mercoledì 2 ottobre 2024

ECCE DEUS — COMINUS

 (segue da qui)

COMINUS 

24. È ora il momento di affrontare più da vicino questi pilastri della fede storica. Poiché la presentazione è logicamente abbastanza indifferente, seguiremo un ordine che sembra più conveniente di quello dato dall'Encyclopaedia Biblica, e il lettore ne riconoscerà facilmente il principio informatore.

Marco 3:21: “E va in casa. [1] E di nuovo si riunisce la folla così da non poter essi mangiare pane. Ed avendolo udito quelli presso di lui, [2] uscirono per prenderlo; [3] dicevano infatti che Egli è fuori di sé”. [4] Ma l'idea dell'Encyiclopaedia sembra essere che qui abbiamo preservato un tratto autentico; che il Gesù appare qui come un entusiasta, che i suoi amici ritennero matto; [5] che un simile episodio non avrebbe mai potuto essere inventato da un adoratore di Gesù: quindi che si tratta di un originale, preservato dall'innocente Marco, e inestimabile nella sua rivelazione. Ma nota che questa costruzione prende i versetti marciani proprio alla lettera, come semplici note biografiche o articoli di cronaca. Ma io ritengo che questo tipo di interpretazione sia radicalmente e irrimediabilmente sbagliato. Fa la più grande ingiustizia all'opera del secondo evangelista. Un esame minuzioso di Marco, versetto per versetto, prova inequivocabilmente che l'opera è essenzialmente un simbolismo dall'inizio alla fine. L'interpretazione simbolica è assolutamente richiesta in una miriade di casi importanti; è preferibile in molti altri, e non è esclusa in nessuno. L'esegesi biografica letterale di questi versetti non è quindi affatto certa in anticipo; assumerla tranquillamente equivale ad assumere quasi tutto ciò che è in discussione. 

25. Ad un attento esame, questa costruzione prevalente del passo si rivela del tutto incomprensibile. Si immagini la situazione. Gesù entra in una casa. Di nuovo la folla si raduna in numero tale da non riuscire neppure a mangiare il pane! Inteso come Storia, questo episodio non è altro che un'assurdità puerile. Possiamo anche non essere sicuri di ciò che l'evangelista intende dire, ma dobbiamo credere che intenda dire qualcosa di significativo, che voglia dire più di quanto non sembri all'orecchio. Ancora, chi sono questi amici “presso di lui”? Verrebbe spontaneo pensare ai discepoli come ai suoi amici “presso di lui”. Ma possiamo pensare che lo prendano? Certamente no. E cosa è stato fatto per indicare o anche solo suggerire la pazzia? Certamente nulla nel testo. Forse qualcuno potrebbe ritenere matte le folle, se non sono in grado di mangiare il pane; ma non sono accusate di ciò. Nota anche la strana parola ἀκουσάντες (avendo udito), usata senza alcun complemento oggetto, e usata a proposito degli “amici”: come se questi “presso di lui” non fossero vicini a lui, ma avessero ricevuto da lontano qualche notizia sulla situazione. Osserva inoltre che segue un racconto di una disputa sulla cacciata dei demoni, in cui si solleva l'accusa che il Gesù sia posseduto da un demone e scacci i demoni per mezzo di Beelzebul, il principe dei demoni. Infine, nota che il testo è a questo punto particolarmente e irrimediabilmente incerto. Il grande Codex Bezae presenta la variante allettante: “E quando udirono riguardo a lui gli scribi e gli altri uscirono per catturarlo; dicevano infatti che sconvolgeva loro (ἐξέσταται ἀυτούς). E gli scribi, quelli di Gerusalemme, [6] essendo scesi, dicevano che egli ha Beelzebùl”, ecc. La forma del verbo naturalmente non è attiva, ma l'accusativo “loro” (ἀυτούς) richiede il senso attivo. Dal momento che l'ortografia in D è particolarmente negativa, possiamo ipotizzare che il verbo sia scritto male; la forma attiva è implicita nella traduzione latina exentiat (exsentiat) in molti manoscritti. 

