martedì 10 settembre 2024

ECCE DEUS — METODO DEL QUARTO VANGELO

 (segue da qui)

METODO DEL QUARTO VANGELO 

38. Di sicuro, non si dimentica e non si disconosce nemmeno per un istante che in questa tesi c'è esplicito contrasto con l'opinione prevalente, rappresentata ad esempio da Schmiedel nel suo Das vierte Evangelium, secondo cui la semplice umanità dei Sinottici è più sottilmente sublimata in divinità nel Quarto Vangelo. Non neghiamo nemmeno per un momento che tale critica abbia una certa giustificazione apparente. Però tale giustificazione è solo apparente e deriva non tanto dall'enfatizzare l'elemento divino nel Vangelo di Giovanni — che è indubbiamente presente lì, anche se in una peculiare maniera teosofica gnostica abbastanza diversa dal precedente concetto direttivo — quanto dall'ignorare o minimizzare l'elemento umano, che è consapevolmente e intenzionalmente esibito dall'Evangelista, e molto di più dal trascurare l'elemento divino nei Sinottici, specialmente in Marco. Proprio in quest'ultimo punto sembra venire alla luce l'errore principale di questa critica liberale, così erudita e acuta, e per il resto così spesso coraggiosamente giusta nelle sue valutazioni. In realtà, l'intera teoria dell'interpretazione sinottica richiede una profonda revisione, la cui preparazione è già realizzata ampiamente ed efficacemente nelle concessioni frequenti che ci vengono fatte in opere come quella di Schmiedel, già citata. Quanto chiaramente questo critico riconosce che nei Sinottici vi sia certamente presente un'importante ed estesa dose di simbolismo anche nei detti che egli riconosce come “parole del Signore” perfettamente genuine! Considera ciò che dice del “lievito dei Farisei” e della risposta inviata a Giovanni il Battista. Ripetutamente si impone alla mente del critico l'inevitabile sensazione che sia semplicemente impossibile comprendere i Sinottici senza ammettere che gran parte del loro discorso è figurato e simbolico, e si trasforma semplicemente in assurdità quando è preso alla lettera. In un momento o nell'altro vi è intervenuto un fraintendimento, nemmeno lontanamente analogo a quel fraintendimento di vasta portata, a quella diffusa malattia del linguaggio, a cui grandi filologi farebbero risalire interi sistemi di mitologia. 

39. Quando questa malattia cominciò ad affliggere i Sinottici? È una domanda difficilissima da rispondere, forse impossibile. In menti diverse, in luoghi diversi, l'attacco cominciò senza dubbio in tempi diversi. Alcuni intelletti robusti, come le maggiori figure gnostiche, resistettero vigorosamente e videro chiaramente fino alla fine. Ireneo e Tertulliano ne parlano. Con altri l'invasione avvenne presto, la resistenza fu debole e la confusione presente fin dall'inizio. I medici ci dicono che il bacillo della tubercolosi si annida molto presto in quasi tutti, che siamo tutti più o meno tubercolotici. Ma nella grande maggioranza dei casi il disturbo non diventa mai clinico; le difese immunitarie dell'organismo tengono sotto controllo i microbi morbosi. In altri, ahimè, il nemico prende il sopravvento per questa o quella contingenza; può accadere molto presto, può accadere molto tardi, nel periodo di vita dell'organismo. 

