sabato 27 gennaio 2024

Gli scritti di San Paolo — LA SECONDA EPISTOLA AI CORINZI (INTRODUZIONE)

Il Dio di Coincidenza
Può qualcuno negare che

Una cosa dopo l'altra

In sequenza e logica

Mai vista prima

Non può essere che la

Interferenza di un Dio

Determinata a provare che

Ognuno che pretende

Di conoscere ora

Una cospirazione è

Demente?
(Kent Murphy)


Un Credo Marcionita

Credo in due soli dèi,

il funesto Demiurgo

creatore del cielo e della terra,

di tutte le cose materiali

e nel Dio di Gesù Cresto,

inviato dall'unico Vero Dio,

creato dal Padre prima di tutti i secoli,

creato ma non generato

nello stesso spirito del Padre.

Per mezzo di lui è stata manifestata tutta la verità

Per noi creature e per la nostra salvezza

discese dal cielo come un uomo (già adulto)

Il suo corpo fu crocifisso sotto Ponzio Pilato;

il suo corpo soffrì e fu sepolto, ma il suo spirito non soffrì.

Egli svanì in cielo

e siede alla destra del Padre.

Verrà di nuovo nella gloria

per radunare gli eletti

E il suo regno non avrà fine.

Parlò attraverso il suo Paraclito 

Marcione

Credo in un'unica vera chiesa. 

 

L'intento di Joseph Turmel, nel voler denunciare l'origine postuma della mistica attribuita a Paolo l'apostolo (che comporta rimandare l'interpolazione di un buon 80-90% delle cosiddette “lettere” nel secondo secolo), è sorprendentemente simile a quello così sinceramente espresso da un suo precursore nella sua critica radicale delle epistole paoline: Willem Christiaan van Manen.

Così Van Eysinga lo colse nel segno:

[Van Manen] era in fondo un uomo di carattere conservatore, e solo con grande riluttanza si trovò costretto ad abbandonare il Paolo consacrato dalla tradizione. Ma quando, come uomo di scienza, ebbe fatto questo sacrificio alle sue convinzioni, la sua fede in un Gesù storico ricevette una nuova forza; ora finalmente l'esistenza di Gesù era diventata probabile. Se le lettere furono scritte un secolo dopo il tempo in cui visse Gesù, allora la sua divinizzazione nelle lettere paoline cessa di essere così sorprendente. Sembra quindi che Drews non abbia commesso un errore così grande quando utilizzò la genuinità delle lettere paoline come argomentazione contro la storicità di Gesù. 

(G. A. van den Bergh van Eysinga, Radical views about the New Testament, pag. 101-102)

In qualche modo, l'illusione comune ad entrambi questi due pur grandi studiosi storicisti è aver creduto, aver sperato, che un Paolo storico, reso in qualche modo “più razionale” previa spoliazione della mistica dalle se lettere autentiche, cessasse automaticamente, mediante questa fredda operazione chirurgica di critica radicale, di posare da testimone di un Gesù puro mito, giacché una tale rapida e prodigiosa mistica nel nome del Paolo storico, combinata all'assenza abissale di qualsivoglia riferimento al Gesù storico — e il tutto a pochi mesi dalla sua presunta morte — deporrebbe inesorabilmente contro la storicità di Gesù, l'esatta conclusione che la fede storicista di Van Manen e di Joseph Turmel avrebbe invano cercato di scongiurare.

Perché “invano”? Perché al “medico” (Turmel) che, trasferendo nel secondo secolo tutta l'evidenza dell'origine mistico-allucinatoria del cristianesimo, ha cercato di difendere la sanità mentale di Paolo e dei primi cristiani dall'accusa di essere in sostanza degli allucinatori a tutto tondo, il miticista potrebbe ben replicare:

Medico, cura te stesso!

