giovedì 1 febbraio 2024

Gli scritti di San Paolo — EPISTOLA AI GALATI (VERSIONE MARCIONITA)

 (segue da qui)


VERSIONE MARCIONITA 

1. La legge promulgata in vista delle trasgressioni

Ritorniamo all'argomentazione 3:6-29 che tratta della promessa fatta ad Abramo. Essa non è di una sola mano: tutt'altro. Gli elementi che la compongono sono separati in più tronconi. Esaminiamo ora il brano seguente formato dai testi che separano questi tronconi.

3:10: Infatti tutti coloro che sono sotto il regime delle opere della legge sono sotto maledizione, perché sta scritto: «Maledetto sia chiunque non adempie tutto ciò che è scritto nel libro della legge. — 13: Il Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, essendo divenuto maledizione per noi perché sta scritto: Maledetto sia chiunque è appeso al legno. — 19a: Perché dunque la legge? Essa è stata aggiunta in vista delle trasgressioni. 

Questo brano va studiato dapprima di per sé, poi nel suo rapporto con la tesi di Paolo sulla promessa fatta ad Abramo. Se lo consideriamo di per sé, la prima cosa che ci colpisce è che i suoi elementi, benché separati nella realtà, hanno tra loro una connessione logica. Dato, in effetti, che le infrazioni alla legge sono tutte punite con la maledizione, è ben evidente che nessuno di coloro che sono sotto il regime delle opere della legge non sfugge alla maledizione, dato che nessuno evita completamente di infrangere la legge. E, se tutti gli uomini sono sotto la maledizione della legge, non si può essere sorpresi di apprendere che il Cristo è venuto per liberarci da quella maledizione. D'altra parte, non è sicuramente per caso che la legge sia fonte di maledizione per tutti coloro che sono sotto il suo regime. Un risultato così universale ha dovuto necessariamente essere previsto e voluto. Da cui la legittimità dell'inferenza: «Essa è stata aggiunta in vista delle trasgressioni»

Quindi gli elementi della nostra dissertazione si relazionano bene tra loro. Ma cosa dicono?  Che il Cristo ci ha riscattati. Si riscattano i prigionieri; li si riscatta dal vincitore che li tiene sotto il suo dominio; e gli si dà un prezzo in cambio. Di chi gli uomini erano prigionieri? Da chi hanno dovuto essere riscattati? E, per fare il riscatto, quale prezzo il Cristo ha versato in cambio? Mistero! Ma passiamo oltre. Cosa dicono ancora i nostri testi? Che, per riscattarci, il Cristo è diventato «maledizione per noi», conformemente ad un testo del Deuteronomio 21:23 secondo il quale ogni appeso al legno è maledetto; e che, divenendo lui stesso maledizione, egli ci ha riscattati dalla maledizione. Quella maledizione che il Cristo ha incorso deve essere il prezzo che ha versato in cambio per noi, poiché è essa ad avergli permesso di riscattarci. E la maledizione in cui siamo noi stessi incorsi era la causa della prigionia nella quale eravamo immersi. Queste informazioni ci danno in parte la chiave del mistero segnalato sopra. Ma ci procurano un po' di luce solo per immergerci in un mistero più formidabile. Perché infine la maledizione in cui siamo incorsi era quella di Dio poiché ci siamo incorsi a causa dei nostri peccati. È dunque alla maledizione di Dio che il Cristo si è a sua volta sottoposto; ed è quella maledizione — di cui la sua morte sulla croce è l'attestazione consegnata nella Scrittura stessa — che ha dato in pagamento! A chi ha potuto fare questo pagamento se non a Dio? E come comprendere che il Cristo maledetto da Dio abbia fatto della maledizione di cui era vittima un pagamento?

Ma non siamo al termine delle nostre sorprese. Si legge in 19a che la legge è stata aggiunta «in vista delle trasgressioni». Cos'è che vuol dire ciò? Va inteso che la legge è stata data per reprimere le trasgressioni? Oppure, al contrario, la funzione della legge è di moltiplicare le trasgressioni? Estio confessa che quella seconda interpretazione è di gran lunga la più probabile. Ed egli richiama a questo proposito il testo di Romani 5:20 dove leggiamo che la legge è intervenuta per moltiplicare il peccato. L'accostamento, in effetti, è decisivo. L'oracolo di Galati 3:19a ci pone quindi in presenza di un Dio che ha promulgato la legge espressamente per moltiplicare le trasgressioni. D'altra parte il versetto 3:10 ci insegna che questo Dio punisce con la sua maledizione tutte le trasgressioni di quella legge. Concludiamo dapprincipio che questo Dio ha voluto maledire tutti gli uomini; che ci è peraltro riuscito come prova 3:10. E siccome soltanto il Dio malvagio di Marcione corrisponde a questa descrizione, la nostra seconda conclusione è che la piccola dissertazione 3:10, 13, 19a è di origine marcionita proprio come il testo di Romani 5:20 al quale essa è intimamente affine.

