mercoledì 7 febbraio 2024

Gli scritti di San Paolo — EPISTOLA AI COLOSSESI (AGGIUNTE CATTOLICHE)

 (segue da qui)


4. AGGIUNTE CATTOLICHE

Diciamo ora che vi si trovano testi di cui la provenienza cattolica non è discutibile. Si possono dividerli in due gruppi. 

Nel primo prendono posto certe espressioni minori qui disseminate qua e là. Tale l'espressione «per il sangue della sua croce» che appare in 1:20 come il mezzo di cui Dio si è servito per pacificare tutte le cose. Tale ancora l'espressione «per il suo corpo di carne» di 1:22, che è anche il mezzo per il quale la nostra riconciliazione è stata compiuta. Tale infine l'espressione «corporalmente» di 2:19 che esprime il modo in cui la pienezza della divinità dimora nel Cristo. 

Il secondo gruppo comprende due dissertazioni: l'una (1:15-17, 18b) nella quale il Figlio di Dio ci è presentato come una creatura incaricata da Dio di creare e di conservare tutte le cose; l'altra (2:16-23) dove si apprende che certe istituzioni erano «l'ombra delle cose a venire»

Occupiamoci dapprima del primo gruppo. Il testo 1:20, se si scarta l'espressione «per il sangue della sua croce» ci dice questo: «Dio ha riconciliato a sé tutte le cose per mezzo di lui (vale a dire per mezzo del Cristo); egli ha anche pacificato tutte le cose per mezzo di lui (vale a dire per mezzo del Cristo)». L'espressione, «per il sangue della sua croce» che interviene nella seconda parte, si sovrappone al complemento «per mezzo di lui». Se almeno essa seguisse questo complemento, si potrebbe con buona volontà vedere in essa una precisazione utile e interpretare il testo così: «La pacificazione è stata fatta dal Cristo il quale l'ha compiuta versando il suo sangue sulla croce». Ma il nostro testo è inesorabile. Ci dice che Dio ha pacificato tutte le cose «per il sangue della sua croce per mezzo di lui». In questo giro di parole il «sangue della croce» può essere solo una glossa introdotta surrettiziamente da un lettore cattolico che ha tenuto a spiegare che il Cristo aveva compiuto la sua missione pacificatrice versando il suo sangue sulla croce, ma che disturbato dal contesto al quale non voleva cambiare nulla ha dato alla sua spiegazione una forma bizzarra e scorretta. 

La stessa osservazione vale per l'espressione «per il suo corpo di carne» di 1:22. Anch'essa si sovrappone al complemento «per la sua morte» che la segue; anch'essa è una glossa destinata a spiegare che il Cristo aveva un corpo come il nostro ed introdotta da un lettore cattolico in un contesto che diceva primitivamente questo (21, 22): «Quando eravate suoi nemici, Dio vi ha riconciliato per la morte di lui (del Cristo)». L'interpolatore, allo stesso tempo in cui ha inserito «per il corpo di carne» tra il verbo e il complemento, ha spostato leggermente il pronome possessivo «di lui» affinché potesse riferirsi ad entrambi i complementi. 

Resta 2:9 dove leggiamo che «nel Cristo la pienezza della divinità dimora corporalmente». Il papa Leone si domanda in uno dei suoi sermoni (65, 5): «In che modo la sostanza di Dio che è incorporea può essere corporalmente nel Cristo?» A quella domanda dà una risposta che parecchi avevano preceduto, che parecchi hanno seguito. Esistono dunque di questo testo molteplici spiegazioni proposte o dai teologi, o dai critici. Tutte non colgono il punto che è sapere come una sostanza incorporea possa abitare in una maniera corporale. Si vede peraltro chiaramente che la questione è insolubile, in altri termini che è impossibile per una sostanza incorporea abitare corporalmente. E questo risultato ci autorizza a considerare l'espressione «corporalmente» un elemento disturbatore introdotto bruscamente in un contesto che non era fatto per esso. Immediatamente tutto si chiarisce. La versione primitiva si limitava a insegnare che la pienezza della divinità dimora nel Cristo, vale a dire che il Cristo è il Dio supremo venuto in mezzo a noi. L'avverbio «corporeamente» che, dal punto di vista grammaticale, non ha senso, tende ad uno scopo che siamo ridotti a congetturare ma che congetturiamo senza difficoltà: esso è stato introdotto da un lettore cattolico per provare, senza alcuna cura della sintassi, che il Cristo aveva un vero corpo. 