Infatti, su quale base è costretto, perfino Van Manen, perfino Joseph Turmel, a fondare la storicità di Gesù, appurato che le lettere sono oramai fuori dai giochi? L'errore di Turmel è quello di credere che la divinizzazione di Gesù sia solo un'innovazione apportata dalle “lettere”, un problema cioè di esclusiva pertinenza delle epistole. Sfortunatamente per il suo caso, anche i vangeli non sono da meno quanto a proclamazione della divinità intrinseca del protagonista principale del dramma. Ciò lo si vede ancor più chiaramente quando si guarda la soluzione migliore, a mia conoscenza, del cosiddetto Problema Sinottico:

Il Gesù di carta più antico è un Gesù disceso dal cielo già adulto. Come di grazia si può anche solo contemplare la possibilità di una figura storica dietro un tale Gesù fantasma, Gesù spettro, Gesù angelo, se ad ogni fattoide evangelico successivo a tale discesa dall'alto, per quanto “realistico”, affiora di nuovo e ancora di nuovo il semplice sospetto che il protagonista sia sempre e solo quell'angelo, quel fantasma, quello spettro, disceso dal cielo?

Perfino peggio: il Gesù di carta più antico (in *Ev) non è battezzato, non è crocifisso (se non in apparenza). Come di grazia si possono ritenere battesimo e crocifissione due eventi storici, reali? Tolti quelli, un Gesù storico è tolto anch'egli di mezzo, e definitivamente.

Così pure il cerchio è definitivamente chiuso: avevo cominciato a dubitare dell'esistenza storica di Gesù per via delle epistole, sotto la falsa assunzione che fossero autentiche: troppa rapida ed esagerata divinizzazione per un semplice uomo. Come Patrick Süskind ha scritto a proposito di Gesù: 

“Ma non pretendiamo troppo da lui. Forse era soltanto un dio”.  

Poi però, vedendo chiaramente, grazie a Turmel, che le epistole meritano di essere rigettate tutte quante, o la maggior porzione di esse (i distinguo sono troppo sottili per poterci costruire sopra un'argomentazione che non sia una mera congettura), nel secondo secolo, in piena invasione marcionita, per qualche tempo mi sono ricreduto e ho pensato: non avrà forse ragione Turmel ad essere storicista, se solo l'ologramma di (brandelli di) carta chiamato “Paolo” costituisse tutto lì il “problema”?  

Ebbene, così non è. Il Vangelo Più Antico (*Ev) soffre dello stesso problema delle epistole, ma non per ciò che dice, ma per ciò che non dice. Non dice di nessun battesimo. Non dice di nessuna morte reale sulla croce. Non dice la storia di un uomo, di una figura storica, ma racconta la vicenda passeggera di un dio.

Gesù era soltanto un dio, dopotutto.

E gli dèi, tendenzialmente, non esistono.


GLI SCRITTI DI SAN PAOLO
III
LA SECONDA EPISTOLA
AI 
CORINZI
LE EPISTOLE AI GALATI, AI COLOSSESI,
AGLI EFESINI, A FILEMONE
traduzione nuova con introduzione e note
di
JOSEPH TURMEL

INTRODUZIONE

SECONDA EPISTOLA AI CORINZI 

La seconda epistola ai Corinzi contiene in realtà due lettere distinte.
La prima è stata scritta in un'epoca in cui Paolo era andato a Corinto solo una volta, aveva preso l'impegno di ritornarvi, ma aveva rinviato il suo progetto. Questo è ciò che emerge dal testo seguente (1:15): 
Volevo dapprima andare da voi, affinché voi abbiate una seconda grazia.
I Corinzi hanno ricevuto una prima grazia, la quale è consistita nel primo viaggio dell'apostolo a Corinto. Il secondo viaggio, se avesse avuto luogo, avrebbe costituito la seconda grazia. E, quella seconda grazia, Paolo volle concederla «dapprima», vale a dire prima di certi avvenimenti di cui parla la lettera. Ma questo progetto ostacolato dai suddetti eventi non è ancora stato messo in esecuzione. 
Quella prima lettera si estende sui capitoli 1-12 ed è stata scritta circa un anno dopo la prima epistola. Infatti, secondo 8:10, i Corinzi hanno, da un anno, l'intenzione di inviare del denaro ai poveri di Gerusalemme. Ma è la prima epistola 16:1 che ha comunicato loro il progetto di una colletta. La nostra lettera risale quindi all'anno 56. 
La seconda lettera appartiene a un'epoca in cui Paolo aveva appena compiuto un secondo viaggio a Corinto e si apprestava a ritornarvi una terza volta, come provano questi due testi: [1
12:14. Eccomi che mi preparo per andare da voi per la terza volta. 
13:1. Per la terza volta verrò da voi... Quando ero da voi per la seconda volta ho detto, e ora che io sono assente lo ridico... 
Essa risale agli anni 57 o 58. Si estende sugli ultimi quattro capitoli 10-13.