26. Naturalmente, non è possibile risolvere con certezza nessuna questione critica testuale. Ma il buon senso, che ha una certa voce in capitolo in queste materie (pace Bengel), dichiara che il testo D, pur essendo corrotto, sembra aver preservato una razionalità che è andata perduta nella forma ricevuta. Pare impossibile non riconoscere che i versetti 20-21 non sono completi in sé: che si limitano a introdurre i paragrafi successivi. L'espressione “riguardo a lui” [7] pare di gran lunga preferibile all'espressione “presso di lui”; [8] e con ciò le sue “parentele”, calate improvvisamente dal cielo, si volatilizzano e vi fanno ritorno. Ma considera questo fatto fondamentale. I demoni del Nuovo Testamento non sono altro che dèi pagani; scacciare i demoni non equivale ad altro che a convertirsi dal culto pagano al culto di Gesù. “Ma le cose che i gentili sacrificano, le sacrificano ai demoni e non a Dio”, dice l'Apostolo (1 Corinzi 10:20), e anche Giustino Martire lo testimonia, dicendo (Dialogo con il giudeo Trifone 30:100): “Infatti sempre invochiamo Dio per mezzo di Gesù Cristo di preservarci dai demoni, che sono estranei al culto di Dio e che un tempo noi adoravamo, affinché dopo esserci volti a Dio grazie a lui siamo irreprensibili”. Qui, in semplice prosa, l'adozione del culto di Gesù converte dal culto dei demoni. Nella poesia audace e splendida del Nuovo Testamento i demoni sono scacciati dall'Uomo dalla parola del Gesù. Che questo sia il significato del Vangelo, a quanto pare, non può esserci l'ombra di un dubbio. Alla luce di questo fatto dobbiamo esplorare il significato di questa pericope. La moltitudine si accalca attorno al Gesù. Che cos'è se non la corsa del mondo verso il culto di Gesù? Ma gli scribi dichiarano che il Gesù stesso ha un demone e che egli scaccia i demoni per mezzo di Belzebul, principe dei demoni: cioè sostengono che il culto di Gesù è esso stesso pagano; che sta semplicemente soppiantando un culto pagano con un altro. Quest'accusa era talmente verosimile, in quanto conteneva un certo elemento di verità, che sembra impossibile che non sia stata fatta. In Matteo 12:27, Luca 11:19, troviamo l'argumentum ad hominem: “Se io scaccio i demoni in nome di Beelzebùl, i vostri figli in nome di chi li scacciano?”, che potrebbe riferirsi al fatto che gli ebrei scacciavano i demoni facendo proseliti, convertendo dal culto idolatrico al servizio del vero Dio. [9] L'accusa che il culto di Gesù fosse in realtà idolatria dovette aver urtato profondamente i cristiani e dovette essere combattuta con la massima energia. [10] Per cui essa è qui solennemente dichiarata imperdonabile. “In verità vi dico: ai figli degli uomini saranno perdonati tutti i peccati e qualunque bestemmia avranno proferita; ma chiunque avrà bestemmiato contro lo spirito santo non ha perdono in eterno, ma è reo di un peccato eterno. Egli parlava così perché dicevano: Ha uno spirito immondo”. L'espressione “lo spirito santo” [11] è rara in Marco e ricorre solo tre volte: qui, in 12:36 e 13:11; solo 3:29 e 13:11 sono strettamente paralleli, ed entrambi sembrano chiaramente posteriori rispetto al resto. Il termine “spirito santo” sembra usato solo in contrasto con “spirito impuro”. Loro dicono che egli ha uno spirito impuro, ma noi cristiani diciamo che egli ha lo Spirito Santo.

27. In Matteo 12:32, troviamo l'affermazione che “A chiunque parlerà male del Figlio dell'uomo sarà perdonato”; e in Luca 12:10, che “Chiunque parlerà contro il Figlio dell'uomo gli sarà perdonato”. Questa espressione è chiaramente indicata in Matteo, e ancora più chiaramente dalla sua dislocazione in Luca, come un'aggiunta del commentatore al più semplice originale marciano. Il Figlio dell'uomo sembra qui una semplice variante dei “figli degli uomini” di Marco. Quanto all'affermazione di non poter mangiare il pane, sembra significare che la messe era grande, gli operai pochi; che l'ansiosa richiesta del pane della vita (la dottrina del Gesù) non poteva essere adeguatamente soddisfatta dai primi predicatori, enumerati immediatamente prima. La “casa” o “dimora” riferita potrebbe essere la Giudea. Ma non insistiamo su nessuno di questi punti secondari. La cosa principale è che i versetti 20-29 formano un tutt'uno; che l'argomento generale è l'affluenza verso il nuovo culto, che i funzionari ebrei ammettono stia scacciando le divinità pagane, ma solo (dicono loro) per introdurre un'altra divinità pagana al loro posto. Anche se non saremo mai in grado di stabilire il testo primitivo, possiamo essere certi che non diceva nulla delle sue “parentele”, né del fatto che Egli fosse pazzo.

28. Il carattere simbolico dell'intero brano è attestato dal carattere simbolico del brano immediatamente successivo (3:31-33). Wellhausen riconosce intrinsecamente correlati i due brani. La madre e i fratelli che stanno fuori sembrano essere chiaramente il popolo ebraico che si tiene lontano dal culto di Gesù; e il brano insegnerebbe che nella nuova religione non sussistono privilegi di razza, che tutti sono sullo stesso piano, che tutti sono uno in Cristo.  