40. Alquanto simile, mi pare, è la malattia del letteralismo, della materializzazione dello spirituale, con cui la Cristianità intera giace ormai da settecento anni al capezzale, assistita da frotte di medici eruditi e capaci, che hanno fallito nella loro prognosi, hanno fallito nel loro trattamento, hanno fallito ovunque, perché fin dall'inizio avevano sbagliato nella loro diagnosi. Ora finalmente la verità nascosta per così tanti secoli, vagamente intuita qua e là (ma mai dimostrata) da molti intelletti superiori di volta in volta sia dentro che fuori la Chiesa — ora finalmente questa verità insopprimibile risplende sempre più chiaramente sull'intelligenza critica e illumina a chiazze il Nuovo Testamento da Matteo all'Apocalisse. Ma la sua luce ampia e diffusa, ininterrotta e non offuscata, deve ancora essere riversata sulla totalità di queste scritture, in particolare sui Sinottici. Nel caso del Quarto Vangelo la dimostrazione è più facile. Soprattutto i miracoli, come la resurrezione di Lazzaro, la guarigione del cieco, la guarigione dello storpio alla piscina, la moltiplicazione dei pani, il primo miracolo a Cana: tutti questi e altri sono simbolismi così ovvi che sembra quasi impossibile per una comprensione illuminata “a mente fredda” indugiare su di essi. 

41. Nondimeno, anche se non ci può essere questione circa il senso generale (nonostante le molte divergenze sui dettagli), la domanda è ancora pressante: dove e quando cominciò il fraintendimento? È qui che Schmiedel sembra, forse, essersi espresso troppo frettolosamente. Egli dichiara, in più punti, che Giovanni “credeva, in tutti i suoi resoconti di miracoli, che fossero eventi reali quelli di cui trattava; solo per effetto collaterale essi divennero per lui simboli di semplici pensieri” (pag. 88). Non pare affatto certo — anzi, nemmeno probabile — che Giovanni, proprio lui, si illudesse in una misura simile. Al contrario, l'intero schema e metodo artistico del suo Vangelo sembra essere quasi l'opposto. L'Evangelista aveva ereditato una certa dose di simbolismo, di dottrina ovviamente illustrata, come quella per cui il culto di Gesù dava la vista ai ciechi, guariva gli storpi, riportava alla vita il morto e corrotto Paganesimo, gettava la sua rete su tutte le 153 nazioni del mondo; convertiva la mera acqua delle purificazioni, dei riti e delle cerimonie ebraiche nel vino vivificante dello Spirito; nutriva tutte le anime dei credenti con abbondante pane di vita e pesce di salvezza: tutto questo non era altro che proprietà comune della coscienza cristiana espressa nelle frasi familiari del loro dialetto tecnico religioso. Queste nozioni egli procedette a esprimere in una narrazione elaborata. Egli cercò di renderle più vivide e impressionanti dando loro un'ambientazione storica e una colorazione drammatica.   È questo che costituisce il suo contributo principale alla rappresentazione. Egli non inventò affatto il contenuto spirituale; questo era presente fin dall'inizio, così come l'essenza, l'idea, di un uomo intero è dinamicamente presente nel germe microscopico, mentre il corpo stesso non è che il successivo dispiegamento ed espressione di quell'Idea-germe. Così l'Evangelista non ha inventato nessuna idea, nessun significato di nessun miracolo o detto: tutto questo lo trovò a portata di mano. Ma egli ha inventato l'espressione, la veste storico-drammatica nella quale ha rivestito queste idee e questi significati. 

42. In molti casi ciò sembra chiaro come il sole; in altri può apparire meno evidente, molto probabilmente perché la nostra conoscenza degli originali da cui l'Evangelista attinse non è così completa in questi casi. Considera la resurrezione di Lazzaro. Non c'è bisogno di dire a nessuno che l'evento materiale è del tutto non-storico; le elusioni di molti esegeti sono semplicemente malinconiche e pietose. Ma da dove viene Lazzaro? Chiaramente dalla parabola di Luca (16:19-31). Qui egli sembra simboleggiare il povero mondo pagano, in attesa delle briciole che cadono dalla tavola dell'ebreo, ricco della legge, dei profeti, delle promesse e degli oracoli di Dio. La parabola prosegue col dire che coloro che avevano Mosè e i profeti non avrebbero creduto anche se uno (Lazzaro) fosse risorto dai morti. Su questo accenno parla l'Evangelista. Egli riconosce questa verità emblematica della storia, il rifiuto a muso duro di Gesù da parte dei semiti: e pensa che essa meriti di essere calata su una trama drammatica ampia e altamente illuminata. Da qui l'intera storia. Nemmeno per un istante egli si inganna, né intende ingannare altri. Sta semplicemente obbedendo a un certo istinto artistico; sta insistendo su una metafora e, in effetti, vi sta insistendo fin troppo. 

43. Considera di nuovo il miracolo di Cana. In Marco e in Matteo, nella dottrina primitiva, si era parlato della presenza del Gesù (la parusia del nuovo culto) come di un banchetto di nozze, della “nuova dottrina” come del vino nuovo che non poteva essere versato in otri vecchi. Anche questo accenno è sufficiente: esso va elaborato in una storia, migliorato in alcuni punti e, naturalmente, leggermente modificato. Qualsiasi altra idea potesse essere elaborata facilmente e naturalmente nella stessa storia fu a sua volta introdotta, proprio come un pittore, pur mantenendo la sua idea principale, non esita a introdurre figure ed episodi ausiliari sul suo dipinto, anche solo per colmare e arricchire la composizione.

44. Sembrerebbe quasi un'offesa gratuita all'intelligenza del lettore proseguire ulteriormente con queste illustrazioni. Va aggiunto, però, che questo, il metodo distintivo, anche se non specifico, di Giovanni, non è affatto limitato ai miracoli. Esso permea, e addirittura determina, quest'intero Vangelo. Episodi e frasi di ogni tipo disseminati nei Vangeli e nelle esposizioni precedenti egli li coglie, li espande, li ingrandisce, li drammatizza a volontà. Naturalmente non è privo di idee proprie e non indugia a modificare il suddetto materiale nel proprio senso, per adattarlo ai propri scopi, per esprimere le proprie idee; e spesso rafforza quest'ultime con lunghe esposizioni messe in bocca a Gesù, in modo da porre anche in guardia il suo lettore da qualsiasi fraintendimento delle sue storicizzazioni. Ma egli sembra aver costruito meglio di quanto sapesse, e aver prodotto una serie di quadri drammatici così pieni di dettagli, così ricchi di situazioni e, allo stesso tempo, così realistici nelle loro caratterizzazioni, che, nonostante la loro natura ovviamente simbolica e non-storica, hanno ingannato ben cinquanta generazioni di osservatori, che hanno pensato di vedervi la testimonianza di un testimone oculare! “Togli il drappo”, disse Zeusi al suo rivale, “perché io possa vedere il dipinto”; e Parrasio sorrise, perché il drappo era il dipinto. 

45. Il ventunesimo capitolo di Giovanni, che sia stato scritto dallo stesso autore o meno, è certamente nello stesso spirito e contiene un'altra eccellente esemplificazione della maniera giovannea, nel racconto della pesca miracolosa dei pesci. È chiaro che si rifà a Luca 5:4-10, così come questo stesso racconto si rifà a Marco 1:17, a Matteo 4:19 e soprattutto a 13:47 (o ai loro originali). Ma lo scrittore dice che, nonostante fossero così tanti, la rete non si ruppe. Ma quanti? Egli nn vuole lasciare alcun dubbio di sorta sul suo significato, quindi dice che c'erano 153 grandi pesci. Perché non 152 o 154? Quale virtù in 153? Agostino, seguendo Origene, vide chiaramente che questo numero non poteva essere un caso, [1] che esso doveva significare qualcosa; e scoprì che si trattava di un coefficiente binomiale, la somma dei numeri naturali fino a diciassette, e invitò i suoi ascoltatori a eseguire personalmente il calcolo con le dita. Ma perché fino a diciassette piuttosto che fino a sedici o diciotto? Perché (dice) c'erano dieci Comandamenti, e sette era il numero dello Spirito, come degli Spiriti di Dio, “decem propter legem”, “septem propter Spiritum”.  Qui egli sembra perdersi in un'arbitrarietà e artificiosità senza speranza. Avrebbe potuto pure aggiungere che 153 = 17 x 9, e che ci sono nove Muse. Il significato doveva esserci nel numero, ma non doveva essere banale né lontano da ricercare. Tornando a 2 Cronache (2:16), la questione si chiarisce. Lì è detto che “Salomone censì tutti gli stranieri che erano nel paese di Israele:.......centocinquantatremilaseicento”. Ma la parola “elef” (“alafim”), qui resa correttamente mille, significa abbastanza spesso anche tribù o clan, e sulla base del testo gli ebrei stimarono 153 il numero delle nazioni dei Gentili. [2] Questi, dunque, sono i grandi pesci raccolti nella rete onnicomprensiva della Chiesa, della nuova fede. Su questo punto, sembra, difficilmente può esserci qualche dubbio. La corrispondenza numerica non può essere accidentale e la spiegazione che ne deriva è perfettamente semplice, naturale e soddisfacente. [3]

46. Forse nessuno avrà intenzione di litigare sui seicento. Siccome non un migliaio o una tribù, non poteva essere considerato un grande pesce. De minimis non curat lex; e neppure un simbolista. Però si può seriamente sospettare che la frazione fosse davvero nella mente dello scrittore, altrimenti è difficile capire il triplice uso di “piccoli pesci” (ὀψάριον) (21:9, 10, 13), e soprattutto i “grandi pesci” del versetto 11: un'espressione trovata altrove nella Scrittura solo in Giona 1:17.

NOTE

[1] “Numquam hoc Dominus iuberet nisi aliquid significare vellet, quod nobis nosse expediret. Quid ergo pro magno poterit ad Jesum Christum pertinere, si pisces caperentur aut si non caperentur? Sed illa piscatio nostra erat significatio” (Sermone 248, i). Per quest'intera osservazione su Agostino devo ringraziare l'istruttiva monografia del professor E. A. Bechtel sul Conteggio con le dita tra i Romani nel quarto secolo (1909). 

[2Questa affermazione si basa su uno studio fatto vent'anni fa; ma, pur visualizzando ora in modo molto vivido la pagina della mia autorità, non riesco a ricordare il titolo dell'opera e quindi a verificare il riferimento implicito. Di conseguenza, non sostengo ora la correttezza dell'affermazione, che è mantenuta solo perché sta nell'edizione tedesca. È un fatto ben risaputo, che ho citato altrove, che i rabbini consideravano comunemente 72 o 70 il numero delle nazioni. L'intera questione è banale, perché il significato generale del simbolismo è trasparente. Però mi sembra chiaro che 153 doveva essere stato ritenuto da alcuni il numero delle nazioni, al fine di spiegare 153 come il numero delle specie di pesci; perché sicuramente quest'ultimo numero doveva essere significativo, e da dove sarebbe potuto venire se non dal passo di Cronache? 

[3] In tutte le età si è sentita l'esigenza che il numero dovesse essere spiegato, ma tutte le altre spiegazioni sembrano forzate o fantasiose. Così Cirillo di Alessandria vi vede un simbolo della Chiesa (100 per i Gentili, 50 per gli Ebrei) e della Trinità! Il fatto che il numero in qualche modo alludesse al paganesimo fu percepito prestissimo, e sembra aver dato origine all'idea, attribuita da Girolamo al poeta cilicio Oppiano e ad altri, che ci fossero solo 153 specie di pesci. Volkmar (Himmelf. Mose, 62) e Keim (Jesus von Nazara, III, 564), seguendo Egli, devono avere naturalmente un'altra opinione, e sommare le lettere di Simeone (71), Bar (22), Giona (31), Cefa (29), e di Simeone (71), Giovanni (53), Cefa (29). Ancora diversamente, Eisler, in The Quest (gennaio 1911). Ma che senso ha questa gematria? Solo l'interpretazione di Hengstenberg (II, 336) tranquillizza. Tuttavia, ai fini di questa argomentazione è del tutto indifferente quale interpretazione simbolica sia adottata; è importante solo che una tale interpretazione sia necessaria; l'interpretazione letterale è banale e ridicola. È vero, Godet si accontenta ancora di ciò; ma questo fatto registra semplicemente la regressione rispetto ad Agostino. 

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