venerdì 2 febbraio 2024

Gli scritti di San Paolo — EPISTOLA AI GALATI (VERSIONE CATTOLICA)

 (segue da qui)

VERSIONE CATTOLICA

1. Il Cristo ci ha strappati al presente secolo malvagio.

Da ogni tempo ci si è domandati cosa il Cristo sia venuto a fare sulla terra, e a quella domanda risposte molteplici oltre che divergenti sono state date. Ma mai e in nessuna scuola si è insegnato che egli è venuto «per strapparci dal presente secolo malvagio». Il versetto 1:4 che dice ciò è un puro nonsenso.

Ma sopprimiamo le due parole «presente secolo»; resta che il Cristo è venuto «per strapparci al Maligno». Ma la storia ci insegna che una volta è esistita una comunità cristiana secondo la quale il Cristo era venuto per strappare gli uomini al Maligno. Nel suo trattato contro Marcione Tertulliano in 1:23, pone innanzitutto in linea di principio che vi è ingiustizia nello strappare il servitore al suo padrone. [1] Poi facendo l'applicazione del principio egli ci mostra il Dio buono di Marcione che penetra in un mondo che egli non ha creato, dunque che non è il suo, e che strappa al Dio creatore. [2] Più oltre in 1:25 egli aggiunge che il Dio buono, venendo a combattere il peccato e la morte, ha necessariamente inimicato contro di lui il Dio creatore che è il padrone supremo del peccato e della morte, tanto più che questo Dio buono veniva a liberare l'uomo dal Dio creatore. [3] Dunque il Cristo marcionita è venuto a «liberare» gli uomini del Dio creatore, a «strapparli» da lui. E siccome il Creatore passava nella scuola marcionita per essere il Dio malvagio, il Cristo marcionita è venuto a strapparci «dal Maligno». Lo stesso Cristo marcionita si è d'altronde «dato per i nostri peccati». Egli si è «dato» nel senso che si è lasciato mettere a morte dal Maligno. Egli si è dato «per i nostri peccati» perché ci ha liberato dalla morte alla quale il Maligno ci aveva condannato a causa dei nostri peccati, dopo essersi ingegnato a farci commettere questi peccati. Lo si vede: 1:4, sbarazzato del «presente secolo», è di origine marcionita. Il «presente secolo» è stato inserito da un cattolico che si è esclusivamente preoccupato di togliere alla versione marcionita il suo veleno. Egli ha ottenuto il suo scopo, perché la sua interpolazione che confonde tutto ha almeno il vantaggio di depistare il lettore e di nascondere il vero significato del testo primitivo. 

2. Lo spirito

Il versetto 3:13 ci dice che il Cristo, facendosi maledizione per noi, perseguiva uno scopo che era di riscattarci dalla maledizione della legge. Sappiamo peraltro (si veda pag. 59) che ciò è di provenienza marcionita. Il versetto 3:14a, a tener conto solo della sintassi, assegna alla maledizione incorsa dal Cristo un secondo scopo che era di mettere le nazioni in condizione di partecipare alla benedizione di Abramo. Ma abbiamo visto (a pag. 60) che la disposizione attuale è artificiale è che 14a si lega in realtà a 9. Esaminiamo ora 14b. Anch'esso, a tener conto solo della sintassi, assegna una nuova ragione che è la terza per la maledizione incorsa dal Cristo. Secondo questo testo il Cristo si è fatto maledizione, «affinché noi ricevessimo per la fede la promessa dello Spirito». Quella «promessa dello Spirito» è quella che è stata fatta dal Cristo nel Quarto vangelo 14:16, 26; 15:26. Essa è stata fatta all'epoca del movimento montanista. [1] La «fede» che ottiene la promessa dello Spirito è la fede nell'effusione dello Spirito, vale a dire la credenza nei fenomeni psichici (glossolalia, estasi, gesta eccentriche e disordinate) che si verificavano negli ambienti montanisti. Il testo 3:14b che, d'altronde, non ha alcuna relazione con 14a, è di provenienza marcionita.