29. Il brano-pilastro successivo è già stato considerato: “A chiunque parlerà male del Figlio dell'uomo sarà perdonato” (Matteo 12:32; Luca 12:10). Al professor Schmiedel un siffatto sentimento sembra impossibile come l'invenzione di un adoratore di Gesù. Può darsi che sia così o non sia così; ma, in ogni caso, che ne è? Il professor Schmiedel pensa davvero che Gesù avesse pronunciato queste parole? Che si fosse definito il Figlio dell'Uomo? Sicuramente no. Già nel 1569 fu riconosciuto da Gilbert Génébrand che “Figlio dell'uomo” qui significa solo “uomo”, come comunemente in siriaco. Grotius, seguito da Botten nel 1792, raggiunse la stessa posizione. Più recentemente i dotti orientalisti Meyer (1896) e Schmidt (1906) l'hanno sostenuta con forza. Holtzmann ritiene che “il riferimento al Figlio dell'uomo sia stato ricavato dal riferimento ai figli degli uomini nel passo fondamentale di Marco 3:28”, come aveva già dichiarato Pfleiderer in una nota (Das Urchristentum, pag. 376). Wellhausen (Ev. Marci, pag. 62) considera Matteo 12:31-32 una fusione di Marco 3:28 e di Luca 12:10 (la fonte Q): “varianti di uno stesso detto”. Egli assegna la priorità a Marco, ritenendo che in Q si intenda il Messia, ma in Marco uomini in generale: l'uomo. Ritiene probabile che Q avesse trovato “figlio dell'uomo” invece di “figli degli uomini” in Marco 3:28, e avesse frainteso il singolare, che in realtà significava uomo: un singolare che fu poi cambiato nell'attuale plurale. Nel suo Skizzen und Vorarbeiten, vi, pag. 204, Wellhausen, seguendo un accenno di Marcione, suggerisce che la lettura originale fosse: “Qualunque cosa sia detta dall'uomo”

30. Non siamo chiamati a pronunciarci positivamente in questo caso. È sufficiente che il passo-pilastro sia indubbiamente tardivo — quanto tardivo nessuno può dirlo; che non faccia parte del più antico Vangelo, che il suo riferimento sia molto incerto, che il suo testo sia tutt'altro che sicuro. Un tale pilastro è troppo fragile per sopportare il minimo peso dell'inferenza ed è inutile per la tesi che si intende fargli sostenere. 

31. Marco 10:18: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo”. Schmiedel sostiene che un adoratore di Gesù non avrebbe potuto inventare questa negazione di bontà, da cui conclude che il resoconto è assolutamente attendibile, che Gesù dovette aver usato queste parole, quindi dovette essere stato un uomo storico. In questa forma l'argomentazione si sgretola all'istante, perché si può provare, e il sottoscritto lo ha già fatto in questo volume, che questo famoso episodio è un elaborato simbolismo, in quanto il Ricco non è nient'altro che il Popolo d'Israele, che il Gesù (il nuovo Jahvé) “amò” (versetto 21), secondo il profeta, “quando Israele era giovane io lo amai” (Osea 2:1). Con la storicità dell'intero episodio svanisce anche la storicità del detto e, di conseguenza, l'argomentazione ivi basata. Ma forse qualcuno potrebbe obiettare: “Non importa l'episodio; il detto rivela comunque una coscienza che non poteva essere appartenuta a un adoratore di Gesù; quindi dovette essere stato preservato per riverenza, e mostra che la coscienza più antica da cui derivò dovette aver pensato al Gesù come ad un essere umano (non buono nel senso più elevato del termine), e quindi non come ad un essere divino”. Questa interpretazione è piaciuta immensamente ai critici radicali. Mostra loro un Gesù proprio secondo il loro cuore, modesto e umile e intensamente umano, ed essi non tollerano nessun'altra concezione. Eppure i Padri non la vedevano in questa luce. Essi considerarono quel detto un argomento a favore della divinità del Gesù, un sillogismo con conclusione implicita: Tu mi chiami buono; Dio solo è buono; perciò tu mi chiami (e mi chiami correttamente) Dio, “non rifiutando di essere detto buono”, dice l'esegeta antico. E come si potrà provare che i Padri si sbagliassero? La stessa ingenuità della concezione comune sembra piuttosto sospetta. Inoltre, la forma originale del detto è dubbia. Luca, infatti (18:19), riproduce la forma marciana, ma Matteo ne presenta un'altra (19:17): “Maestro, che devo fare di buono per avere la vita eterna? Ma egli gli rispose: 'Perché m'interroghi intorno a ciò che è buono? Uno solo è il buono'”. Il greco dà qui il maschile, [12] ma il senso richiede il neutro, il bene. [13] Nel siriaco la distinzione dei generi è persa come in inglese, perciò Merx dà le tre traduzioni ugualmente giustificate del testo sinaitico (il più antico): Einer ist der Gute, Der Gute ist einer, Das Gute ist eines. Di queste solo l'ultima è possibile nel contesto, di cui il greco sarebbe ἓν (ἐστὶν) τὸ ἀγαθόν. Ma questa è proprio la forma assunta dal dogma dell'Euclide di Megara, come apprendiamo da Diogene Laerzio (2:106): “il sommo Bene è uno solo, anche se chiamato con molti nomi”. [14] Nel confrontare le molteplici e varie autorità testuali, i manoscritti, le versioni, e le citazioni, sembra chiaro non solo che questa fosse la versione primitiva in Matteo, ma che fosse la versione più primitiva del detto di cui abbiamo qualche conoscenza, poiché le varianti rivelano una tendenza inequivocabile a deviare da questa versione e ad approssimare la versione di Marco e Luca. Così recita la versione siriaca della Peshitta: “Non c'è buono eccetto uno: Dio”. Possiamo capire facilmente la derivazione della versione di Marco e Luca dalla versione di Matteo, ma non la derivazione della versione di Matteo dalla versione di Marco e Luca. Dobbiamo accontentarci, allora, della probabilità che la versione originaria del detto fosse “Il sommo Bene è uno solo”— un motto ricorrente della filosofia etica greca, tradotto correttamente in aramaico, poi tradotto scorrettamente di nuovo in greco. 