PRIMA LETTERA 1-9

CONTENUTO
Quella lettera è dominata dalle due vicende dell'incestuoso e della colletta per i «santi» di Gerusalemme. 
Nella sua prima epistola Paolo, che prescriveva ai cristiani di Corinto di escludere dalle loro assemblee l'incestuoso, rimproverava loro allo stesso tempo la loro indulgenza colpevole nei confronti di questo triste personaggio. Ma egli ha appreso in seguito che i suoi rimproveri avevano prodotto un'impressione notevole tra i destinatari. La presente lettera ci espone i mezzi che l'apostolo ha impiegato per calmare quella emozione e per liquidare l'affare dell'incestuoso.
Essa ci parla a lungo della colletta di cui Paolo desiderava ardentemente il successo. Leggendola si intravvede che, sotto apparenze filantropiche, la colletta aveva per malcelato scopo l'interesse, e che Paolo, portando del denaro ai poveri di Gerusalemme, si proponeva prima di tutto di disarmare l'odio di cui era oggetto da parte degli ebrei. 
I due affari dell'incestuoso e della colletta, così diversi l'uno dall'altro, hanno, per effetto delle circostanze, reagito l'uno sull'altro. Paolo che, alla data della sua prima epistola, contava di ritornare prossimamente tra i Corinzi, che aveva loro persino annunciato la sua visita (1 Corinzi 16:5-9), ha rinunciato al suo progetto quando ha appreso il turbamento nel quale i suoi rimproveri avevano gettato i cristiani di Corinto. Non ha voluto esporsi ad un'accoglienza segnata da malcontento o addirittura da ostilità. Ma, d'altra parte, egli ha previsto che questi incidenti avrebbero compromesso il successo della colletta che gli stava tanto a cuore, e ha avvertito al fine di  scongiurare quella catastrofe. Ciò che ha fatto per questo lo apprendiamo dalla nostra lettera di cui è tempo di prendere conoscenza.

