domenica 7 gennaio 2024

Gli scritti di San Paolo — L'EPISTOLA AI ROMANI (LA RIFORMA PASQUALE)

 (segue da qui)

LA RIFORMA PASQUALE

Ritorno alla dissertazione del capitolo 14. Ora che sappiamo che questo brano non può in alcuna maniera provenire da Paolo, il nostro campo interpretativo si allarga. Il nostro orizzonte non è più limitato ai giudaizzanti. E innanzitutto non siamo più condannati a mantenere ad ogni costo l’omogeneità della dissertazione. Se esistono segni indiscutibili di una duplice redazione, non saremo più obbligati a chiudere gli occhi per non vederli. Ma questi indizi non fanno difetto. Una parte del capitolo 14 (da 1 a 12) predica la libertà e vuole che nessuno attenti alla libertà degli altri. L'altra parte (da 13 a 15:7) insegna che la condotta esteriore deve essere regolata in maniera tale da evitare lo scandalo. In realtà il capitolo 14 comprende due dissertazioni di cui ciascuna contiene una tesi diversa dall'altra. L'opposizione tra le tesi e, di conseguenza, la loro distinzione, non è contestabile. La difficoltà è identificarle, precisare il loro obiettivo.

Tentiamo, cominciando dalla seconda tesi. Vi si parla di cibi, dello scandalo, della pace, del regno di Dio. Di cibi da non mangiare, dello scandalo da evitare, della pace da restaurare, del regno di Dio da non rischiare di perdere. Ad una delle estremità del conflitto si trovano solo i cibi. Ma all'altra estremità è il regno di Dio stesso che è in gioco.

Cos'è questo regno di Dio che non è cibo e bevanda, ma giustizia e pura gioia nello Spirito Santo? Si tratta del cielo, come pensano diversi commentatori, che mi sembrano avere ragione? Si tratta solo della vita cristiana o della Chiesa? In ogni ipotesi, il regno di Dio è fatto di «pace»; consiste nello stato di pace e presuppone la pratica della pace. E quella pace, che è attualmente turbata, a quale condizione sarà ristabilita? Vi si riuscirà solo se si evita lo scandalo, se si rinuncia a «rattristare» i fratelli, se si smette di prendere cibi. La situazione è grave. Lo si vede dalla veemenza con la quale l'autore implora i perturbatori della pace a porre fine ai loro errori. Tuttavia osserviamo che, nei suoi accenti focosi, la nota oltraggiosa manca completamente. Gli avversari non ricevono nessuno di quegli epiteti ingiuriosi che riscontriamo così spesso altrove. La pace è profondamente turbata e l'autore si sforza di ristabilirla. [1] Ma la guerra non è ancora dichiarata. Si tratta per noi di trovare nella storia della Chiesa una situazione che corrisponda a questa descrizione.

Ci siamo evidentemente ridotti a fare congetture. La più plausibile mi sembra essere che la nostra dissertazione si riferisca alla riforma pasquale che ebbe luogo nella prima metà del secondo secolo e che fu causa più tardi di una disputa tra gli Orientali e Roma.

Si è abituati a vederla solo una questione di giorni; ma, nella realtà, fu anche una questione di digiuno. Ciò lo sappiamo da Ireneo che, nella sua lettera a Vittore (Eusebio, Historia Ecclesiastica 5:24, 12) dice: «Quella discussione non verte solo sul giorno, ma anche sulla forma del digiuno. Alcuni infatti credono di dover digiunare solo un giorno, altri due e altri di più». La polemica fu lunga. Essa fu vivace, poiché Vittore venne a separare dalla sua comunione gli Orientali. Ma ciò avvenne soltanto negli ultimi anni del secondo secolo. Fino ad allora non si ebbe rottura. 

La nostra dissertazione, che va fino a 15:7, constata le divergenze di condotta alle quali dà luogo la pratica del digiuno (accompagnato dall'astinenza), i turbamenti che ne sono risultati, e tenta di rimediare a questo male. L'autore appartiene al partito dei forti (15:1), al partito di coloro che non attribuiscono alcuna importanza al digiuno. Ma vuole che i forti siano rispettosi dei deboli, vale a dire coloro che digiunano. Chiede loro di conformarsi alla disciplina dei deboli e di attenersi al digiuno. Lavora per adattare l'istituzione del digiuno pasquale, istituzione recente alla quale i conservatori facevano opposizione.

Non si preoccupa del giorno, senza dubbio perché, nel suo tempo e nel suo ambiente, il giorno non sollevava alcuna difficoltà. Se, come è probabile, egli ha scritto a Roma, si concluderà che il giorno pasquale accettato da tutti fosse la domenica; infatti sappiamo dalla lettera di Ireneo a Vittore che, già sotto il pontificato di Aniceto, [2] la Chiesa romana celebrava la Pasqua di domenica. Quindi all'epoca in cui 14:13 è stato scritto, lo spostamento del giorno pasquale era compiuto a Roma ed era accettato da tutti.