Passiamo ora a 3:25 dove lo spirito è menzionato  tre volte. «Lo spirito» del versetto 3 che è opposto alla carne è lo spirito del cristiano o, se si vuole, la sua anima. Scartiamolo dunque dal dibattito. Ma si vede chiaramente che lo «Spirito» di 2 e 5 è lo Spirito Santo, il terzo membro del collegio divino. I Galati hanno ricevuto lo Spirito che Dio ha dato loro. Quella asserzione enunciata due volte con sfumature senza significato è presentata come un fatto incontestato e la ragione, sottintesa ma evidente, per la quale il fatto non soffre di contestazione è che lo Spirito ha manifestato la sua presenza per mezzo dei fenomeni sensibili, glossolalia, estasi, ecc. 

Dunque i Galati hanno ricevuto lo Spirito Santo, e lo hanno ricevuto in un'epoca in cui non si erano ancora lasciati sedurre dai giudaizzanti. Cos'è che prova ciò? Allo stato attuale del testo ciò prova chiaramente che le osservanze legaliste sono inutili per la salvezza e che i Galati hanno avuto torto a sottomettersi a loro. La conclusione è decisiva. Sfortunatamente essa si scontra con la condotta dei Galati e con l'atteggiamento di Paolo nell'epistola. I Galati avevano solo la fede, non erano soggetti alle osservanze legaliste quando lo Spirito Santo ha preso possesso delle loro anime e ha manifestato la sua presenza tramite effetti manifesti quanto meravigliosi. Come dunque hanno saputo resistere ai sofismi dei giudaizzanti che sono venuti a predicare loro la necessità delle opere della legge? Il loro accecamento è veramente inspiegabile! Ma l'ingenuità di Paolo non lo è di meno. Egli ha appena ricordato ai Galati l'immenso onore che ha fatto loro lo Spirito Santo. Ha appena indicato loro concretamente l'inutilità delle osservanze legaliste. E, dopo quella constatazione così luminosa, egli si imbarca in un'argomentazione così ripugnante quanto sottile sulla benedizione di Abramo (3:6-9, 14a, 29) e sui due figli di questo patriarca (4:21-23; 28-31). Come mai non ha visto che questi laboriosi e indigesti ragionamenti sfondavano una porta aperta, che l'inutilità della legge era già provata perentoriamente dalla discesa dello Spirito Santo nelle anime dei cristiani estranei alla legge, e che tutti i pretesi supplementi portati a quella prova magistrale sarebbero andati infallibilmente ad oscurarla? 

Quell'accumulo di improbabilità ci avverte che siamo nel mondo della finzione. In realtà i Galati non avevano affatto ricevuto la visita dello Spirito Santo quando essi si sono lasciati sedurre dai giudaizzanti e Paolo ha raccontato loro di questo augusto visitatore. I testi 3:2, 5 che fanno riferimento allo Spirito Santo hanno lo stesso autore di 3:14b. Il cattolico amico dei montanisti che ha scritto quest'ultimo testo, leggendo nel versetto 3 che i Galati avevano cominciato mediante lo spirito, ha visto in questa parola un'eccellente occasione per fare la propaganda in favore dello Spirito Santo e l'ha utilizzata.

3. La legge pedagoga.

I versetti 3:21-28 contengono una dissertazione sul ruolo provvidenziale della legge che ci è servita da pedagoga fino al giorno in cui, mediante la fede nel Cristo, noi siamo diventati i figli di Dio.