2. Groviglio artificiale di testi divergenti. 

Ora che siamo concordi sull'origine di 3:10, 13, 19a, potremmo fermare lì le nostre indagini. Continuiamo tuttavia. Perciò facciamo a meno dei risultati acquisiti, dimentichiamo che la tesi sulla maledizione sferrata contro tutti gli uomini non sia, non possa essere di Paolo; e confrontiamola con la tesi relativa alla condizione richiesta per essere figli di Abramo. È del tutto naturale che un autore si leghi ad una tesi, poi, dopo averla dimostrata, passi ad un'altra. Non si potrebbe dunque essere sorpresi di vedere Paolo provare dapprima che, per essere figlio di d'Abramo, per partecipare alla sua benedizione, vale a dire all'eredità che gli è stata promessa, si deve avere la fede (la fede nel Cristo che è la discendenza di Abramo); poi, fatto ciò, spiegare che tutti gli uomini sono sotto l'influenza di una maledizione da cui il Cristo è venuto a liberarli. Ma non è così che le nostre due tesi si presentano. Non vengono l'una al seguito dell'altra. Esse sono aggrovigliate l'una nell'altra. Da 6 a 9 si parla di Abramo, della sua benedizione della condizione richiesta per parteciparvi. Con 10 e 13 apprendiamo che gli uomini sono sotto l'influenza di una maledizione da cui il Cristo è venuto a liberarli. Noi ritorniamo, con 14a, e 16-18 alla benedizione di Abramo. Poi 19a ci riporta alla maledizione. Ed è proprio così se si tiene conto solo degli indizi della sintassi. Rileggiamo 9 e 10.

Quindi coloro che credono saranno benedetti con Abramo il credente. (10) Poiché tutti coloro che sono sotto il regime delle opere della legge sono sotto la maledizione, perché sta scritto: Maledetto sia chiunque non pratichi tutto ciò che è nel libro della legge e non lo osserva. 

Il versetto 10 si presenta come lo sviluppo di 9 che spiega e motiva. 

Stesso spettacolo in 13 e 14: 

Il Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge essendo divenuto maledizione per noi, perché sta scritto: Maledetto sia chiunque è appeso al legno; (14) affinché la benedizione di Abramo arrivi alle nazioni in Gesù Cristo.

 Il versetto 14 indica lo scopo per il quale il Cristo ha liberato gli uomini dalla maledizione. Prendiamo infine 19a e 19b:

Perché la legge? Essa è stata aggiunta in vista delle trasgressioni (19b) aspettando che venga la discendenza per la quale la promessa è stata fatta.

La prima asserzione dice che la legge è stata istituita per moltiplicare le trasgressioni e, di conseguenza, per condurre gli uomini a farsi maledire. La seconda spiega che quella disposizione aveva, nella mente di chi l'ha presa, un carattere essenzialmente transitorio; essa  doveva sussistere solo in attesa della venuta del Cristo per il quale la promessa è stata fatta. 

Insomma, abbiamo davanti a noi tre gruppi di pensieri che sono legati a due a due. La sintassi ci fa toccare concretamente la congiunzione che, in ciascun gruppo, lega il secondo pensiero al primo. Il suo ruolo si ferma qui. Rivolgiamoci ora alla logica e domandiamole ciò che pensa di queste congiunzioni. Nei gruppi 13-14 la connessione è quella che esiste tra il mezzo e il fine. Il Cristo è diventato maledizione: ecco il mezzo. Egli è diventato maledizione «affinché» la benedizione di Abramo arrivi alle nazioni, vale a dire ai pagani: ecco il fine. Ma in quel fine, che esprime il versetto 14, si percepiscono senza difficoltà due difetti considerevoli. Il suo primo difetto è di sovrapporsi ad un altro fine formulato nel versetto 13. Lì leggiamo che «il Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge essendo diventato maledizione». Ciò che vuol dire che il Cristo è diventato maledizione «per» liberarci dalla maledizione è stato lo scopo che si è proposto di ottenere. Il fine proposto da 14 fa duplice impiego con il fine menzionato da 13. È lì il suo primo difetto. Esso ne ha un secondo. Esso dice che la maledizione incorsa volontariamente dal Cristo avrà per beneficiari i pagani. Gli ebrei non ne beneficeranno? Perché dunque non sono menzionati? La lacuna è tanto più strana in quanto il Cristo ha voluto liberare gli uomini «dalla maledizione della legge», e di quella maledizione della legge, gli ebrei sono le prime vittime — persino le uniche vittime rigorosamente parlando  poiché loro soli sono iniziati alle osservanze della legge. La verità è che 13 e 14 sono legati tra loro da una congiunzione artificiale e che non sono fatti l'uno per l'altro. Il versetto 14 è come una serratura nella quale è stata inserita una chiave (il versetto 13) che non le si adatta. La vera chiave è scomparsa? Rileggiamo 14: «affinché la benedizione di Abramo arrivi alle nazioni (ai pagani) in Gesù Cristo». Cosa è necessario perché la benedizione di Abramo arrivi ai pagani in Gesù Cristo? È necessario evidentemente un mezzo di trasmissione che sia alla portata dei pagani, quindi che non sia né la generazione carnale né la legge, poiché i pagani non discendono da Abramo mediante la carne e non conoscono la legge. Ma nel versetto 9 si parla del mezzo mediante il quale la benedizione accordata è trasmessa. Il mezzo indicato è la fede; e l'indicazione è presentata come una deduzione ricavata dal testo della Genesi che riporta la suddetta benedizione:

Dunque (vale a dire poiché Dio ha detto ad Abramo che tutte le nazioni saranno benedette in lui) coloro che credono siano benedetti con Abramo il credente.

Per partecipare alla benedizione di Abramo bisogna credere, bisogna avere la fede. La fede è il mezzo di trasmissione della benedizione. Perché Dio ha scelto questo mezzo? 

Affinché la benedizione si estenda alle nazioni per mezzo del Cristo 

risponde il versetto 14. La serratura ha trovato la sua chiave. Il versetto 14 è lo scopo di cui 9 è il mezzo. Primitivamente questi versetti erano congiunti l'uno all'altro. Ci è voluto un colpo di violenza per separarli e farli servire ad altri fini. 

Potrei esentarmi dallo studiare il gruppo 9-10. Poiché 9 ha per punto di congiunzione 14, la connessione che esiste oggi tra 9 e 10 deve essere artificiale. Vediamo, però, se l'esperienza confermerà quella deduzione (9): «Dunque quelli che credono saranno benedetti con Abramo il credente (10) poiché tutti coloro che sono sotto il regime delle opere della legge sono sotto la maledizione». Si vede immediatamente che 10 con la sua espressione «poiché», serve da prova a 9 e ne dà il perché. Perché coloro che credono saranno benedetti con Abramo il credente? Questo perché coloro che sono sotto la legge sono maledetti. Sfortunatamente la proposizione enunciata nel versetto 9 non comporta una prova. Non ne comporta perché essa è una conclusione dedotta dal testo della promessa che è citato in 8. Dio ha detto ad Abramo che tutte le nazioni sarebbero benedette in lui; dunque coloro che credono saranno benedetti con Abramo il credente. Il versetto 9 conclude. Ora le conclusioni completano le prove ma non ne accettano nessuna. La prova che 10 vuole fornire non ha quindi ragione di esistere, cosa che per una prova è un serio inconveniente. Ma tralasciamo questo dettaglio. Si tratta di provare che coloro che credono saranno benedetti con Abramo il credente. Come fa 10 a svolgere questo compito? Adducendo, con un testo scritturale a sostegno («perché sta scritto...»), che tutti coloro che sono sotto il regime della legge sono maledetti. Ma quella considerazione, se ha qualche valore, vale soltanto per gli ebrei poiché gli ebrei soli erano sotto il regime della legge. Essa non raggiunge i pagani che non conoscevano la legge, che erano, è vero, spinti dai giudaizzanti a mettersi sotto il giogo mosaico, ma che non avevano che da seguire gli ordini di Paolo per salvaguardare la loro libertà. Essa non vale nemmeno per gli ebrei. Essa constata che tutti i servitori della legge sono maledetti. Quella maledizione è certamente una grande disgrazia per coloro che ne sono le vittime. Ma tra questa disgrazia e la felicità di coloro che, perché credono, partecipano alla benedizione di Abramo, la sola relazione che possa esistere è una relazione di contrasto e per nulla un rapporto di dipendenza. Lo stato di maledizione nel quale gemono gli osservatori della legge è incapace di fornire alcuna prova a chicchessia. Il versetto 10, che si annuncia come se dovesse dimostrare e motivare 10, non dimostra né motiva nulla. Poiché non compie il compito che pretende di realizzare, è artificialmente congiunto a 9, e la sua espressione «poiché» che costituisce la congiunzione è un inganno. Ero arrivato a questo risultato per via di sottrazione; lo studio attento di 9 e 10 ha confermato la correttezza del mio calcolo. 