Il digiuno (con astinenza) era praticato da numerosi fedeli che dovevano probabilmente formare la maggioranza. Ma aveva anche degli avversari i quali si consideravano spiriti forti e trattavano i digiunanti come gente debole. L'autore, benché appartenente al partito dei forti, si è adoperato per far tacere l'opposizione.

La prima dissertazione, quella che va da 1 a 12, constata anch'essa divergenze sul tema del digiuno e dell'astinenza (il digiuno che non è menzionato in 2 è compreso nell'astinenza che è menzionata). Ma essa ne constata anche a proposito di ciò che chiama il «giorno». Conosce devoti che mangiano solo verdure. Ma conosce anche chi preferisce un giorno all'altro, chi tiene conto di un giorno, mentre altri non tengono conto di alcun giorno. Cosa va inteso con questo giorno?

Lagrange risponde: «Questa divergenza è ancora più oscura della precedente. Anche se Paolo darà la sua opinione personale sulla questione dei cibi, non ritornerà sulla distinzione dei giorni». Credo che coloro che preferiscono un giorno all'altro, che tengono conto del giorno, sono coloro che vogliono celebrare la Pasqua solo la domenica; vale a dire gli innovatori. Coloro che mettono tutti i giorni sullo stesso piano. sono i conservatori per i quali, nella celebrazione della Pasqua, non vi è da tener conto del giorno della settimana, ma solo del 14 nisan, giorno della Pasqua ebraica.

Dal nostro punto di vista, anche loro preferiscono un giorno all’altro, poiché fissano la celebrazione della Pasqua al 14 nisan. Ma gli innovatori, avendo scosso la tradizione partendo dal principio che la domenica fosse l'unico giorno della settimana idoneo alla celebrazione della Pasqua, hanno posto essi stessi la controversia sul terreno seguente: si può celebrare la pasqua non importa quale giorno (della settimana) oppure si deve riservare a un giorno (della settimana) il monopolio di quella festività? [3]  

Nell'epoca e nell'ambiente in cui ciò è stato scritto, la celebrazione domenicale della pasqua ha cominciato a funzionare, ma essa non ha avuto il tempo di farsi accettare universalmente. Senza dubbio la riforma ha i suoi sostenitori, ma anche la tradizione ha i suoi che celebrano la festa del 14 nisan quale che sia il giorno della settimana in cui cade. Se la nostra dissertazione ha, come è probabile, un'origine romana, si può collocarla intorno al 140 poiché, intorno al 455, quando Policarpo visitò la Chiesa romana, vi trovò la domenica pasquale in vigore. Avrebbe preceduto di una ventina d'anni la dissertazione di 14:13-15:7, la quale presuppone il 14 nisan completamente detronizzato a Roma.

Testimone dell'osservanza domenicale e dell'osservanza quartodecimale, l'autore non tenta di sacrificare l'una all'altra: rivendica per entrambe la libertà. Stesso atteggiamento nella questione del digiuno. Non esige che l'osservanza del digiuno e dell'astinenza sia la regola generale, come farà più tardi l'autore della seconda dissertazione. Ciò che vuole è che non ci si disprezzi, che non ci ci si condanni reciprocamente. Il suo slogan è:  «Sopportatevi; tolleratevi gli uni gli altri; che ciascuno faccia come ben gli sembra».

Procediamo ad una veduta d'insieme.

Fino ai dintorni del 140 la pasqua cristiana era celebrata lo stesso giorno della pasqua ebraica, vale a dire il 14 nisan.

In quella data un gruppo di fedeli della Chiesa di Roma sposta la festività e la trasferisce alla domenica successiva. Lo stesso gruppo introduce un digiuno preparatorio alla festività. Quella duplice riforma è una causa di disordini. Gli innovatori, che all'inizio sono solo una minoranza, condannano la maggioranza refrattaria, accusandola probabilmente (questo dettaglio non è dato nei testi) di restare ancorata al solco del giudaismo. La maggioranza si prende gioco degli innovatori; si prende gioco della loro pasqua domenicale e anche del loro digiuno (accompagnato dall'astinenza); essa li tratta da anime «deboli».

Allora l'apostolo Paolo promulga, per la penna di un segretario postumo, l'ordinanza di 14:4-12. In fondo: sta dalla parte dei conservatori, e riconosce che gli innovatori sono «deboli»Ma vuole soprattutto che la pace regni nella comunità. Decide che ciascuno è libero di fare come ben gli sembra. Soltanto si deve smetterla di sospettarsi a vicenda, di condannarsi, di insultarsi.

Quindici o vent’anni più tardi la situazione è cambiata. La domenica di Pasqua ha trionfato sul 14 nisan (siamo sempre a Roma). L'autorità ha rotto completamente con l'osservanza giudaica, come lo prova la risposta di Aniceto a Policarpo. Il successo del digiuno è stato meno completo. Senza dubbio la maggioranza dei fedeli si è adeguata a poco a poco a quella istituzione. Ma alcuni conservatori, con il pretesto che tutti i cibi sono ugualmente puri davanti a Dio, rifiutano di sottomettersi alla nuova usanza.

Allora l'apostolo Paolo pubblica una nuova ordinanza (14:13-15:7). Anche questa volta la pensa in fondo come i conservatori. Come loro, è convinto che tutti i cibi si equivalgano davanti a Dio. Ma ora che il digiuno (con astinenza) è praticato dalla maggioranza dei fedeli, il loro atteggiamento separatista è una causa di turbamento in seguito all'irritazione che provoca. Essi possono perfino indurre alcuni membri della maggioranza a imitare il loro esempio. Ma i deboli, agendo contro la loro coscienza, peccheranno. Allora, in nome della pace, in nome del bene delle anime, i conservatori si conformino alla maggioranza!

I due oracoli portano il marchio del capo della comunità ansioso di mantenere l'ordine e la pace nel suo gregge. Se assegniamo loro un'origine romana, diremo che sono stati scritti l'uno e l'altro, a una ventina d'anni di distanza, da un vescovo di Roma oppure con la sua connivenza. [4]

La riforma pasquale è nata al di fuori di questi oracoli, si è sviluppata senza di essi; essi la hanno solo incanalata per impedirle di seminare rovine attorno a sé.  

Per conoscere l'opera dei riformatori bisognerebbe sapere cos'era la pasqua cristiana prima della riforma pasquale. Lo sappiamo? Abbiamo qualche mezzo per informarci? Esaminiamo la lettera di Policrate a Vittore così come il testo di 1 Corinzi 5:7-8. Forse otterremo alcuni indizi.  

Policrate dice (Eusebio, 5:24, 2 e 6): «Noi celebriamo il giorno scrupolosamente, non aggiungendo nulla, non togliendo nulla... sempre i miei genitori hanno celebrato il giorno in cui il popolo toglieva il lievito». E si legge in 1 Corinzi 5:7-8: «Gli azzimi siete voi. Infatti il nostro agnello pasquale, che è stato immolato, è il Cristo. Dunque celebriamo la festa, non con il lievito vecchio, né con il lievito della malizia e della perversità, ma con gli azzimi della purezza e della verità».

Policrate si gloria di celebrare il «giorno», vale a dire il giorno che la tradizione ha fissato per la celebrazione della pasqua, il «quattordicesimo giorno», come dice più oltre. Si gloria di celebrarlo «senza aggiungervi nulla, senza toglierne nulla». A cosa fa allusione con queste parole? Ciò che non aggiunge è probabilmente il digiuno (accompagnato dall'astinenza) che i riformatori avevano istituito. Ciò che non toglie, o almeno una delle cose che non toglie, è sicuramente l'uso del pane azzimo; infatti dichiara di celebrare la pasqua nel giorno in cui il popolo rinuncerà al pane fermentato. Quindi secondo lui, tra gli Orientali che sono d'accordo con lui, la pasqua cristiana che è celebrata il 14 nisan comporta l'astensione dal pane fermentato e l'uso degli azzimi. E quella pasqua è la pasqua cristiana tradizionale, quella che i maggiori vescovi dell'Asia hanno sempre celebrato, quella che Policrate è deciso a mantenere a dispetto dei riformatori che vogliono sopprimerla.

Ma la Pasqua ebraica era a sua volta celebrata il 14 nisan; comportava anche l'uso dei pani azzimi sostituiti al pane fermentato che era proibito. Da ciò consegue che la pasqua cristiana primitiva concordava almeno su due punti con la pasqua ebraica: aveva la stessa data, e anche la stessa preoccupazione di evitare il pane fermentato.

Ecco ciò che ci insegna Policrate. Interroghiamo ora il testo di 1 Corinzi 15:7-8. Esso non viene dal partito conservatore. È al contrario la risposta che danno loro i riformatori. Per ben comprenderlo, occorre completarlo con le obiezioni alle quali risponde.

«Durante la pasqua dobbiamo mangiare solo azzimi; questa è la tradizione da cui non ci è permesso deviare». — «Gli azzimi sono i cristiani, siete voi». — «Dobbiamo sgozzare e mangiare l’agnello pasquale». — «Il nostro agnello pasquale per noi cristiani è il Cristo. Smettete quindi di sgozzare un agnello e di mangiarlo come fanno gli ebrei. Commemorate l'immolazione del Cristo: ecco in cosa consiste, per i cristiani, il rito dell'agnello pasquale». — «Non solo non dobbiamo mangiare pane fermentato durante la pasqua; ma non dobbiamo nemmeno tenere presso di noi il vecchio lievito»«D'accordo. Scartiamo il vecchio lievito. Ma il vecchio lievito è il lievito dell'iniquità. Celebriamo la festività con gli azzimi della purezza».