Cosa vengono a fare i «figli di Dio»? Si vede chiaramente da 3:6-9, 14a, 15-18 che la preoccupazione di Paolo era di stabilire contro i giudaizzanti le condizioni richieste per essere figli di Abramo. Si dirà che il suo pensiero è evoluto nel corso della sua dissertazione? Esso si è così poco evoluto che, in 29, egli dice ancora: «Se voi appartenete al Cristo voi siete dunque la discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa». Ancora una volta cosa vengono a fare i «figli di Dio» di 26? Esse fanno figura di intrusi. Esaminiamo ora il versetto 22. Esso insegna che la fede non procurerebbe la promessa se il peccato non fosse universale e che esiste una relazione di finalità tra l'universalità del peccato e la promessa. Ma Paolo concepisce il piano divino del tutto altrimenti. Secondo lui la spiegazione del regime al quale sono sottoposti i cristiani si trova nel racconto della Genesi relativo alla benedizione di Abramo. Dio ha dato ad Abramo una benedizione che consisteva nella promessa della terra di Canaan. Quella benedizione, nello stesso tempo in cui egli l'ha fatta ad Abramo, l'ha fatta alla discendenza di questo patriarca la quale è il Cristo, ed ha deciso che vi avrebbero partecipato tutti coloro che avrebbero la fede in quella discendenza, vale a dire la fede nel Cristo. È in virtù di quella disposizione antica e irrevocabile che il peccato non interviene qui in alcun titolo. E si deve concludere che il versetto 22, con la sua connessione tra il peccato e la fede, è completamente estraneo al programma di Paolo.  

Ma la nostra attenzione è attirata soprattutto da 21 dove leggiamo: «La legge è contro le promesse di Dio? Lungi da ciò»Quella asserzione confuta in anticipo un'obiezione prevista, aspettata. Più esattamente ciò che è previsto è che un'asserzione che è appena enunciata sarà mal compresa e quell'errore di interpretazione è corretto in anticipo. Il senso è quindi: «Voi potrete concludere da quanto ho appena detto che la legge sia contro le promesse di Dio e che tale sia il mio pensiero. Ebbene, io dichiaro che la legge non è contro le promesse». Dov'è dunque l'asserzione suscettibile di un'interpretazione errata che ha motivato la suddetta correzione? Essa non è sicuramente in 17 dove Paolo dichiara solennemente che la legge venuta quattrocentotrenta anni dopo la promessa non può annientarla. Infatti quella dichiarazione mette precisamente i Galati in guardia contro ogni tentativo di opporre la legge alla promessa. Ma tra 17 e 21 vi è 19a che in sostanza dice questo: «La legge è stata aggiunta per moltiplicare le trasgressioni». Bisogna proprio riconoscere che 19a dà della legge un'impressione negativa. 

È per correggere quell'impressione che si impiega 21 con i versetti che lo seguono. Il brano 21-28 che espone la missione provvidenziale della legge è interamente motivato da 19a. Esso ha per scopo di commentarlo, di spiegarlo, di darne una buona interpretazione. Soltanto abbiamo acquisito la prova che 19a è uscita, intorno al 140, dal laboratorio marcionita. Ciò ci informa sull'origine, sulla data e sul valore del commentario 21-28. È l'opera di un cattolico che ha scritto intorno al 160 e che, col pretesto di interpretare 19a, lo ha esorcizzato. Questo sapiente esegeta non ha paura di attingere dalla teologia marcionita di cui leggeva in 4:15 un estratto. Non ha paura di dire che eravamo imprigionati sotto la legge (23) e che il peccato era universale (22) — tanto era profonda l'impronta lasciata nelle anime dalla predicazione di Marcione! Ma egli ha spiegato che la legge che ci serviva da prigione aveva per missione di condurci al Cristo; egli ha detto che noi eravamo imprigionati sotto la legge in vista della fede che doveva un giorno essere rivelata. Naturalmente egli ha soppresso il riscatto. All'antagonismo tra il Dio crudele e il Dio buono, ha sostituito la disposizione provvidenziale del Dio unico che fa servire la legge a preparare la venuta del Cristo. Egli ha utilizzato i dati della teologia marcionita, ma utilizzandoli li ha trasformati. 