Resta da esaminare il gruppo 19a, 19b. Dei due pensieri che lo compongono, uno espone lo scopo per il quale la legge è stata data; l'altro mette in relazione con la legge la venuta della discendenza per la quale la promessa è stata fatta, vale a dire la venuta del Cristo. La legge è stata data per moltiplicare le trasgressioni e, di conseguenza, per intensificare la maledizione, poiché a ciascuna trasgressione corrisponde una maledizione. Quella legge è stata data in attesa che venga il Cristo che deve realizzare la promessa fatta ad Abramo. Ed è con stupore che si vedono sfilare queste due disposizioni, che si susseguono e si contraddicono. Come, infatti, conciliare quella maledizione inflitta per pregiudizio agli ebrei con la missione del Cristo incaricato di realizzare la promessa fatta ad Abramo? E quale modo di preparare la venuta del Cristo se non quello di prendere le misure necessarie perché rientri in un ambiente in cui tutti saranno colpiti da maledizione? I testi nei quali questi pensieri incoerenti sono sovrapposti non sono fatti l'uno per altro. Il versetto 19b non completa 19a che non lo prepara. Ciò che è stato stabilito «aspettando» la venuta del Cristo incaricato di realizzare la promessa fatta ad Abramo, non è la macchina per moltiplicare le trasgressioni, è un'altra cosa. E quell'altra cosa non si deve cercarla molto lontano. Nel versetto 18 leggiamo che «l'eredità (di Canaan) fu concessa ad Abramo per promessa». È quella promessa ad essere fatta nell'attesa che venga il Cristo che deve realizzarla. Il versetto 19b si congiunge a 18. Primitivamente questi due versetti non costituivano che una sola e la stessa frase nel mezzo della quale 10 è stato inserito più tardi. Ho sottoposto i versetti 3:10, 13, 19 a due inchieste condotte secondo metodi diversi; e queste due inchieste hanno dato lo stesso risultato. Si può dunque affermare con piena fiducia che questi tre versetti sono estranei al testo primitivo dell'epistola ai Galati e che vi sono stati introdotti intorno al 140. 

3. Paolo apostolo delle nazioni

Io passo al lungo brano che va da 1:8 a 3:5 e, tra le asserzioni che vi si riscontrano, rilevo innanzitutto quelle che fanno riferimento all'apostolato di Paolo. Secondo 1:16 Paolo è stato incaricato di annunciare il Figlio di Dio «tra i pagani». Secondo 2:2 egli ha esposto ai cristiani di Gerusalemme il vangelo che predicava «tra i pagani». I notabili hanno riconosciuto che il vangelo (2:7) gli era stato confidato «per gli incirconcisi». In conseguenza di ciò (11:9) è stato convenuto che Paolo e Barnaba si sarebbero rivolti «ai pagani». In una parola, Paolo è l'apostolo dei pagani. 

Apriamo ora gli Atti. Paolo, immediatamente dopo la sua conversione (9:20) predica nelle sinagoghe di Damasco. Più tardi (13:5) egli annuncia la parola di Dio nelle sinagoghe di Salamina di Cipro. Ad Antiochia di Pisidia (13:14) egli predica nella sinagoga. Cacciato da Antiochia, si reca a Iconio e anche lì (14:1) va dritto alla sinagoga. Ma ci sono città dove gli ebrei non sono abbastanza numerosi per avere una sinagoga. Questo è il caso di Filippi. Cosa fa Paolo? Egli congettura che, in assenza di sinagoga, si deve almeno trovarvi un modesto oratorio, che tale oratorio debba essere collocato presso un corso d'acqua che permette di fare le abluzioni. Quando il giorno del sabato è arrivato (16:13), egli si incammina verso il fiumiciattolo che scorre nei pressi della città. Vi trova, in effetti, delle donne riunite. Parlò loro e una di loro, Lidia «donna timorata di Dio» si fa battezzare con la sua famiglia. A Tessalonica «i giudei», ci dice l'autore degli Atti (17:1), «avevano una sinagoga». Paolo vi entra e per tre sabati, vi prende la parola. Scacciato da Tessalonica, si reca a Berea e si reca alla sinagoga (18:10) per esercitarvi il suo apostolato. Ad Atene, a Corinto, è ancora nella sinagoga (17:17; 18:4) che prende la parola. Ed è anche alla sinagoga di Efeso (18:19; 19:8) che, durante i suoi due soggiorni in quella città, egli predica il Cristo. È vero che, in tre punti (13:46; 18:7; 28:28), egli minaccia gli ebrei di allontanarsi da loro e di volgersi verso i pagani; ma si riconosce che queste minacce appartengono a testi interpolati e non meritano di essere prese in considerazione. [1] È anche vero che, ad Atene, dopo un contatto di più settimane con i filosofi che pullulavano in quella città e la cui vita si svolgeva sulla piazza, Paolo parlò davanti ad un pubblico pagano che lo ascoltò con una curiosità divertita. Ma scartato questo caso eccezionale, resta che l'apostolo, dovunque sia andato, ha esercitato la sua propaganda nelle sinagoghe o, come a Filippi, in luoghi sostitutivi di sinagoghe. I suoi ascoltatori erano in parte ebrei in parte proseliti. Senza dubbio questi ultimi non erano sempre circoncisi ed è questo che spiega il caso dei Galati guadagnati da Paolo alla causa cristiana mentre essi erano ancora incirconcisi, ma erano affiliati al giudaismo, avevano smesso di appartenere alla religione pagana. Paolo ha evangelizzato il mondo ebraico e i suoi satelliti; egli non ha evangelizzato il mondo pagano. E il lungo brano dell'epistola ai Galati che ce lo presenta come l'apostolo delle nazioni ci mette di fronte ad una finzione sprovvista di ogni realtà.