1. Seguito della vicenda dell'incestuoso. 
La lettera esordisce (1:8-11) con la menzione rapida di un evento nel quale l'apostolo ha quasi mancato di trovare la morte (senza dubbio l'incidente raccontato negli Atti 19:23-40). Dopo quell'allusione Paolo si impegna in una lunga difesa dove la sua apologia personale è associata alle promesse di Dio. Essendo imbarazzanti, artificiose e soprattutto elusive le spiegazioni che fornisce, devono essere corrette e completate. Ecco ciò che si era verificato.
Quando ebbe appreso — probabilmente a Troade dove si recò dopo la sua partenza da Efeso — il turbamento che la sua lettera aveva causato tra i Corinzi, l'apostolo non osò recarsi lui stesso a Corinto. Ma inviò al suo posto Tito con la missione di ammansire i Corinzi con buone parole, salvare la colletta dal naufragio che minacciava di inghiottirla, e ritornare il più presto possibile a Troade per dargli notizie. Tito fece attendere il suo ritorno. Impaziente di avere delle informazioni Paolo prese la decisione di recarsi lui stesso all'incontro del suo delegato e di passare sulla costa europea. Finisce per rivedere Tito a Neapolis dove approdavano coloro che venivano dall'Asia in Europa, o a Nicopoli, città vicina nella quale, come si sa altrimenti (Timoteo 3:12), l'apostolo ha soggiornato. Le informazioni fornite da Tito si riducono a questo: i Corinzi non avevano testimoniato immediatamente alcun entusiasmo per la colletta; si erano rassegnati a pronunciare contro l'incestuoso l'esclusione che era loro richiesta, ma quella misura era apparsa loro eccessiva e l'avevano eseguita solo a malincuore. Erano anche stati insoddisfatti nell'apprendere che Paolo, che aveva promesso di ritornare, mancasse alla sua parola, e la loro insoddisfazione si era espressa in osservazioni di questo tipo: «Quando Paolo dice sì, è no che bisogna credere; applichiamo questo principio a tutto ciò che ha raccontato riguardo alle promesse che Dio ci ha fatto e che il Cristo deve realizzare. Ha detto di sì; crediamo che sia no»
Queste riflessioni irriverenti colpivano l'apostolo nella sua persona. Lo colpivano anche nella fede di cui era il predicatore. Andando innanzitutto a ciò che è più urgente Paolo comincia col prendere difesa della fede. Egli dice quindi (20): 
Tutte le promesse di Dio [che vi ho comunicato] sono sì nel Cristo [saranno realizzate dal Cristo] e da lui l'amen [il sì, vale a dire l'adempimento delle promesse] è pronunciato per noi alla gloria di Dio
Paolo non ci dice cosa siano queste «promesse» che Dio ha fatto e che devono essere realizzate dal Cristo. Ma la spiegazione che fa qui difetto si trova nei testi di Galati 3:16, 18, Romani 4:13, dove apprendiamo che il Cristo è venuto per realizzare le promesse fatte da Dio ad Abramo. [2]
Dopo aver difeso l'onore di Dio e riaffermato nell'animo dei Corinzi la fede nelle promesse, Paolo si occupa del proprio onore e fa l'apologia della sua condotta (1:23-11, 13). Dice quindi ai Corinzi che non è andato a vederli per non essere costretto a infierire, e anche per non far loro mostra della tristezza di cui era ricolmo, dato che ha scritto la sua lettera con un cuore pesante e gli occhi pieni di lacrime. Regola in seguito la situazione dell'incestuoso: «Non è me soltanto», dice in sostanza, «che quest'uomo ha afflitto; è a voi tutti che ha causato dolore, un dolore che, è vero, è stato moderato. Tutti voi lo avete punito. La punizione che gli avete inflitto è sufficiente. Prolungata di più potrebbe gettarlo nella disperazione. Il nemico, vale a dire l'ebreo, è lì che brama la sua preda. Conosciamo i suoi pensieri: contrastiamoli. Non lasciate che l'incestuoso ritorni al giudaismo; dategli accesso alle vostre riunioni»
Qui Paolo dichiara ai Corinzi, non senza qualche esuberanza, che è animato da un immenso affetto per loro e chiede di essere contraccambiato (6:11-13; 7:2-3). Constata con tristezza che finora non è amato come egli ama (6:12). Così si è sorpresi di sentirlo in seguito, in 7:7, parlarci dell'affetto profondo che i Corinzi avevano per lui. E la fiducia illimitata che testimonia ai Corinzi (7:16) non attenua la nostra sorpresa. Le rumorose dimostrazioni di 7:7, 16 mal si accordano con 6:13 e 7:2. Come spiegare la loro presenza qui? Col capitolo 9 (8 non esisteva primitivamente) di cui mi resta di parlare ora e che fa riferimento alla colletta, Paolo va a bussare alla cassa dei Corinzi;  va a domandare loro del denaro. Quell'operazione delicata è una di quelle che necessitano di essere preparate con sapienti approcci. La migliore preparazione in questi casi è l'ottimismo. Paolo adotta un ottimismo di comodo senza preoccuparsi di mettersi d'accordo con sé stesso. L'importante è avere del denaro.