4. I due testamenti.

La dissertazione di Paolo sui due figli di Abramo 4:21-31 di cui si è parlato più sopra (pag. 55) è tagliata in due tronconi dai versetti 24-27 che cominciano col dichiarare che «queste cose sono dette a mo' di allegoria», poi che aggiungono che le due donne di Abramo sono i due testamenti i quali corrispondono a due Gerusalemme distinte, ecc. Studiamo questo brano.

Notiamo innanzitutto che esso conosce due piani divini, due regimi ai quali il genere umano è stato successivamente sottomesso da Dio. E questi due regimi indicati sotto il nome di diathékaï, sono — nessuno lo nega — i nostri due testamenti. Per dirla tutta esso conosce ciò che chiamiamo l'Antico e il Nuovo Testamento. Ricordiamoci ora quanto Paolo ha scritto in 3:15-17. Egli ha messo sotto i nostri occhi, da una parte, un testamento diathékè, con le clausole che contiene, d'altra parte la disposizione diathékè divina che fissa le condizioni richieste per partecipare alla promessa fatta ad Abramo. Poi ha detto: «Proprio come non si può aggiungere nulla né togliere nulla alla disposizione che si chiama testamento, così la legge venuta quattrocentotrenta anni dopo la promessa non può annientare la disposizione diathékè, presa da Dio per fissare le condizioni alle quali si parteciperà alla promessa». Paolo conosce solo una disposizione, solo un piano divino, solo un regime al quale l'uomo è stato sottoposto da Dio, e questo regime è quello della fede. Il brano 4:24-27 conosce due piani divini, due regimi. Ecco una prima difficoltà. — Ed ecco una seconda. Il testo di Isaia 54 che è citato qui contrappone due donne, di cui una è abbandonata e l'altra ha un marito, ed aggiunge che i figli dell'abbandonata sorpassano in numero i figli della donna sposata.  Non va cercato ciò che ha voluto dire il profeta, e l'unica questione che ci interessa è sapere come lo scrittore ha capito il testo che cita. Ma si vede chiaramente — del resto  i commentatori sono d'accordo su questo punto — che, nella citazione, l'abbandonata indica la Chiesa e la donna sposata rappresenta la sinagoga. Da ciò segue che il brano 4:24-27, con la sua citazione di Isaia, è stata scritta in un'epoca in cui la Chiesa aveva sul giudaismo il vantaggio del numero. Ma si crederà che quella situazione sia stata realizzata durante la vita di Paolo o persino nel corso della generazione che ha seguito la sua morte?

Notiamo il contrasto tra le due Gerusalemme, tra la Gerusalemme attuale che è nella schiavitù e la Gerusalemme di sopra che è libera. È la Gerusalemme di sopra che i cristiani tengono per loro madre ed è al possesso di quella dimora celeste che aspirano. Ma la speranza di Paolo ha per oggetto la benedizione di Abramo, vale a dire la partecipazione al regno che il Cristo, vero successore di questo patriarca, fonderà nella terra di Canaan (quando egli scriverà l'epistola ai Romani il suo orizzonte si sarà ingrandito ed egli sognerà per il Cristo l'impero del mondo). In due parole Paolo non sospetta affatto la Gerusalemme di sopra, e la Gerusalemme di sopra non conosce il regno che il Cristo deve fondare nella Palestina. Ed ecco una terza obiezione. 

Ma tutte queste difficoltà sono poca cosa, rispetto alle seguenti. Dopo i versetti 22-23 nei quali Paolo menziona i due figli di Abramo, di cui uno è nato dalla donna libera secondo la promessa e l'altro dalla schiava secondo la carne, leggiamo: 

Queste cose sono dette a mo' di allegoria.

Vediamo ora a cosa tende la dissertazione di Paolo. Il suo scopo definitivo è stabilire — non che i cristiani debbano partecipare alla benedizione di Abramo, vale a dire ereditare la terra di Canaan (Palestina), perché ciò è fuori discussione, ma — che i cristiani chiamati a ricevere l'eredità promessa ad Abramo sono liberi nei confronti della legge. Egli considera raggiunto il suo scopo se può arrivare a dimostrare che i cristiani sono nella stessa condizione di Isacco, dato che Isacco è nato da una donna libera (nel suo pensiero nascere da una donna libera equivaleva ad essere libero nei confronti della legge; non ci servirebbe evidentemente a nulla criticare quel metodo di argomentazione; non possiamo che prenderla così com'è). Ma tra i cristiani e Isacco vi è un punto comune che è il seguente: Isacco è nato in virtù di una promessa alla quale Abramo ebbe fede; dal canto loro i cristiani nascono mediante la fede nel Cristo perché la promessa fatta ad Abramo deve essere realizzata: i cristiani sono figli della promessa proprio come Isacco; quindi sono, come Isacco, i figli della donna libera e, di conseguenza, essi sono liberi nei confronti della legge. Si possono fare a quell'argomentazione tutte le critiche che si vorrà salvo quella di allegorizzare. Paolo ricava dal racconto della Genesi le conseguenze più inaspettate; ma non lo tratta da allegoria. E, presentandolo come un'allegoria, avrebbe ribaltato da cima a fondo il capolavoro che ha avuto tanta difficoltà a mettere in piedi. Egli non ha potuto fare ciò; egli non ha potuto scrivere: «Queste cose sono dette a mo' di allegoria». Eccoci consegnati alla quarta difficoltà.

E non siamo ancora al termine. Il principio dell'alleanza, una volta posto, è spiegato in seguito. E la spiegazione consiste nel dire che «le donne sono i due testamenti». Quindi, nell'allegoria dei due figli di Abramo, il primo piano è occupato dalle donne Agar e Sara. E queste due figure allegoriche svolgono un ruolo importante poiché simboleggiano i due Testamenti, quello antico con la Gerusalemme attuale, quello nuovo con la Gerusalemme di sopra. Ma basta leggere la dissertazione di Paolo per vedere che le donne Agar e Sara restano in secondo piano. È su Isacco che la nostra attenzione è attirata prima di tutto, perché la questione capitale è dimostrare che i cristiani sono nella condizione di Isacco. Se dunque il racconto dei figli di Abramo offre materia per l'allegoria, l'allegoria, nella dissertazione di Paolo, dovrebbe vertere innanzitutto su Isacco. E Paolo che non ha potuto scrivere che queste cose sono dette a mo' di allegoria, ancor meno ha potuto aggiungere che le due donne di Abramo simboleggiano i due testamenti.

Ancora un'osservazione che sarà l'ultima. Se, per assurdo, Paolo avesse creduto di far opera utile spiegando il valore allegorico delle due donne di Abramo, egli avrebbe preso la precauzione elementare di rinviare la sua lezione alla fine della sua dissertazione sui due figli di Abramo, egli non l'avrebbe gettata di traverso. È però così che è gettato il corso di esegesi che esordisce col versetto 24. Esso taglia in due tronconi l'argomentazione di Paolo, e tagliandola la imbroglia. In aggiunta agli altri suoi difetti il brano 24-25 ha dunque quello di non essere al suo posto. Ciò è più che sufficiente per autorizzarci a respingerlo. 