4. Paolo morto alla legge.

Nello stesso brano in cui rivendica il titolo di apostolo delle nazioni, Paolo dichiara solennemente che la legge non è più nulla per lui. E dà alla sua dichiarazione questa svolta tagliente (2:19): 

Per la legge io sono morto alla legge al fine di vivere per Dio. 

Ma, a detta degli Atti (18:18) Paolo, prima di lasciare Corinto, fa il voto del nazireato che consisteva nel radersi il capo. Arrivato a Gerusalemme (21:26) egli completa l'adempimento del suo voto nel tempio in compagnia di quattro nazirei indigenti; è nel mezzo di questi santi esercizi che è arrestato dagli ebrei. Ciò non è tutto. Nell'epistola Paolo ci tiene a comportarsi come un uomo morto alla legge, e rifiuta (2:3) di lasciar circoncidere il suo compagno Tito, che è greco. Ma negli Atti 16:3, lo vediamo circoncidere Timoteo che, essendo figlio di un padre greco, non aveva ricevuto la circoncisione. Le due storie di Tito e di Timoteo hanno imbarazzato in ogni tempo gli esegeti. Eppure, fino alla nostra epoca, si credeva di poterle conciliare, mettendoci della buona volontà, l'una con l'altra. Oggi si riconosce che esse si contraddicono [2] e che una di esse è stata inventata di sana pianta per combattere l'altra. Soltanto si dice che la finzione è nel racconto degli Atti  il cui scrittore ha voluto neutralizzare il testo dell'epistola. Ma si concede che Paolo abbia fatto veramente il voto di nazireato. [3] Quella concessione ci basta. L'uomo che ha compiuto nel tempio i riti imposti al nazireo ha potuto benissimo circoncidere Timoteo; e non si vede perché egli avrebbe rifiutato ostinatamente di circoncidere Tito. In ogni caso egli non si considererebbe come morto alla legge; egli non credeva che la morte alla legge fosse la condizione indispensabile della vita per Dio. Anche qui il testo dell'epistola appartiene al dominio della finzione e l'apostolo che egli mette in scena non ha nulla in comune con il Paolo storico.

5. Dio ha rivelato suo figlio a Paolo.

La dissertazione di 1:11-3:5 non è di Paolo. Di chi è? Vediamo dove tende. Il suo autore, che è morto alla legge al fine di vivere per Dio, aggiunge che è stato crocifisso con il Cristo e che vive della vita del Cristo. Quella teologia mistica è esattamente quella che abbiamo riscontrato nell'epistola ai Romani. [4] Anche lì abbiamo appreso che il cristianesimo innestato sul Cristo, muore con il Cristo e vive della vita del Cristo. Ma sappiamo che il brano Romani 5-8 è stato scritto da un discepolo di Marcione. 

La dissertazione 1:11-3:5 è di provenienza marcionita. Quella origine ci dà la chiave di vari dettagli che fino ad ora erano rimasti misteriosi. Essa spiega in particolare la rivelazione di cui Paolo fa ostentazione e il disprezzo che manifesta per gli apostoli. Il figlio di Dio che Paolo predica è il Dio buono, Dio che è venuto sulla terra per strappare gli uomini all'impero del Dio creatore ma che gli uomini accecati da quest'ultimo non hanno ricevuto oppure, il che è lo stesso, non hanno compreso. Non è dunque alla scuola degli uomini che Paolo ha potuto conoscere questo Dio. Egli lo avrebbe sempre ignorato senza una rivelazione. Questo beneficio, egli lo ha ricevuto. Dio gli ha rivelato suo figlio, vale a dire che si è rivelato lui stesso con la veste eterea che portava durante il tempo della sua venuta sulla terra. 

Quando Paolo fu privilegiato dalla sua rivelazione, evitò dapprima ogni contatto con gli apostoli, uomini attaccati alla carne e al sangue, nel senso che credevano ad un Cristo carnale destinato a restaurare il regno di Davide. Il suo apostolato si esercitò nell'Arabia, poi nella Siria e nella Cilicia. Eppure al termine di quattordici anni egli si recò a Gerusalemme. Da lui stesso non avrebbe mai preso quella decisione, ma una rivelazione lo costrinse. Per obbedire all'ordine di Dio, Paolo andò dunque a Gerusalemme ed evangelizzò la comunità cristiana di quella città. È proprio lui che fece atto di apostolo, perché presentò il suo vangelo (2:2), il vangelo che riceveva da Dio, ma non gli si impose nulla, non si tentò di istruirlo (2:6b). Le tre «colonne» della comunità di Gerusalemme, Giacomo, Cefa e Giovanni  credettero alla sua missione; gli promisero di collaborare alla sua opera nel mondo dei circoncisi e gli domandarono di soccorrere materialmente questi ultimi. I risultati dell'apostolato di Paolo a Gerusalemme furono dunque consolatori. Sfortunatamente non durarono. Giacomo ritornò ai suoi sogni carnali, e Pietro non ebbe il coraggio di resistergli. Inutile dire che in questo racconto, tutto è fittizio tranne il viaggio a Gerusalemme e la colletta per i poveri, e questi due fatti stessi sono stati distorti (la colletta è presentata come un soccorso domandato dagli apostoli).