32. Così, a quanto pare, non ci fu in tutta probabilità nessun riferimento originario ad una Personalità buona, ma solo al Principio universale del Bene. Con ciò, allora, la posizione del critico sembra completamente stravolta. Ma anche se il testo marciano fosse accettato come quello originale, non sarebbe ancora lecita da esso nessuna conclusione sull'umanità e non-divinità del Gesù. Abbiamo visto che i Padri ricavarono la conclusione opposta; ma supponi di concedere che in ciò fossero troppo sottili; supponiamo che il Gesù sia rappresentato mentre disconosce la bontà; non significherebbe certo che la disconosce in assoluto, ma solo relativamente (come dice il Padre della chiesa), “in contrapposizione alla Bontà di Dio”. Benissimo: da ciò non possiamo dedurre che lo scrittore originale non lo concepisse divino ma semplicemente umano. Ci sono infatti molti gradi e aspetti della divinità. Il fatto che Gesù sia divino non lo identifica affatto con l'Unico Dio Supremo, con Dio l'Altissimo (Luca 8:28, Atti 16:17, Ebrei 7:1). [15] Per alcuni Gesù era solo una certa manifestazione o un certo aspetto di questo Dio unico; il culto del Gesù o del Nazareno non era il culto di Dio in sé, ma solo sotto l'aspetto di Salvatore o di Guardiano, in relazione agli uomini. Il pensiero antico era perfettamente familiare con quest'idea di gradi, di aspetti o di persone particolari [16] della Divinità Infinita, e quindi poteva benissimo rappresentare una tale Divinità mentre disconosce la propria Bontà al confronto con l'Unico Dio Altissimo. Valutalo, allora, come vuoi, ma questo brano fondamentale si rifiuta di recare la testimonianza per la quale era indicato. Passiamo, quindi, al successivo, che è simile ad esso. 

33. Marco 13:32 (Matteo 24:36): “Quanto a quel giorno e a quell'ora, nessuno li sa, neppure gli angeli del cielo, neppure il Figlio, ma solo il Padre”. Non importa che molti manoscritti omettano “neppure il Figlio”; ma quale possibile deduzione si può trarre riguardo l'umanità del Gesù? Non ne vediamo nessuna. È vero che al Padre è attribuita una conoscenza maggiore che al Figlio, ma questo è perfettamente naturale, come abbiamo appena visto; nessuno sostiene che il Gesù fosse in origine la Divinità metafisica, il Dio Altissimo. D'altra parte, la mera umanità sembra implicitamente ma enfaticamente negata. Il Figlio è posto al di sopra degli angeli del cielo e accanto al Padre (perché è evidente che si intende un climax). La testimonianza di questo brano fondamentale è esplicitamente contraria alla posizione dei critici liberali, perché attesta non il carattere puramente umano e terreno, ma il carattere divino e celeste del Figlio (il Gesù). 

34. L'ultima delle parole attribuite al Gesù è il grido sulla Croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Matteo 27:46; Marco 15:34). Va ammesso francamente e pienamente che questa è di gran lunga la prova-pilastro in apparenza più solida che l'abile ricerca della critica sia stata in grado di produrre. A prima vista sembra che il Gesù sia qui raffigurato come un semplice uomo, un entusiasta abbandonato al suo fato, che all'ultimo momento si rende conto di essere stato abbandonato sia dalla terra che dal cielo. Involontariamente ci vengono in mente i versi commoventi di Iacopone da Todi:  

Vidit suum dulcem natum

Morientem, desolatum, 

Dum emisit spiritum.

Tuttavia, riflettiamo. Nella concezione antica una divinità era un'entità non mortale. Sono gli “dèi immortali” a popolare l'Olimpo e l'intera letteratura di Grecia e Roma, nonché i documenti dell'Asia e dell'Egitto. Di conseguenza, quando il pensiero antico doveva occuparsi di un dio morente incontrava un ostacolo serissimo, qualcosa di simile a una contraddizione in termini. Come si poteva rimuovere o superare questo ostacolo, o almeno aggirarlo? Doveva essere adottato qualche artificio più o meno plausibile, e pensieri diversi avrebbero probabilmente adottato espedienti diversi. Forse il più ovvio e il più popolare sarebbe quello di dire che la divinità assunse (indossò come un abito) una veste mortale, che depose al momento della morte apparente. Su come ciò avvenisse esattamente nessuno avrebbe indagato con troppa curiosità. È sufficiente che la coscienza antica fosse perfettamente familiare con l'idea di un dio che si riveste dell'abito dell'umanità, o persino di qualche sembianza inferiore di mortalità. Sarebbe offensivo per il lettore citare esempi, sono fin troppo numerosi e troppo familiari; ma ci si può permettere di citare le parole elevate di Pindaro: “E in quell'istante tutto solo venne il dio, assunta la parvenza luminosa d'un uomo venerabile”. [17] Pure le Scritture ebraiche sono ricolme di teofanie, di apparizioni della divinità e degli angeli in guisa di uomini. È proprio a qualche espediente di questo tipo che i cristiani primitivi si trovarono indotti quando tentarono di dare un'espressione simbolica alla loro grande idea etica di un Dio sofferente e morente. Una delle affermazioni più vivide si trova nell'Epistola ai Filippesi (2:5-11), un brano importante: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo in forma di Dio, non considerò l'essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente, ma svuotò se stesso, prendendo forma di servo, divenendo a somiglianza degli uomini; trovato esteriormente come un uomo, umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce”, ecc. Qui non c'è alcuna idea di nascita umana, di storia umana o di autentica umanità. L'Entità Divina Cristo Gesù si umilia, si svuota della sua gloria celeste, assume le sembianze di uno schiavo, si sottomette alla morte vergognosa della croce. Ma solo in queste sembianze umane, e l'umiliazione temporanea è seguita da una esaltazione suprema. Chiaramente lo scrittore sembra pensare lungo linee parallele a quelle di Pindaro nel passo appena citato. Una concezione simile si trova espressa vagamente in Romani 15:3, più esplicitamente in 2 Corinzi 8:9. 

35. Un accenno molto significativo di un'immaginazione correlata si trova in Marco 14:51, 52. Come è provato altrove in modo decisivo (a pag. 112), il “giovane avvolto solo in un panno di lino”, che seguiva (accompagnava) Gesù, era un essere celeste, l'angelo custode o l'angelo interiore, la natura divina di Gesù. Per i soldati fu impossibile arrestarlo; esso fuggì via, lasciando in loro possesso solo il lino, il lino splendente, la carne umana, simile alla “parvenza luminosa” nel quale il Poseidone di Pindaro aveva avvolto sé stesso. Già all'inizio dell'azione finale, Marco trovò opportuno affermare, in termini comprensibili per gli iniziati, che la passione del Gesù doveva essere intesa in un certo senso come un simbolo, un'apparizione sublime. 

36. Passando ora a Ippolito, troviamo un'affermazione illuminante sulla fede del Doceta (Confutazione di tutte le eresie 8:10): “Venuto dall'alto, si rivestì della realtà generata e fece tutto così come è scritto nei Vangeli, si bagnò (immergendosi) nel Giordano, fu battezzato ricevendo un segno e un sigillo nell'acqua sul corpo generato dalla vergine perché, quando l'Arconte condanna la propria creatura alla morte di croce, quell'anima, nutrita nel corpo, spogliatasi del corpo e inchiodatolo al legno, trionfando per il suo tramite su principati e potestà, non sia trovata nuda, ma indossi, invece di quella carne, il corpo segnato con l'acqua di quando era stata battezzata”. Non importa quanto fantasiosa possiamo ritenere questa speculazione: il punto è che essa presenta in modo chiaro e inequivocabile un certo pensiero riguardo l'apparenza umana e il ruolo che essa svolse nella crocifissione. Questa apparenza generata dalla Vergine fu invero inchiodata alla croce; ma l'anima, il vero Gesù, era già rivestita di un'altra forma segnata su di essa nell'atto del battesimo; e quando la “propria creatura” (plasma) di carne fu crocifissa, l'anima (il Gesù) si spogliò della creatura crocifissa e, rivestita del corpo segnato ricevuto nel battesimo, trionfò su tutti i principati e le potenze coalizzati sotto l'Arconte [18] per la sua distruzione. 

37. È inutile dire che si tratta solo di una fantasia molto tardiva. Il brano appena citato, o almeno la sua idea, con la sua forma di espressione, è più antico di Colossesi 2:14, 15, come è dimostrato altrove (a pag 88, nota). Infatti, il brano di Colossesi adotta le frasi docetiche, le appropria ad un altro uso e le rende in tal modo incomprensibili. La dottrina sopra esposta può essere benissimo, nella sua forma elaborata, posteriore al Vangelo, ma è evidente, ed è sufficiente, che l'idea centrale sia una sola e la stessa: cioè che sulla croce il vero Dio, il Gesù, depose l'apparenza di carne assunta temporaneamente e fuggì, o come nudo (γυμνόν) spirito disincarnato, oppure rivestito di un corpo segnato o spirituale. Che il pensiero antico rifuggisse dall'idea di un nudo spirito (senza corpo) lo si vede chiaramente in 1 Corinzi 15, dove l'Apostolo sostiene energicamente l'esistenza di un corpo per lo spirito come pure di un corpo per l'anima; e anche in 2 Corinzi 5:1-4, dove deplora di essere trovato nudo (uno spirito senza corpo). 