Il brano 4:24-27 non è di Paolo. Non ci resta per noi che conoscere la sua data e l'impulso che lo ha ispirato. Si dovrebbe collocarlo prima del 150 se si avesse la prova che Giustino, che cita il testo di Isaia 54:1 nella prima apologia 53, 5, abbia attinto la sua citazione dall'epistola ai Galati. Ma quella prova è impossibile da ottenere (ricordiamoci che Giustino, che ha scritto dopo la versione marcionita del quarto Vangelo, è anteriore alla versione cattolica di questo libro). Domandiamo piuttosto un punto di riferimento per il testo che pone il principio dell'allegoria. Si sa che il metodo allegorico, inventato dai filosofi greci che se ne servirono per purificare i miti pagani, sviluppato dalla scuola stoica, è stato introdotto nella Bibbia da Filone. [1] A quale epoca l'apologetica fece ricorso ai suoi servigi? Evidentemente a partire dal giorno in cui essa ne sentì il bisogno. Ma ciò accadde quando i marcioniti impiegarono i racconti biblici — intesi da loro in senso letterale — per provare la crudeltà e l'ingiustizia del Dio creatore. Allora si formò nella Chiesa una scuola che, per sfuggire agli attacchi marcioniti, rinunciò al senso letterale dei racconti biblici e si rifugiò nell'interpretazione allegorica adottata talvolta senza riserve (negando ai racconti biblici ogni tipo di realtà) talvolta con alcune attenuazioni (teorie dei tipi e degli anti-tipi secondo la quale i fatti biblici, storicamente veri, erano destinati nei progetti divini a prefigurare la vita del Signore oppure la storia della Chiesa). È a quella scuola che appartiene il versetto 24 che allegorizza le donne di Abramo (sembra proprio negare loro ogni realtà storica; ma io trascuro questo dettaglio). Il brano 4:24-27 è l'opera di un cattolico che conosce, che prende sul serio gli attacchi di Marcione contro i racconti dell'Antico Testamento, e che, per salvare questo libro venerato, lo sublima. Esso deve essere posteriore al 150. 

5. Lezione di indulgenza e di umiltà

I versetti 6:15 espongono la linea di condotta che gli «spirituali» devono osservare nei confronti dei cristiani sorpresi nel peccato. Devono sforzarsi di rimettere il colpevole nella retta via; ma procedendo con dolcezza e dicendo a sé stessi che anch'essi possono essere tentati a loro volta. Ciascuno di noi deve infondersi una grande indulgenza. Si inganna colui che si immagina di essere qualcosa mentre non è niente. C'è un buon modo per essere umili: consiste nel porsi di fronte a sé, di fronte a ciò che si è fatto. Ciascuno di noi ha il proprio problema. Non lo si dimentichi e tutto andrà bene.

Insomma il brano 6:1-5 è una lezione di indulgenza e di umiltà. Vediamo ora ciò che lo precede e ciò che lo segue. Ciò che lo precede è la dissertazione sulla necessità per il cristiano di compiere le opere dello spirito e non di compiere le opere della carne (5:13-26), dissertazione di cui ho parlato più sopra (pag. 75) e che è di origine marcionita. Ciò che segue (6:7-10) è l'annuncio della sorte che si avrà a seconda che si sarà obbedito allo spirito o alla carne: «Non vi ingannate: non si deride Dio, perché ciò che ciascuno avrà seminato, è ciò che raccoglierà...». Si vede perfettamente che il frammento 6:7-10 è la conclusione di 5:13-26 e che queste due ammonizioni sono il principio e la fine di una sola e la stessa dissertazione. Oggi questi due tronconi sono separati; ma in origine non poteva essere così. La dissertazione 5:13-26; 6:7-10 era di un solo autore; è più tardi che è stata tagliata. Ed ecco la prova acquisita che la lezione di indulgenza e di umiltà di 6:15 è di data tardiva. Si avrà un punto di riferimento prezioso se si potessero  identificare gli «spirituali» che sono qui richiamati all'ordine. Questo titolo di origine gnostica fu accaparrato dai montanisti che se ne mostrarono molto affezionati. Il nostro brano ha probabilmente per autore un capo di comunità le cui simpatie erano orientate al movimento montanista. 

6. Il salario dei catechisti

In 6:6 incontriamo il precetto seguente abbastanza inatteso:

Colui a cui la parola è insegnata dia al suo catechista una parte di tutti i suoi beni. 

Se Paolo avesse incaricato alcuni catechisti di continuare la sua opera di insegnamento presso i Galati, avrebbe assicurato il loro sostentamento prima di partire, non avrebbe aspettato una lettera occasionale per provvedervi. Il regolamento di una tale questione non è di quelli che si dimentica o che si lascia andare. Se egli non ha avuto l'idea durante il suo soggiorno tra i Galati di stabilire uno statuto per i catechisti, siamo sicuri che il pensiero non gli è venuto qualche mese dopo la sua partenza. Da cui siamo autorizzati a concludere che i suddetti catechisti non sono stati istituiti da Paolo. D'altronde, perché Paolo li avrebbe istituiti? Ricordiamoci il suo programma. Esso consisteva nel presentare Gesù come l'uomo incaricato da Dio di realizzare la promessa fatta ad Abramo e di prendere possesso della terra di Canaan, vale a dire della Palestina. L'apostolo aveva fatto dire rapidamente alle popolazioni tutto quello che aveva da dire loro. L'istruzione che dispensava era sommaria e non richiedeva di essere completata. Senza dubbio egli aveva degli aiutanti, ma il cui ruolo consisteva nel fare ciò che faceva lui stesso, nel propagare la fede in Cristo, detentore della benedizione di Abramo, e non nel perfezionare presso i credenti un'istruzione che non comportava alcun sviluppo.

E questi collaboratori che si dedicavano alla stessa opera di propaganda, come li chiamava? Li chiamava proprio suoi collaboratori (Romani 16:9, 21; Filippesi 2:25); suoi fratelli (Filippesi 4:21). Egli non rifiutava loro nemmeno il nome di apostoli. Lo testimonia questo testo di Romani 16:7: «Salutate Andronico e Giunia miei parenti e compagni di prigionia che sono molto considerati tra gli apostoli». [1]

Dunque Paolo ha conosciuto gli apostoli, vale a dire i propagandisti del movimento cristiano, ma non ha conosciuto i catechisti katéchôn.

Questi ultimi sono nati conformemente alla legge che vuole che il bisogno crei lo strumento. Essi hanno atteso, per fare la loro apparizione, che vi fosse una dogmatica da esporre, da spiegare, da difendere. Ciò accadde nel giorno in cui il mistero della redenzione penetrò nella comunità cristiana, il giorno in cui si apprese che Gesù era il Dio buono disceso sulla terra per strappare l'uomo al giogo del Dio creatore che si ingegnava a farlo peccare in questa vita per punirlo crudelmente nell'altra. Il testo 6:6 che assicura sostegno ai catechisti è l'opera di un interpolatore interessato. È stato scritto o da un catechista o da un vescovo che aveva un catechista a suo carico. Si sa da Eusebio (5:18, 2) che Montano aveva designato dei collaboratori. E lo scandalo che fecero questi missionari di professione ci permette di ipotizzare che egli fosse l'autore di quella istituzione. Il testo 6:6 deve la sua redazione ad un'influenza montanista. [1]

NOTE

[1] «Ut domino eripiatur».

[2] «Eripiens Deo hominem».

[3] «Curans hominem liberare hoc ipso jam aemulatur et eum a que liberat...» 

[1] Si veda Le quatrième évangile, pag. 117.

[1] Si veda Bréhier, Les idées philosophiques et religieuses de Philon d'Alexandrie, pag. 36; Decharme, Critique des traditions religieuses chez les Grecs, pag. 270.

[1] Il significato di questo testo, come lo intendono comunemente i commentatori al seguito di Estio, è che Andronico e Giunia sono apostoli di un merito eccezionale, vale a dire che gli altri collaboratori di Paolo sono pure apostoli ma che Andronico e Giunia superano col loro lavoro la maggior parte di loro.

[1] Altre quattro o cinque interpolazioni cattoliche saranno segnalate nelle note.

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