6. Il riscatto degli uomini schiavi della legge

In 4:15 (ad eccezione di 4b che sarà studiato più oltre) l'umanità è paragonata ad un figlio abbandonato durante il tempo della sua infanzia nelle mani dei pedagoghi. Gli uomini furono, per secoli, soggetti agli elementi del mondo. Ma quando i tempi furono compiuti. Dio inviò suo figlio con la missione di riscattare gli uomini che erano sotto la legge e di procurare loro la filiazione divina. 

Secondo questo testo gli uomini erano sotto il giogo della legge. Se il figlio di Dio non fosse venuto a liberarli, lo sarebbero ancora. È la venuta del figlio di Dio che ha messo fine a quella situazione. Ricordiamoci ora come Paolo ha parlato della legge in 3:15-18. Secondo lui, Dio, nello stesso tempo in cui ha promesso ad Abramo e alla sua discendenza il possesso della terra di Canaan, ha fissato la condizione richiesta per partecipare a quella promessa. Quella condizione è la fede, e la legge, venuta solo quattrocentotrenta anni dopo quella disposizione fondamentale, non può nulla contro di essa. Il Cristo verrà per realizzare la promessa e procurarne il beneficio a tutti coloro che, conformemente alla «disposizione» diathékè, hanno la fede. Ma egli non ha alcun interesse a liberarci dalla legge di cui non siamo mai stati i prigionieri. La liberazione dal giogo della legge non ha senso nel sistema di Paolo. Si deve dunque rinunciare a mettere in conto dell'apostolo il brano 4:1-5 la cui suddetta liberazione è il punto culminante. 

Di chi è? La risposta ci è fornita da 4:5 che ci dice che il Cristo ci ha liberato per via di riscatto, exagorasé. Questo riscatto è una riedizione di ciò che abbiamo incontrato in 3:13 (pag. 57). E, illuminato da 3:13, ecco ciò che vuol dire 4:1-5. Il Dio crudele che ha creato il mondo aveva ridotto gli uomini a schiavi della materia (dédoulôménoï; gli stoïcheïa tou kosmou, sui quali si è dissertato a perdita d'occhio, indicano il mondo materiale che la filosofia dualista aveva in orrore). A questa prima schiavitù egli aveva aggiunto il giogo della legge «per moltiplicare le trasgressioni». Per molto tempo il Dio buono lasciò fare. Infine quando i tempi fissati da lui furono arrivati, egli inviò suo figlio per liberare gli uomini che voleva rendere i suoi figli e per pagare al Dio crudele il riscatto per quella liberazione. Il brano 4:1-5 è marcionita. È stato scritto intorno al 140. 

7. La libertà non deve essere un pretesto per vivere secondo la carne. 

In 5:13 i Galati sono avvertiti che la libertà alla quale sono stati chiamati non deve essere un pretesto per vivere secondo la carne. Dopodiché viene una lezione di morale 5:13-26, che, come si vedrà più oltre a pag. 97 continua in 6:7-10 e che dà luogo a varie osservazioni. La prima è provocata da 5:21 dove leggiamo: «Vi avverto, come vi ho avvertito, che coloro che fanno queste cose non erediteranno il regno di Dio». Quindi ciò che Paolo dice qui è solo una ripetizione; infatti, già durante il suo soggiorno tra i Galati, egli ha trattato questo argomento davanti a loro. Non ha potuto, infatti, dispensarsi dal trattarlo, per quanto poco il suo apostolato abbia avuto il carattere morale e religioso che gli si attribuisce universalmente. La suddetta nota considerata di per sé non è quindi di natura tale da sorprenderci. Ma a leggere l'istruzione stessa, a leggere i dettagli che fornisce sulla lotta dello spirito contro la carne, della carne contro lo spirito, a vedere la cura meticolosa con la quale egli enumera le opere della carne poi i frutti dello spirito, a intendere le minacce formulate («Non vi ingannate, non si deride Dio») si ha l'impressione che mai tali insegnamenti fossero ancora stati dati ai Galati e che essi siano dati per la prima volta. Il versetto 21 presenta l'istruzione come la riedizione di un insegnamento orale. Oppure l'istruzione stessa si presenta come una novità. Il versetto 21 è una finzione. E siccome fa parte integrante dell'istruzione, quest'ultima è una finzione alla quale Paolo non ha potuto avere alcuna parte.

Una seconda osservazione è invocata da 5:15: «Ma se vi mordete e se vi mangiate gli uni gli altri, guardatevi di non essere divorati gli uni dagli altri». Questo testo ci mette di fronte dissensi profondi, così profondi da minacciare persino l'esistenza della comunità che ne è il teatro. Questi dissensi li constata, e i presenta come attuali. E il senso di «se vi mordete» è chiaramente: «se continuate a mordervi... come voi fate». Quindi la comunità intravista qui è dilaniata da fazioni violente. 