Passo ora alla dissertazione sul Figlio di Dio creatore (1:15-17, 18b). Ciò che la precede (12-14) è l'esposizione dell'opera compiuta da Dio per salvarci. Ed è anche l'esposizione della stessa opera che la segue (19-23). Se si tenesse conto solo del suo posto si direbbe che faccia parte integrante del piano redentore nel mezzo del quale è gettata. Ma in realtà lo taglia in due tronconi che separa l'uno dall'altro e con i quali non ha nulla in comune poiché tratta della creazione degli esseri e della loro conservazione. È probabile che l'autore ossessionato com'è dal pensiero della redenzione, si sia perso in una digressione per ritornarvi in seguito? Diciamo che l'esposizione del piano redentore era, in origine, di una sola mano e che i versetti 15-17, 18b che trattano della creazione vi sono stati introdotti più tardi artificialmente.

Arriviamo d'altronde allo stesso risultato per un'altra via. Se leggiamo l'epistola agli Efesini 1, 6, 7, 10, 11, 22, 23; 2:2, 9; 4:18, 6:12, vi ritroviamo tutto ciò che è detto qui dell'opera compiuta da Dio per strapparci al potere delle tenebre e introdurci nel regno di suo Figlio che è il capo della Chiesa. In compenso non vi si parla del Creatore che ha dato agli esseri l'esistenza e che la conserva loro. E, per spiegare questo fatto strano, si è indotti di nuovo a concludere che i versetti 1:15-17, 18b non appartenevano alla versione primitiva che si limitava strettamente alla descrizione del piano redentore. 

La dissertazione 2:16-23 sulle istituzioni che erano «l'ombra delle cose a venire» non ha nemmeno un parallelo nell'epistola agli Efesini. Nemmeno essa, di conseguenza, apparteneva alla versione primitiva. Il suo obiettivo è spiegare che non si deve condannare nessuno riguardo al bere e al mangiare, o riguardo ad una festa, ai noviluni, ai sabati, perché tutte queste cose erano l'ombra delle cose a venire. L'autore si ispira chiaramente all'epistola agli Ebrei 10:1 che insegna che le istituzioni mosaiche erano «l'ombra delle cose a venire». Da ciò siamo autorizzati a concludere che egli ha in vista, a sua volta, queste stesse istituzioni. Muniti di questo filo conduttore possiamo avanzare attraverso le tenebre fitte che ci circondano. La «festa» a proposito della quale è vietato portare una condanna deve essere la pasqua ebraica. Il mangiare e il bere devono intravedere le regole alimentari che fissavano le modalità di quella pasqua. Il «novilunio» deve indicare non la neomenia propriamente detta, ma l'età della luna che dipende dalla neomenia e può essere solo conosciuta per mezzo di essa (si sa che gli ebrei celebravano la pasqua il quattordicesimo giorno della luna del mese di nisan). I «sabati» hanno lo stesso significato nei vangeli dove questo termine indica la settimana. Il nostro testo vieta di condannare i cristiani all'osservazione della pasqua ebraica con tutte le regole che vi si legavano. Esso è diretto probabilmente contro Blasto che, intorno al 175, tentò di rimettere in vigore nella chiesa romana i riti della pasqua ebraica (si veda l'appendice del De praescriptionibus, 53, di Tertulliano). Se il seguito della dissertazione prende di mira ancora Blasto, il «culto degli angeli» che vi è menzionato è una reminiscenza di Ebrei 2:2 dove la legge mosaica è attribuita agli angeli. Blasto propagandava il culto degli angeli raccomandando l'osservanza della legge mosaica che era l'opera degli angeli.

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