2. La colletta
L'epistola, come la leggiamo oggi, contiene due richieste di denaro, di cui ciascuna possiede il suo ingresso in materia e la sua conclusione. Una occupa tutto il capitolo 8, l'altra si trova nel capitolo 9. Queste due richieste nettamente distinte non sono state nella stessa epoca. Questo è il risultato al quale si arriva confrontando 8:1-5 con 9:2. Il testo 8:1-5 ci informa che il contributo alla colletta è un fatto compiuto nelle chiese di Macedonia (vale a dire di Tessalonica e di Filippi). I cristiani di questo paese «hanno donato volontariamente secondo i loro mezzi e persino al di là dei loro mezzi». In 9:2 Paolo predica la colletta ai cristiani della Macedonia. Per stimolare la loro generosità, dice loro le
speranze che ripone sulla chiesa di Corinto. In altri termini in 8 la raccolta è fatta in Macedonia; in 9 assistiamo alle semine. Concludiamo che la dissertazione di 9 ha preceduto logicamente quella di 8. Quest'ultima fu portata a Corinto ad una data successiva da Tito che vi è menzionato; la prima si integra con la lettera. Prendiamo rapidamente conoscenza di questi due brani. 
Nel capitolo 9 le considerazioni presentate si riducono a questo: «Io ho fatto il vostro elogio nelle chiese di Macedonia; ho detto che, da un anno, voi siete disposti a sciogliere i cordoni della vostra borsa. Vuoi ci terrete a meritare la reputazione che vi ho fatto; Quando passerò tra voi per raccogliere il denaro, può capitare che io sia accompagnato da alcuni Macedoni. Che onta sarebbe per voi e per me se constatassero che, durante il mio soggiorno tra loro, ho fatto loro della vostra generosità un ritratto inaccurato! Dio vi tratterà come avrete trattato i vostri simili. Egli vi renderà con l'interesse ciò che voi avrete dato con gioia. Farà prosperare i vostri affari. E invece di impoverirvi, le vostre elemosine saranno per voi una fonte di ricchezza. E poi, quando riceveranno le vostre elemosine, i «santi» di Gerusalemme benediranno Dio per il fatto che voi siete stati chiamati alla fede» (Paolo, non aggiunge che i cosiddetti «santi» benediranno anche lo strumento di cui Dio si è servito per portare alla fede i Corinzi, e che l'odio con cui essi hanno perseguitato finora questo strumento scomparirà). 
Quella richiesta, nello stesso tempo della lettera di cui costituisce parte integrante, fu portata a destinazione dai «fratelli» (3 e 5), vale a dire da due o tre dei compagni che Paolo aveva al suo fianco. Questi «fratelli» ritornarono presto con cattive notizie. I Corinzi non avevano voluto promettere nulla e avevano basato il loro rifiuto sui motivi o pretesti seguenti: «Paolo ci dà ordini (9:7: «Ciascuno dia come ha deciso»); non lo vogliamo. E poi ridurci in miseria per arricchire i poveracci di Gerusalemme è un'operazione che non condividiamo». Quando questi insegnamenti faziosi lo raggiunsero, Paolo, che si trovava o a Filippi o a Tessalonica, era intento a raccogliere le elemosine dei cristiani della Macedonia. Completato il suo lavoro egli ritornò alla carica presso i Corinzi e inviò loro, tramite mediazione di Tito, una seconda sollecitazione, quella che è stata inserita nel capitolo 8. Questa nota è probabilmente posteriore alla lettera solo di pochi mesi. [3] Dopo avere portato alla conoscenza dei Corinzi la generosità di cui i Macedoni hanno fatto prova, Paolo domanda loro, loro che eccellono in tutto, di eccellere anche nel campo della beneficenza. Poi risponde alle obiezioni che gli sono state mosse al suo primo approccio. Gli si è rimproverato di imporre la sua volontà. Egli dice (8): «Non parlo a mo' di comando; ma vi segnalo la premura degli altri per permettervi di manifestare la vostra; (10) e vi do' un parere in merito. Ciò vi è utile a voi che non solo avete cominciato ad agire (questa parola sembra indicare che i «fratelli» hanno riportato qualche elemosina peraltro magrissima) ma che, dall'ultimo anno (ossia l'anno scorso), avete avuto la volontà di donare». Lo si è rimproverato di voler spogliare i cristiani della Macedonia e dell'Acaia per arricchire i poveri di Gerusalemme. Lui risponde in sostanza (13-14): «Non voglio affatto ridurvi in miseria. Vi chiedo di provvedere alla loro miseria col vostro superfluo affinché, se l'occasione si presenta un giorno, essi, a loro volta, rimedieranno col loro superfluo alla vostra miseria». Nella lettera Paolo contava di recarsi lui stesso a Corinto per raccogliere il denaro (9:4). Nella sua nota egli ha rinunciato al suo progetto, perché fa della probità di Tito e dei suoi compagni (8:18-23) un elogio che ha senso solo se questi inviati hanno ricevuto essi stessi la missione di prendere le elemosine.

NOTE
[1] Si può vedere in Estio, in 13:2, gli espedienti ai quali sono obbligati a ricorrere coloro che, come lui, pensano che questi testi non presuppongano due viaggi già compiuti.
[2] Si veda l'Epître aux Romains, pag. 13.
[3] L'espressione apo pérusi di 9:2 e di 8:10 si riferisce all'epoca  in cui i Corinzi ricevettero la prima epistola che (16:1) parlò loro della colletta.

1 commento:

Giuseppe Ferri ha detto...

Per il commentario del Quarto Vangelo da parte di Joseph Turmel, si veda qui.

Per il commentario, ad opera dello stesso Joseph Turmel, dell'epistola ai Romani, si veda qui.

Per il commentario, ad opera dello stesso Joseph Turmel, della prima epistola ai Corinzi, si veda qui.