domenica 28 gennaio 2024

Gli scritti di San Paolo — LA SECONDA EPISTOLA AI CORINZI (SUPPLEMENTI)

 (segue da qui)

SUPPLEMENTI 

La lettera di cui si è appena letta l'analisi ha ricevuto vari supplementi con i quali ora dobbiamo fare conoscenza.

Il primo supplemento consiste di una lunga dissertazione che va da 2:14 a 6:10. Contiene un intero trattato di teologia che non ha alcun legame con la vicenda dell'incestuoso ma che la taglia. Gettata come un blocco irregolare nel mezzo dell'apologia di Paolo, che disloca, essa fa francamente figura di introduzione. Ecco i pensieri principali che vi si riscontrano. 

1. La parola di Dio alterata dal maggior numero.

In 2:14-17 Paolo e i suoi compagni si presentano a noi come predicatori della parola di Dio. La predicano «in ogni luogo»; la predicano in tutta la sua purezza e senza alcuna alterazione. Ovunque vadano diffondono come un profumo la conoscenza di Dio. Dico «di Dio». Senza dubbio sono essi stessi il profumo del Cristo e quel profumo lo diffondono intorno a loro. Ma quel profumo del Cristo che propagano glorifica Dio e, in fin dei conti, la conoscenza del Cristo ha per termine la conoscenza di Dio. Ma Paolo e i suoi compagni, che però vanno «in ogni luogo», sono solo una piccola minoranza nell'esercito dei predicatori del vangelo. Di questi predicatori la grande maggioranza altera la parola di Dio e non fanno conoscere né Dio né il Cristo. 

Ecco due osservazioni. Principalmente Paolo, tranne che ad Atene, ha predicato il vangelo agli ebrei di origine o di istruzione che conoscevano già Dio. Paolo non ha affatto preteso di iniziarli alla conoscenza di Dio, ma ha detto loro che la promessa fatta da Dio ad Abramo sarebbe stata realizzata dal Cristo. Secondariamente questi predicatori che, rispetto al gruppo di Paolo, sono una larga maggioranza e che alterano la parola di Dio, vale a dire che non fanno conoscere né Dio né  il Cristo, non sono esistiti nel corso degli anni 50-62. E si perderebbe il proprio tempo a cercarli lì. Proseguiamo. 

2. Le due alleanze. 

In 3:5-14 compaiono due alleanze, l'antica e la nuova. La nuova alleanza ha per strumento lo spirito divino che si diffonde nelle anime e dà loro la vita. Da cui ne consegue che i ministri di quella alleanza esercitano «il ministero dello spirito» o anche «il ministero della giustizia». L'antica alleanza ha per strumento uno scritto, una «lettera» che, ancora oggi, «è letta» tra gli ebrei. Quella lettera non porta agli uomini che minacce di punizione e di morte. Da ciò consegue che i ministri di quella alleanza esercitano «il ministero della morte» o anche «il ministero della condanna». In due parole, «la lettera uccide ma lo spirito vivifica». Ecco ciò che ci insegna questo brano. 

Ma Paolo conosce la «promessa» e la «legge» (Galati 3:15-18; Romani 13:22). La «promessa» che è stata fatta ad Abramo, che deve essere realizzata dal Cristo, e che ha per oggetto il possesso della terra di Canaan; la «legge» che, venuta quattrocentotrenta anni dopo la promessa, non ha potuto abrogarla. Se aveva conosciuto diverse alleanze, la promessa fatta ad Abramo sarebbe stata per lui l'antica alleanza e avrebbe riservato la parola della nuova alleanza per designare la legge mosaica. Ma le due alleanze gli sono sconosciute. E, se si serve una volta della parola «testamento» (Galati 3:17),  è per assimilare la «promessa» ad un testamento la cui clausola irrevocabile non ha potuto essere spezzata dalla «legge». Egli ignora le due alleanze. A maggior ragione ignora l'alleanza della lettera opposta all'alleanza dello spirito. La teologia che si esprime qui è estranea all'orizzonte di Paolo. In compenso essa è strettamente affine ai due oracoli di Galati 3:19 e Romani 5:20 che ci insegnano che la legge è stata data per moltiplicare i peccati. Ma questi oracoli sono di origine marcionita. [1]

3. Il Dio di questo secolo

Il brano 3:17-4:6 ci mostra la conoscenza di Dio sotto il simbolo di una luce che Paolo e i suoi compagni hanno ricevuto e che riflettono predicando «il vangelo della gloria del Cristo che è l'immagine di Dio». Quella luce raggiunge tutte le anime che non sono accecate. Ma ci sono anime che «il Dio di questo secolo» ha colpito con la cecità.