Quale è la causa del male? Si propone di solito la propaganda dei giudaizzanti che avrebbe gettato, si dice, il turbamento tra i Galati. Esaminiamo quella ipotesi. Si sono incontrati Galati che hanno saputo resistere alle minacce dei giudaizzanti e mantenersi fermi sulla retta via. Essi hanno formato un gruppo compatto il quale ha tenuto testa al gruppo dei fuorviati. Tra questi due gruppi sono scoppiati dissensi violenti di cui il testo 5:15 è l'eco fedele. In ogni caso Paolo non ha potuto dimenticare che, in questo conflitto fratricida, alcuni combattevano per lui mentre gli altri combattevano contro di lui. E tra questi e quelli non ha potuto restare neutrale. Le sue simpatie sono dovute necessariamente andare a coloro che difendevano la sua dottrina. Ma il testo 5:15, lungi dal contenere la minima traccia di quella simpatia, è al contrario l'espressione di un arbitro che pianifica al di sopra dei due partiti antagonisti, che ha per entrambi la stessa indifferenza, lo stesso disprezzo, che domanda loro ad entrambi di disarmarsi immediatamente sotto pena di perire entrambi. Basti dire che Paolo, se 5:15 deriva da lui, non ha potuto indicare con questo testo i dissensi provocati tra i Galati dalla propaganda dei giudaizzanti. Egli ha voluto indicare un'altra cosa. Ma cosa? Un conflitto di natura profana? Si vede senza difficoltà che una preoccupazione di natura profana non può mettere alle prese tutti i membri di una comunità religiosa e che solo le controversie teologiche o liturgiche sono capaci di scuotere le fondamenta di un edificio che si basa sulla fede. Un conflitto di natura religiosa? A parte la polemica delle osservanze legaliste che abbiamo appena scartato, non si vede quale conflitto religioso avrebbe potuto sorgere al suo tempo. Concludiamo che il testo 5:15, che non ha senso sotto la penna di Paolo, non può essere l'opera di Paolo. 

La lista delle «opere della carne» di 5:19-21 dà luogo a una terza osservazione. Essa menziona parecchi peccati di lussuria, ma non tutti poiché l'adulterio, l'incesto, lo stupro sono assenti. La menzione degli altri peccati è a sua volta molto incompleta poiché non vi si trova né la pigrizia, né l'avarizia, né i peccati contro la giustizia. In compenso l'enumerazione dei peccati prodotti dall'odio o dalla gelosia influisce sulla prolissità. Lacune e sovrabbondanza si spiegano peraltro da questo fatto, che la lista ha un carattere puramente pratico. Essa non intende affatto fare l'inventario di tutte le infrazioni alla legge morale; essa segnala i peccati che si commettono più o meno frequentemente; li segnala perché li si eviti in futuro (notare la minaccia: «Non si deride Dio»). 

La lista ha un carattere pratico. Perché quindi essa menziona l'idolatria e le eresie? I Galati si sono appena lasciati imporre le osservanze legaliste. Quella sottomissione alle prescrizioni della legge mosaica non denota una inclinazione pronunciata per il culto pagano. Si è quindi sorpresi di vederli messi in guardia contro l'idolatria. Ma questo stupore non è niente in confronto a ciò che provocano le hairéséïs tradotte nella Vulgata con sectas e che indicano, a confessione di Estio, dissensi di natura religiosa. A supporre che la dottrina dei giudaizzanti avesse un carattere eretico si otterrebbe un'eresia e non delle eresie. Ma essa può essere intravista qui? Se ne giudichi. Il versetto 5:13 col quale esordisce la dissertazione dice in sostanza questo: «Dopo l'argomentazione che vi ho appena letto è ben provato che voi siete liberi nei confronti delle osservanze legaliste». In effetti, Paolo ha completato la sua dimostrazione, egli ha regolato il loro conto coi missionari giudaizzanti ai quali ha invitato ad evirarsi. La questione delle osservanze legaliste è svuotata ed è incontestabile che i cristiani siano liberi nei confronti di esse. Soltanto non devono abusare di quella libertà per compiere le «opere della carne». Ma le eresie figurano tra le opere della carne, vale a dire tra i peccati che sono esposti a commettere i cristiani che si sanno liberi nei confronti delle osservanze legaliste. Non è chiaro ora che le suddette eresie non hanno nulla in comune con la sottomissione alle osservanze legaliste e non la intravedono? E la conclusione che consegue da lì è che le «eresie», di cui parla il versetto 20, sono svuotate di senso sotto la penna di Paolo. 