Osserviamo in questo dialogo la presenza dell'agnello pasquale. I conservatori probabilmente portavano il testo dell'Esodo 12:21. La loro obiezione era questa: «È Dio stesso che ha prescritto di immolare e di mangiare l'agnello pasquale, poiché è scritto nell' Esodo (testo della LXX) «Immolate l’agnello pasquale». Al che i riformatori rispondevano con lo stesso testo dell'Esodo, leggermente modificato (sostituzione dell'aoristo all'imperativo): «L'agnello pasquale è stato immolato» (è quella risposta che ci autorizza a pensare che gli avversari adducessero l'Esodo). Soltanto, essi spiegavano che l'agnello pasquale dei cristiani, il nostro, fosse il Cristo, e che questo agnello, essendo già stato immolato, non avesse bisogno di essere immolato di nuovo.

Ma per il momento ciò che ci interessa non è tanto la risposta quanto l’obiezione. Essa prova che i conservatori immolavano, alla sera del 14 nisan, l'agnello pasquale e lo mangiavano in seguito. Era senza dubbio all'agnello pasquale a cui pensava soprattutto Policrate quando dichiarava di non voler «togliere nulla» del «giorno». E siccome il rito dell'agnello pasquale era alla base della pasqua ebraica, si deve concludere che la pasqua cristiana primitiva fosse in tutto conforme alla pasqua ebraica.

Quella pasqua arcaica restò in vigore in Asia per tutto il secondo secolo; non si sa quando scomparve. A Roma i riformatori riuscirono ad abolirla intorno al 150; il digiuno, con le difficoltà che incontrò, fu una questione accessoria.

Chi erano questi riformatori? Siamo in grado di apprezzare la loro opera, ora che conosciamo la pasqua cristiana primitiva. Il risultato della loro riforma è stato di espellere dalla Chiesa il rito giudaico che essa aveva conservato fino al momento del loro intervento. Prima di loro la pasqua cristiana era semplicemente la pasqua ebraica. Dopo di loro essa è stata altra cosa, ha avuto un altro carattere. Ecco il risultato. È stato cercato? È stato voluto? Chi potrebbe credere il contrario? Chi crederà che degli uomini abbiano tagliato i legami ebraici della Chiesa senza sapere ciò che facevano? Diciamo dunque che i riformatori della pasqua cristiana hanno agito con cognizione di causa. Nella loro impresa di degiudaizzazione sono stati guidati da un motivo che non ha potuto essere altro che l'odio. Questi distruttori della pasqua giudeo-cristiana sono stati nemici del giudaismo.

D'altra parte, essi praticavano l'ascetismo, la mortificazione, poiché sono loro che, nello stesso tempo in cui hanno fondato la pasqua cristiana, vi hanno imposto un digiuno preparatorio. Non si tratta più per noi che di trovare nella prima metà del secondo secolo degli uomini che erano stati nel contempo nemici del giudaismo e asceti.

Questi uomini noi li conosciamo da molto tempo: sono i marcioniti. La riforma pasquale è opera della scuola marcionita. Essa ha fatto il suo ingresso nella Chiesa romana prima della condanna di Marcione, vale a dire prima del 144. Le due dissertazioni di 14-15:7 hanno trattato i problemi che quella riforma sollevò nella Chiesa romana; esse non hanno alcun rapporto con le lotte che gli Orientali dovettero più tardi sostenere su questo argomento contro Roma.


NOTE

[1] 14:19. Credo che il verbo debba essere messo all'imperativo come si legge nella Vulgata; ma l'indicativo che molti moderni adottano dà lo stesso risultato.

[2] Intorno al 155 Policarpo trovò in vigore a Roma l'usanza della domenica pasquale.

[3] Tra cinquant'anni, quando Policrate scriverà la sua lettera a Vittore (si veda più oltre), dirà che lui e gli Orientali restano attaccati al giorno tradizionale, vale a dire al 14 nisan; in quell'epoca la riforma del 440 sarà trionfante. Gli Orientali diventati la minoranza saranno nella situazione in cui erano gli innovatori intorno al 140.

[4] Nulla impedisce di ammettere che sia lo stesso vescovo, a una ventina anni di distanza, ad aver promulgato o lasciato promulgare, sotto il nome di Paolo, due misure legislative che le circostanze gli sembravano richiedere; in questo caso si dovrebbe pensare ad Aniceto.

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