38. Questa è la serie di concezioni in cui questo brano-pilastro trova la sua spiegazione; e vediamo chiaramente che esso non testimonia affatto la realtà storica di un uomo Gesù, ma l'idea elevata di un Dio che si era rivestito transitoriamente di una veste di carne, la cui veste egli abbandonò sulla croce, e che poi ascese, sbarazzatosi della carne, trionfante al suo cielo nativo. Quest'idea sembra naturale e quasi necessaria (in qualche fase evolutiva) se, e solo se, la concezione primitiva fosse quella di un Dio che in qualche modo appariva agli uomini (proprio come Jahvé appariva nell'Antico Testamento); ma è un caso sconcertante di generazione invertita, di “bambino padre dell'uomo”, se assumiamo che la concezione primitiva fosse quella di Gesù puro uomo, come sostenuto dalla teologia critica. Non è inutile osservare che le parole (riportate dai manoscritti in tre forme principali: ebraica, ēli, ēli, lama zafthani; aramaica, elōi, elōi, lama sabachthani; giudeo-aramaica, ōli, ōli, lama sabachthani) qui attribuite a Gesù sono tratte dal Salmo 22:1, dove si odono come il grido del Giusto e del Perseguitato (Israele). La loro attribuzione a una divinità che si era svuotata della gloria e aveva assunto una veste di carne sofferente non sembra affatto strana: né la loro pronuncia sulla croce, dato che Platone aveva detto che il Giusto, ritenuto ingiusto, sarebbe stato crocifisso. Che tali parole non fossero in contrasto con la concezione di Marco (e di Matteo) di Gesù come Dio, possiamo esserne certi; infatti, se fossero state in contrasto, sarebbe stato possibile ometterle: come fecero Luca, sostituendoli con la preghiera più edificante “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”, e Giovanni, sostituendo il drammatico Tetelestai (è compiuto), e il “Vangelo di Pietro”, alterando ancora più nettamente ēli (mio Dio) in ējali (mia forza). Non c'è motivo di supporre che questi tre avessero più riverenza per Gesù e meno rispetto per le sue parole di quanto ne avessero Marco (o Matteo); si tratta solo di preferenze diverse che loro mostrano nella finzione teologica. Al Marco doceta (seguito da Matteo) il grido sembrò perfettamente adatto, e quasi richiesto come adempimento della Scrittura; se non fosse sembrato tale, egli non l'avrebbe mai attribuito a Gesù. L'idea che la tradizione glielo avesse imposto è infondata e completamente smentita dalla procedura di Luca, di Giovanni e di “Pietro”

39. Veniamo ora alle azioni del Gesù che si suppone indichino la sua mera umanità. Di questi il primo è: (I) Marco 6:5; Matteo 13:58: “E non poté fare lì alcuna opera potente, salvo che guarire pochi infermi, imponendo loro le mani. E si meravigliava della loro incredulità”. Apparentemente si pensa che solo un uomo potesse avere questo potere limitato dall'incredulità altrui, e che solo di un uomo si sarebbe riferito un tale limite. Il professor Schmiedel dice che questo avvenne “a Nazaret”, ma Marco e Matteo dichiarano solo che “venne nella sua patria”, [19] il che non significa assolutamente Nazaret. Il significato dell'intero brano è chiaro e non deve creare grandi problemi. La “patria” (patris) è, a quanto pare, il giudaismo, Israele, il popolo ebraico: in particolare gli ebrei palestinesi. Quando il culto di Gesù arrivò da loro incontrò, e ha sempre incontrato, un'opposizione ostinata. Tra loro non ha compiuto atti di potenza, perché essi non crederanno. Alcuni “deboli” lo hanno accettato, ma lo strato consistente della razza lo ha costantemente respinto. Il brano non accenna in alcun modo all'umanità del Gesù, ma mostra il culto di Gesù trionfante tra i gentili e disprezzato dagli ebrei. Inoltre raffigura, e molto opportunamente, il progresso del culto e il suo trionfo dipendenti dalla fede con cui esso è accolto. Proprio come ci saremmo aspettati.

40. (II) Marco 8:12 (Matteo 12:39; 16:4; Luca 11: 29): “Perché questa generazione chiede un segno? In verità io vi dico: nessun segno sarà dato a questa generazione” (“tranne il segno del profeta Giona”, “tranne il segno di Giona”). Non è la parola, ma piuttosto l'azione del Gesù che rifiuta la taumaturgia o il dono di un segno, che il critico considera un chiaro indizio di umanità, persino di una modesta umanità. Il segno di Giona è inteso come la predicazione di Giona. A riprova di ciò, siamo riferiti “all'immediato seguito: 'quelli di Ninive si ravvidero alla predicazione di Giona'”. Ma la spiegazione di tutto ciò è a portata di mano. È il culto di Gesù che sta avendo un successo straordinario; i Gentili lontani e vicini stanno abbandonando il loro culto idolatrico e ricevono l'“insegnamento nuovo”; si stanno pentendo proprio come si pentirono gli abitanti di Ninive. Questo, in effetti, è l'unico e solo segno che offre il Gesù per indicare il progresso del suo culto tra le nazioni. Ma non scacciò forse i demoni? Certamente! Ma questa predicazione della “nuova dottrina”, questa conversione dei pagani, stava scacciando i demoni, stava purificando i lebbrosi, stava guarendo i malati, gli zoppi, i ciechi, stava resuscitando i morti. Ancora una volta nel brano non si trova altro che la più forte conferma dell'interpretazione qui sostenuta e illustrata. 

41. In stretto legame con quanto precede si trova (III) Matteo 11:5 (Luca 7:22), la risposta al Battista: “i ciechi recuperano la vista e gli zoppi camminano; i lebbrosi sono purificati e i sordi odono; i morti resuscitano e il vangelo è annunciato ai poveri, e beato colui che non si scandalizza di me”. Il professor Schmiedel è impressionato dal fatto “che tutti i miracoli menzionati sono avvenuti o in una data precedente oppure sotto gli occhi dei messaggeri del Battista. È quindi ancora più notevole che l'elenco si chiuda con ciò che non è affatto un miracolo. Sarebbe impossibile contrastare l'enumerazione precedente in modo più efficace che con il semplice inserimento di questa clausola finale. Perciò gli evangelisti non possono averla aggiunta di propria iniziativa. Né Gesù avrebbe potuto neutralizzare la forza delle sue stesse parole — se supponiamo che miracoli siano intesi — in una maniera così straordinaria. D'altra parte la clausola in questione si addice mirabilmente se Gesù stesse parlando di ciechi, zoppi, lebbrosi, sordi, defunti non in senso fisico, ma in senso spirituale. Questo è anche il significato che possiedono effettivamente queste parole nei passi veterotestamentari di Isaia 35:5 e seguenti; 61:1, che ne sono alla base; e quella clausola si addice benissimo anche alla continuazione in Matteo 11:6; Luca 7:23, che recita: “Beato colui che non si scandalizza di me” (cioè, della mia semplicità non pretenziosa). Perciò abbiamo qui un caso, tanto notevole quanto sicuro, in cui un detto di Gesù, sebbene frainteso completamente, è stato incorporato con accuratezza verbale nei Vangeli, almeno nella sua essenza”. 

42. Per non fare torto a nessuno, abbiamo citato per intero l'argomentazione basata su questo brano importante. Essa contiene molte cose che sembrano essere del tutto giuste. Abbiamo messo in corsivo quelle che sembrano essere le affermazioni ingiustificate. Il professor Schmiedel sembra sbagliare nel supporre che gli evangelisti abbiano frainteso qualcosa. Essi hanno usato i termini “cieco”, “zoppo”, “lebbroso”, “sordo”, “morto”, “povero”, in tutto il loro senso spirituale, in maniera perfettamente consapevole. Non intendevano alcun miracolo fisico e hanno riassunto la situazione abbastanza correttamente nelle cruciali parole finali “il vangelo è annunciato ai poveri”: cioè il Vangelo è annunciato ai poveri pagani, una descrizione audace e bella della propaganda primitiva. Il brano è abbastanza auto-consistente in tutto. La “semplicità non pretenziosa” è semplicemente una fantasia. Non importa come interpreti i Vangeli, il Gesù non fu né semplice né modesto. [20] Ma la frase “colui che non si scandalizza di me” è la più significativa. Che cosa del Gesù poteva scandalizzare, poteva far inciampare qualcuno nell'accettarlo? Non certo la semplicità, non la modestia. Una cosa, e una sola: la sua origine semi-pagana, il fatto che la “nuova dottrina” fosse sorta non sul suolo sacro di Giudea, non nel seno del rigoroso partito farisaico o sacerdotale, non sotto l'ombra sacra del tempio, ma lontano, nella Diaspora, tra i Gentili; lì sorse la grande luce nella tenebra profonda delle nazioni; [21] e su questo fatto Israele ha sempre inciampato. Sembra dunque che questo celebre brano testimoni apertamente a favore della nostra tesi. Davvero degno di nota è l'uso del termine “il Cristo” (11:2), ma non ci interessano al momento le sue implicazioni. 

43. (IV) Infine, veniamo all'incomprensione dei discepoli riguardo il lievito degli scribi e dei farisei, Marco 8:14-21 (Matteo 16:5-12; Luca 12:1): “Fate attenzione, guardatevi dal lievito dei farisei e dal lievito di Erode” (in Matteo, “e dei sadducei”; in Luca, semplicemente “dei farisei”). Il nocciolo del ragionamento del professor Schmiedel sembra essere racchiuso in due frasi: “Entrambi gli evangelisti hanno riferito in precedenza la moltiplicazione dei pani per 5.000 e per 4.000 come fatti”. Poi continua mostrando che solo assumendo che “la moltiplicazione dei pani per 5.000 e per 4.000 non fosse un fatto storico, ma una parabola”, il linguaggio del Gesù diventerebbe comprensibile; e poi continua: “È estremamente sorprendente, ma allo stesso tempo prova di una riproduzione di materiali precedenti, che Marco e Matteo forniscano la presente narrativa: una narrativa che nella loro comprensione del miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci è così priva di significato”. Anche in questo caso abbiamo messo in corsivo le poche parole su cui dobbiamo fare eccezione. Naturalmente, non possiamo dire chi per primo avesse frainteso la narrativa simbolica della moltiplicazione dei pani e dei pesci, [22] ma non è stata prodotta alcuna prova che Marco e Matteo l'avessero fraintesa, o che riportassero “come fatti” quelle moltiplicazioni dei pani e dei pesci. Tolto questo sostegno, crolla l'argomentazione dell'Encyclopaedia Biblica. L'intero brano rimane alquanto misterioso; ma non siamo logicamente tenuti a chiarirlo perfettamente. Per i nostri scopi è sufficiente riconoscere chiaramente che non contiene nulla che possa suggerire l'idea o che il Gesù fosse un semplice uomo oppure che i compilatori più antichi lo concepissero come tale.

NOTE

[1] εἰς οἶκον, in una casa.

[2] Quelli accanto a lui, οἱ παρ’ αὐτοῦ.

[3] κρατῆσαι.

[4] ἐξέστη, uscì di sé.

[5] Fa pena leggere i tentativi della patografia moderna di gettare luce sulla “vita” e sul “carattere” del Gesù. Basta citare i nomi di Baumann, O. Holtzmann, Rassmussen, de Loosten, che chiamano in causa ogni sorta di nevrosi, e Schaefer, che si oppone a tutti loro. Ma cos'altro è possibile se non queste divagazioni nella selva oscura della teologia liberale? “Che la diritta via era smarrita”. Come logica ciliegina sulla torta, fiore perfetto e frutto maturo di questa teoria più recente dell'“escatologia”, che gode al presente di tanto favore, il lettore è invitato a leggere La Folie de Jésus, che sarebbe stato più opportuno intitolare La Folie de Binet-Sanglé.

[6] Questa frase è importante. Non furono gli scribi in generale, ma quelli di Gerusalemme, il centro e il cuore dell'ortodossia ebraica, a rifiutare il nuovo culto, nato nella Diaspora, come paganesimo e a rifiutare la sua divinità come un dio pagano. Proprio come ci si saremmo aspettati!

[7] περὶ αὐτοῦ.

[8] παρ’ αὐτοῦ

[9] Qui non si nega che alcuni ebrei abbiano tentato l'esorcismo con mezzi magici. 

[10] Un'allusione a qualche accusa di questo tipo sembra di scorgere nelle strane parole dell'Apostolo (1 Corinzi 12:3): “Ebbene, io vi dichiaro: come nessuno che parli sotto l'azione dello spirito di Dio può dire GESÙ È ANÀTEMA, così nessuno può dire GESÙ È SIGNORE se non sotto l'azione dello Spirito Santo”.

[11] τὸ πνεῦμα τὸ ἅγιον.

[12εἷς ἐστὶν ὁ ἀγαθός.

[13] ἓν (ἐστὶν) τὸ ἀγαθὸν.

[14] ἓν τὸ ἀγαθὸν πολλοῖς ὁνόμασι καλούμενον.

[15] ὁ θεὸς ὁ ὕψιστος.

[16] Confronta la frase (2 Corinzi 3:6), “gloria di Dio nel volto di Cristo”

[17] τουτάκι δ᾿ οἰοπόλος δαίμων ἐπῆλθεν, φαιδίμαν Ἀνδρὸς αἰδοίου πρόσοψιν θηκάμενος. — Pindaro 4:50. 

[18] Lo stesso Arconte (principe) così evidente in Giovanni: “Ora sarà cacciato fuori l'Arconte di questo mondo” (12:31); “Viene l'Arconte del mondo” (14:30), perché “l'Arconte di questo mondo è stato giudicato” (16:11); menzionato anche in Efesini: “L'Arconte della potenza dell'aria” (2:2). 

[19] εἰς τὴν πατρίδα αὐτοῦ.

[20] Vedi Addendum, pag. 226. 

[21] Così dichiara Origene (Contra Celsum 6:66) in un passo troppo importante per non essere citato: “A tutto questo noi potremo rispondere che giacciono veramente nelle tenebre e vi dimorano stabilmente quelli che soffermano il loro sguardo sulle pessime opere dei pittori, dei modellatori, degli scultori, e non hanno la volontà di sollevare in alto lo sguardo ed innalzarsi con la mente più in alto delle cose visibili e sensibili, fino al Demiurgo dell’universo, che è la Luce. Al contrario si trova nella luce chi segue i raggi del Logos, dacché il Logos ha mostrato qual sorta d’ignoranza, e di empietà e di ignoranza delle cose divine conduce ad adorare questi oggetti invece di Dio; ed il Logos ha guidato fino al Dio e supremo la mente di colui che vuol essere salvato. 'Perché il popolo che giaceva nelle tenebre' — i Gentili — 'ha visto una gran luce, e per quelli che giacevano nella regione e nell’ombra della morte s’è levata una luce', cioè il Dio Gesù (ὁ θεὸς Ἰησοῦς). Sicuramente il principale dei Padri della Chiesa indica qui con la massima chiarezza i due cardini del proto-cristianesimo: il suo Scopo — la Salvezza degli uomini (soprattutto dei Gentili) dall'ignoranza di Dio e dal conseguente peccato di adorazione degli idoli con tutti i vizi che ne derivano; i suoi Mezzi — il culto monoteistico di Gesù, la Dottrina del Logos Divino, del “DIO GESÙ”.

[22E nemmeno chi è l'ultimo, perché Schmiedel stesso si è un po' smarrito. Non può essere “che il pane con cui un uomo nel deserto riuscì a sfamare un'immensa moltitudine significhi l'insegnamento mediante cui lui saziò le loro anime” (Schmiedel). Nessuno può indicare da nessuna parte un siffatto insegnamento che sazia l'anima da parte di Gesù. Al contrario, il pane distribuito dai Discepoli alla moltitudine è l'insegnamento da parte dei Discepoli riguardante il Gesù. L'interpretazione di Giovanni è essenzialmente corretta (6:32 e seguenti).

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