Ancora un'osservazione, che sarà l'ultima. Si comprenderebbe senza difficoltà che i Galati, immediatamente dopo la partenza di Paolo, abbiano avuto una crisi di costumi e si siano allontanati dall'ideale cristiano come lo capiamo noi. No si sarebbe neppure sorpresi se, apprendendo contemporaneamente l'oblio lamentevole della legge morale di cui i suoi figli nella fede davano mostra ed i successi ottenuti tra loro dai missionari giudaizzanti, Paolo avesse legato il primo fatto al secondo come il prodotto alla sua causa e avesse presentato ai Galati il ragionamento che segue: «È perché voi avete abbandonato il mio vangelo che i vostri costumi sono divenuti deplorevoli. Ritornate alla dottrina che vi ho predicato e le virtù ricominceranno a fiorire tra voi come al tempo in cui ero vostro ospite». È con sofismi di questo tipo che gli apologeti e i predicatori difendono la religione. Al posto di ciò ecco l'argomentazione che gli mette in bocca il brano 5:13-26: «Sotto il pretesto che voi siete chiamati alla libertà lasciate la briglia alle vostre passioni e commettete i peccati più vergognosi e fate una confusione davvero incresciosa. È a riguardo delle osservanze della legge mosaica che voi siete liberi; ma voi siete sempre sottomessi alle prescrizioni della legge morale. Correggetevi dunque e sappiate che non si deride Dio». I Galati si sono appena lasciati imporre le osservanze della legge mosaica; Paolo risponde loro: «Voi fraintendete la libertà che vi è stata conferita; voi siete liberi nei confronti della legge di Mosè ma voi siete sempre sottomessi alla legge morale». Il discorso senza capo né coda è completo.

8. Coloro che sono del Cristo hanno crocifisso la carne

Il brano 5:13-26; 6:7-10 non è di Paolo. Ci resta da cercare di chi sia. Ma prima di affrontare quella questione, ci è necessario dapprima vedere a chi si rivolge. Nella comunità per la quale esso è stato scritto l'idolatria non è un fenomeno inaudito, neppure la magia; la lussuria si espande a suo piacimento, le cricche abbondano, l'unità religiosa è spezzata dalle sette (la parola sectae della Vulgata  rende esattamente le haïréseïs del greco), in una parola i costumi sono rilassati, gli animi sono divisi, la fede è soggetta alle interpretazioni diverse: ecco una prima constatazione che risulta immediatamente dalla lettura del testo. Eccone una seconda: il campo che ha prodotto un raccolto così abbondante e così variegato è vasto, vastissimo; detto altrimenti la comunità destinataria è numerosa, non può trovarsi che in una grandissima città, essa riunisce condizioni che non possono minimamente incontrarsi nella comunità cristiana di Roma. Terza constatazione: avendo fatto le sette la loro apparizione solo dopo il primo quarto del secondo desolo, i destinatari del nostro brano sono posteriori al 125. Ciò che è detto del rilassamento dei costumi non ci conduce ad un'opinione contraria, tutt'altro.

Arrivo all'autore di cui sappiamo da ora che egli ha scritto dopo il 125. Le «sette» alle quali fa allusione sono i gruppi che, nel secondo quarto del secondo secolo, si formarono attorno a Basilide, a Valentino, a Cerdone, ecc., e invasero la comunità cristiana di Roma (Valentino e Cerdone vennero a Roma; se Basilide stesso non vi è venuto, i suoi discepoli non hanno potuto tardare a recarvisi). Egli ha l'orrore della carne, che presenta come la sede del male e contro la quale egli mette i cristiani in guardia. Si esiterebbe però a dare alle sue espressioni il loro pieno significato, se non fosse per il testo 5:24 dove egli dichiara che, per appartenere al Cristo, si deve crocifiggere la propria carne e che non gli si appartiene fintantoché non si sia compiuta quella operazione. Questa crocifissione della carne rivendicata qui fa eco al punto dell'Epistola ai Romani 6:6 che esige, a sua volta, la crocifissione della carne; si ispira alla stessa dottrina. E quella dottrina è quella secondo la quale la carne è una macchina per peccare che è uccisa (fittiziamente) nel battesimo; secondo la quale il cristiano, morto al peccato e innestato sulla morte del Cristo, vive della vita del Cristo, che è spirito. L'autore del brano 5:13-26; 6:7-10 è un marcionita. Inutile dire che egli domanda al cristiano di praticare la castità la quale è uno dei frutti dello spirito. Inutile dire anche che il «regno di Dio» di cui fa menzione è il cielo, e che egli promette ai servitori dello spirito «la vita eterna», ma senza la resurrezione della carne. Egli fustiga i cattivi cristiani così come gli gnostici che peraltro erano mescolati ai cristiani. Egli scrive intorno al 140. [5]

NOTE

[1] Loisy, Les Actes des apôtres, pag. 541, 692, 938. 

[2] Loisy, pag. 620.

[3] Id., pag. 796.

[4] L'Epître aux Romains, pag. 29.

[5] Esistono altre due interpolazioni marcionite, una in 1:4, l'altra in 4:14-16- La prima è discussa nelle righe che seguono. Per la seconda si vedano le note.

Nessun commento: