obbligava a sperare il soccorso del cielo. La denuncia delle miserie, la sete di riforme, che vivificano un partito e lo organizzano, si trovavano sostituite dall'atteggiamento passivo dove ciascuno, stringendosi ai suoi fratelli, si preparava alla fine del mondo. Una simile credenza provocherebbe terrori, piuttosto che uno slancio di fede. Forse alcuni mistici, inclini alla solitudine, si sarebbero ritirato nell'attesa, ma l'immensa maggioranza dei Greci e dei Romani, la cui attività traboccava di vita, non dovevano lasciarsi sedurre dalla prospettiva di una catastrofe imminente, che la prosperità dell'Impero non permetteva di intravedere.
Nella sua stessa patria, il messianismo non sembra aver dato vita ad una setta religiosa: se alcuni agitatori lo hanno sfruttato per fini politici, come conviene alle aspirazioni imperialiste, la sua incoerenza e le interpretazioni diverse che suscitava, lo rendevano inadatto a servire da motivo provvisorio per una grande religione.
Così il messia ebraico si rivelava assolutamente incompatibile con la concezione apostolica di un Gesù umano crocifisso, e quella concezione stessa si trovava anche molto lontana dal mito ellenistico di un dio redentore. Nondimeno gli storicisti non si stupiscono per nulla nel vedere gli Apostoli propagare, nel loro ambiente originario, credenze tutte particolari, oggetto di un'ostilità unanime, e a beneficio esclusivo della comunità greco-romana che, per altre ragioni, altrettanto imperiose, non poteva accoglierle con maggior facilità!
Non solo la speranza nel ritorno di Gesù non aveva la minima possibilità di sviluppo, né in Palestina né nella civiltà ellenica, ma anche la sua stessa natura non la portava in nulla a trasformarsi in culto misterico. Ci sono tra queste due manifestazioni differenze irriducibili. La prima è di natura nazionalista, la seconda fa piazza pulita delle patrie. L'una è dominata dall'interesse della comunità, l'altro soddisfa la vita interiore dell'individuo. L'una tende verso un benessere terreno grandioso, ma puramente umano, l'altra verso una felicità spirituale in un mondo celeste. Il cristianesimo non procederebbe quindi dall'evoluzione naturale di un'idea mistica, ma da distorsioni successive di un tema iniziale improprio. Un’illogicità fondamentale regnerebbe alla sua base. Esso sarebbe cominciato con una serie di false partenze e di incomprensioni: ogni fase di sviluppo consisteva nell'elaborazione di un dogma nuovo, slegato dal precedente. Quella religione avrebbe costruito la sua dottrina ed i suoi riti utilizzando una materia prima che le sarebbe completamente estranea!
«Era», confessa Charles Guignebert, [22] «di elementi eterogenei e di valore molto disuguale che si componeva, fin dalla prima generazione cristiana, la tradizione».
Come credere che le folle abbiano potuto accendersi spontaneamente per «elementi eterogenei», per alterazioni continue di una leggenda primitiva inaccettabile? Certo una dottrina evolve, nel corso della sua storia, e arriva anche a concezioni che contraddicono quelle antiche. Un'idea si espande e si corregge, al punto da portare a conseguenze, che non implica sempre il concetto primitivo. Nell'ipotesi di un Gesù storico, non si tratta di un processo di questa natura, ma di versioni graduali, senza legame logico tra loro, di autentiche metamorfosi.
In presenza di queste impossibilità, gli storicisti contemporanei arrivano ad ammettere che anteriormente a Gesù, sotto l'impeto di aspirazioni mistiche, gli ebrei della Diaspora avevano già confusamente espresso e in qualche sorta fondato un pre-cristianesimo, aspettando solo un incidente storico per perfezionare la loro mitologia. Il Gesù, che essi pongono come un pilastro indispensabile alla fondazione di una religione, avrebbe avuto lui stesso bisogno di appoggiarsi ad una religione già in via di formazione. Quella concessione equivale a riconoscere la tesi mitica.
Se la coscienza popolare ha dovuto dedicarsi a tutta un'opera di tasposizione e di costruzione, prima che intervenga utilmente un personaggio della storia, se tutto l'essenziale di una mitologia di salvezza si organizzasse spontaneamente attorno a temi biblici, ci si domanda perché un'immaginazione così feconda di creazioni sentisse del tutto all'improvviso la necessità, per prendere un nuovo slancio, di sperimentarsi al contatto con una realtà disturbante, sicuramente meno ricca di meraviglie e di un valore del tutto diverso. Se la carriera di un profeta non ha da sé suscitato una leggenda, il suo ruolo diventa inspiegabile. Il misticismo fa facilmente a meno della realtà. Paolo non ha avuto bisogno di vivere nell'intimità di Gesù per persuadersi della sua esistenza, e quando dice che anche lui lo ha visto, [23] egli non stabilisce tra quella maniera di vedere e quella degli Apostoli alcuna distinzione. Se la religione proposta da Paolo si fosse appellata alla storia, la critica avrebbe ripreso i suoi diritti, ma la mitologia di Paolo dipende direttamente dalle Scritture.
Se Gesù non è stato, fin dall'origine, un dio che muore e risorge per la salvezza delle anime, egli non doveva mai diventarlo.
NOTE
[1] Maurice Goguel, Jèsus de Nazareth mythe ou histoire?, pag. 307-308, Parigi, Payot, 1925.
[2] Les Mystères païens et le mystère chrétien, pag. 359, Parigi, Emile Nourry, 1919.
[3] Examen de la vie de Jésus, Oeuvres complètes, volume 8, pag. 204, Parigi, Hachette, 1838.
[4] Alfred Loisy, Jésus et la tradition évangélique, pag. 34, Parigi, Emile Nourry, 1910.
[5] Si veda la dimostrazione in Paul-Louis Couchoud, Le Mystère de Jésus, pag. 118-146, Parigi, F. Rieder (collana Christianisme), 1924.
Arthur Drews, Le Mythe de Jésus, traduzione di Robert Stahl, pag. 130-155, Parigi, Payot, 1926.
Edouard Dujardin, Le Dieu Jésus, pag. 157-169, Parigi, Albert Messein, 1927.
Prosper Alfaric, Le Jésus de Paul in Congrès d'histoire du christianisme, volume 2, pag. 70-100, Parigi, F. Rieder, 1928.
[6] Isaia 53:3.
[7] Diodoro di Sicilia, 1:27; Erodoto, 1:34-43.
[8] Le Ravissement du Messie enfant, nella Revue des études juives, volume 74, pag. 113 e seguenti, 75, pag. 113 e seguenti, 77, pag. 1 e seguenti, Parigi, A. Durlacher, 1922, 1923.
[9] Ai Romani 5:19.
[10] Ai Filippesi 2:6-7.
[11] 2° ai Corinzi 13:4.
[12] Matteo 12:47-50. Marco 3:31-34; 10:29-30. Luca 8:19-21; 11:27-28. Giovanni 2:4; 7:5.
[13] 1° ai Corinzi 1:20-21; 3:19.
[14] Marco 10:35-45.
[15] Marco 10:35-45.
[16] Deuteronomio 21:22-23.
[17] Padre Marie-Jospeh Lagrange, Le Messianisme chez les Juifs (150 avant J.-C. à 200 ap. J.C.), Parigi, Victor Lecoffre, J. Gabalda, 1909.
[18] Origene, Contro Celso 1:55.
[19] Jèsus de Nazareth mythe ou histoire?, pag. 201, Parigi, Payot, 1925.
[20] Charles Guignebert, Les Mystères d'immortalité, in Dieux et Religions, serie di conferenze, pag. 74-75, Parigi, F. Rieder, 1926.
Louis Rougier, Celse ou le Conflit de la civilisation antique et du christianisme primitif, pag. 85-90, Parigi, André Delpeuch (collana Civilisation et christianisme), 1926.
[21] Atti 17:32.
[22] Le Christianisme antique, pag. 36, Parigi, Ernest Flammarion (Bibliothèque de philosophie scientifique), 1922.
[23] 1° ai Corinzi 15:8.
Nessun commento:
Posta un commento