Chi è «il Dio di questo secolo»? È, si dice, una creatura angelica rivoltatasi contro Dio, a cui deve l'esistenza. Si conviene, del resto, che l'esistenza di questo ribelle non era nemmeno sospettata dai pagani. Ma allora una domanda si pone. Come ha potuto essere «il Dio di questo secolo», vale a dire almeno il Dio dei pagani? Per adorare un dio, per rendergli un culto la prima condizione richiesta era credere alla sua esistenza. Artemide era adorata ad Efeso, Demetra ad Eleusi, Iside e Mitra avevano un po' dappertutto devoti. Ma l'angelo rivoltatosi contro Dio dove si poteva adorarlo se non era conosciuto da nessuna parte? Si dirà che questo angelo si trovava ad essere l'unico beneficiario degli omaggi rivolti alle divinità più o meno mitiche del pantheon pagano? Se ne beneficiava, ciò era in ogni caso all'insaputa dei pagani? La loro intenzione invece non era adorare una creatura rivoltatasi contro il suo creatore; quella creatura non era il loro dio. E la conclusione negativa ma perentoria alla quale arriviamo è che il «Dio di questo secolo» che acceca la mente degli infedeli non può essere l'angelo ribelle al quale la teologia cristiana dà il nome di diavolo. 

Chi è? Vediamo cosa fa. Acceca certi uomini. Ma in Isaia 6:10, 29:14, Dio acceca gli ebrei di cui ha da lamentarsi; li priva della saggezza. E, nell'Esodo 4:21, 7:3, ecc., Dio indurì il cuore del Faraone. Il «Dio di questo secolo» esercita le stesse operazioni del Dio dell'Antico testamento. Finora non abbiamo potuto identificare questo personaggio; la sua identità è ormai stabilita. Il «Dio di questo secolo» è il Dio che ha creato il mondo, che ne è il padrone assoluto, che ne è il Dio con tutta la pienezza di significato che questa parola comporta. Ma questo Dio creatore si sforza di «perdere» gli uomini e, per procurare la loro perdita, vela loro il vangelo della gloria del Cristo; egli è il nemico del Cristo, il nemico del Dio di cui il Cristo è immagine. Il nostro testo, con tutto ciò che lo circonda, contiene una professione di fede nella teologia dualista. [2] E tutte le cancellature a cui teologi e commentatori si sono abbandonati per nascondere quella professione di fede sono vane. Notiamo in conclusione che gli «increduli» di cui il Dio di questo secolo acceca lo spirito non sono i pagani, ma i cattolici che adorano il Dio creatore, che non credono né al Cristo-Spirito, di 3:17, né al Dio di cui questo Cristo è l'immagine. 

4. Noi gemiamo in quella tenda

Secondo 4:16-5:8 vi è in ciascuno di noi l'uomo esteriore, che è il corpo, e l'uomo interiore, che è l'anima. Il corpo, il nostro domicilio terreno, è per noi una tenda che ci appesantisce (reminiscenza di Sapienza 9:15). Noi gemiamo in quella tenda e agogniamo che l'elemento mortale sia assorbito dalla vita. Lo agogniamo tanto più perché il corpo ci tiene lontani dal Signore. Noi desideriamo quindi uscire dal corpo. Allora avremo una nuova dimora che non sarà altro che il cielo e saremo con Dio. Ecco ciò che ci insegna questo brano quando se ne ha sottratto i versetti 2, 3 e 4b. Esso respinge la resurrezione e invia l'anima in cielo nella compagnia del Signore immediatamente dopo la morte. Esso presenta il cristiano che aspira a uscire dalla prigione del corpo per essere con Dio. 

Ma 2, 3 e 4b ci fanno intendere un'altra nota. Secondo loro, ciò che il cristiano desidera è rivestire il corpo della resurrezione al di sopra del proprio corpo attuale senza passare per la morte. I suoi gemiti provengono dal fatto che questo privilegio sarà riservato a coloro soli che, al momento della parusia, saranno ancora rivestiti del proprio corpo. I versetti 2, 3 e 4b sono ritocchi cattolici introdotti in una versione marcionita e destinati a neutralizzarla. A questi ritocchi va aggiunto 5 che menziona «il pegno dello Spirito»; si veda 1:22. Il tutto è un assemblaggio incoerente nel quale teologi e critici si sono irrimediabilmente impantanati. I critici hanno detto che Paolo, quando ha scritto ciò, aveva appena fatto conoscenza con la filosofia greca e ne aveva adottato le idee senza però rinunciare alla dottrina rabbinica della resurrezione. Ma la difficoltà è capire come Paolo abbia potuto dire contemporaneamente che il cristiano vuole mantenere il suo corpo e desidera abbandonarlo per essere con Dio. E quella difficoltà non è nemmeno affrontata dalla spiegazione dei critici.

5. Noi non conosciamo più il Cristo secondo la carne

Il brano 5:14-21 è un riassunto della dissertazione che abbiamo incontrato nell'Epistola ai Romani 4:25-8:19, [3] e va illuminato da essa. Ecco ciò che vuol dire. Il Creatore si è ingegnato a far peccare gli uomini per poter in seguito, in tutta giustizia, farli morire e punirli nell'inferno. Ma il Dio buono ha avuto pietà di noi. Invece di imputarci i nostri peccati, ha deciso di riconciliarci con lui e di fare di noi i suoi figli. Ciò sarebbe stato possibile solo se fossimo stati precedentemente sottratti all'impero del Creatore e, di conseguenza, la prima operazione da compiere era di liberarci dal giogo del nostro tiranno. Per ottenere questo risultato, Dio è venuto sulla terra rivestito di un organismo etereo e di una forma umana chiamato il Cristo (19: «Dio era nel Cristo», vale a dire nell'organismo etereo). Il Cristo, non avendo commesso peccato, non era soggetto alla legge della morte che colpisce gli uomini solo perché il corpo è un corpo di peccato, un corpo che produce necessariamente il peccato. Nondimeno Dio non ha voluto esentarlo dalla morte; lo ha trattato come un (corpo di) peccato (21). Si vedrà da subito perché e come quella disposizione ha procurato la nostra salvezza.

Il Cristo è stato messo a morte dai servi del Creatore. Ma il Cristo è il capo di un immenso corpo mistico di cui fanno parte tutti coloro che credono in lui e la cui fede si è manifestata mediante la ricezione del battesimo. Quando il Cristo è stato messo a morte, tutti i suoi membri sono stati messi a morte con lui (più precisamente sono messi a morte quando diventano membri, vale a dire quando ricevono il battesimo). Essi hanno dunque pagato il tributo che dovevano in quanto peccatori alla morte, e il Creatore che ha sfogato la sua collera non può più nulla su di loro; essi sfuggono al suo impero. E si vede ora perché il Cristo è morto, e come la sua morte ha procurato la nostra liberazione. Ma continuiamo. 

Il Cristo che non era tributario della morte, che è morto solo per procurare la nostra salvezza, non è restato in potere della morte. È risorto. Con lui sono risorti tutte le sue membra, vale a dire tutti i cristiani. Essi sono risorti e, finora, tutto ciò che si è compiuto in loro lo è stato per mezzo del Cristo. Il resto è lasciato alla loro attività. Essi non devono più vivere che per il Cristo che è morto per loro (15). Ma vivono per il Cristo solo se vivono la vita di Cristo che, come spirito divino, è in loro, che peraltro è il loro capo e di cui essi sono le membra. E, per vivere la vita del Cristo, non devono vivere secondo la carne. Quella carne è stata uccisa al momento del loro battesimo, non devono lasciarla rivivere (si veda Romani 8:9-10 e 6:3-4). I cristiani non sono più nella carne ma nello spirito. Conformemente a questo principio Paolo non vuole più conoscere nessuno secondo la carne (16). E, senza dubbio, egli ha conosciuto il Cristo secondo la carne. Ma questo accadeva prima della sua conversione. Allora egli fraintendeva completamente sul Cristo, che considerava un re nazionale e a cui attribuiva un corpo carnale. Dalla sua conversione non conosce più il Cristo secondo la carne perché sa che il Cristo non ha avuto un corpo carnale. Ma tutti i suoi compagni, tutti coloro che condividono la sua fede, la pensano come lui: «Se abbiamo conosciuto il Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così». Siamo di fronte ad un Paolo fittizio che predica la fede di Marcione. 

6. Nessun accordo tra il Cristo e Beliar.

La dissertazione che si legge da  6:14 a 7:1 fa riferimento ai matrimoni misti che paragona all'accordo del Cristo con Beliar, vale a dire a una cosa il cui solo pensiero fa rabbrividire. Questo oracolo disloca di nuovo la difesa di Paolo che, interrotto una prima volta in 2:15, aveva ripreso in 6:11-13: esso non è quindi di Paolo. D'altra parte esso non ha lo stesso autore del brano di 1 Corinzi 7:12-16 che ammette in linea di principio i matrimoni misti. La morale rigorista che insegna e il vocabolario che impiega (luce e tenebra) ci invitano ad assegnargli un'origine marcionita. Beliar, qualunque sia l'origine di questo termine, indica il «Dio di questo secolo», vale a dire il Creatore che è rappresentato anche sotto il simbolo delle tenebre. Il coniuge «infedele», al quale il cristiano e la cristiana non devono allearsi, non è un pagano ma un adoratore di Beliar, vale a dire un cattolico. 

I tre testi biblici che sono ritenuti provare che il cristiano è il tempio di Dio e che, in realtà, non provano nulla, poiché non parlano di un tempio, sono aggiunte di origine cattolica. 

7. Il Cristo che era ricco si è fatto povero

In 8:9 diciamo: 

Infatti voi conoscete la buona azione del nostro Signore Gesù Cristo, come per voi egli si sia fatto povero, da ricco che era, affinché voi foste arricchiti dalla sua povertà. 

Egli pone sotto gli occhi dei Corinzi l'esempio mirabile di carità dato dal Signore Gesù che, essendo ricco, si è fatto povero per arricchire gli uomini. Questo esempio è certamente di natura tale da ispirare la carità ai Corinzi. Ma vediamo come è condotto. L'espressione «infatti» che lo introduce lo presenta come utile a spiegare ciò che precede. Ora nel versetto precedente Paolo dice che non intende dare ordini ai Corinzi, ma che segnala loro la generosità dei Macedoni per stimolare la loro emulazione. Quel pensiero non richiede alcuna spiegazione, e il versetto 9 che pretende di spiegarlo o di motivarlo, si arroga un ruolo del tutto inutile. Il versetto 9 non adempie alla funzione che è ritenuto esercitare. In compenso esso separa violentemente le due parti di uno stesso pensiero che è questo: «Non intendo comandarvi, ma io vi segnalo la generosità di cui i Macedoni hanno fatto prova (8) e vi do' un consiglio (10)». Il versetto 9 è un intruso che si è adornato dell'espressione «infatti» per far credere che avesse appena completato e giustificato il pensiero precedente. Il suo vero obiettivo è proclamare la preesistenza del Cristo. Il versetto 2 Corinzi 8:9 è uno dei tre o quattro testi di cui i teologi si servono per provare la preesistenza del Cristo paolino. È sicuro che il Cristo, che «da ricco che era, si è fatto povero» è un Cristo preesistente. Ma questo Cristo è un prodotto marcionita: egli non è paolino. 

NOTE

[1] L'Epître aux Romains, pag. 26.

[2] Ireneo (3:7) leggeva: «Dio ha accecato lo spirito degli increduli di questo secolo» e la sua traduzione che sopprime ogni difficoltà ha avuto per il passato una voga enorme. Ma si è d'accordo oggi a riconoscere che essa è un puro espediente. 

[3] L'Epître aux Romains, pag. 24-37.

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