sabato 20 gennaio 2024

Gli scritti di San Paolo — LA PRIMA EPISTOLA AI CORINZI (I DONI SPIRITUALI)

 (segue da qui)

I DONI SPIRITUALI 

I capitoli 12-14 trattano principalmente dei doni spirituali. 

1. I Glossolali

Il capitolo 14, da 1b a 33, è dedicato ad un fenomeno bizzarro indicato sotto il nome di «parlare in lingue» (o «in lingua») e di cui ecco la caratteristica: colui che parla in lingue non è compreso dagli ascoltatori, e non si può pretendere che pronunci parole distinte (soprattutto 2, 9, 16); egli parla «per mezzo dello Spirito», ma non per mezzo dell'intelligenza (14-15); tuttavia, il «parlare in lingue» è interpretato a volte a posteriori o da un ascoltatore, o anche da colui che l'ha fatto, e allora diventa utile all'assemblea (13, 27, 28). Il fenomeno che è descritto qui e che si chiama oggi «glossolalia» è dovuta all'impatto dell'esaltazione religiosa sul sistema nervoso. Esso è ben noto nella Storia. Molte sette religiose, anche ai nostri giorni, ne hanno dato mostra. Si può dire in generale che la glossolalia si verifica ovunque il sentimento religioso oltrepassa l'intensità media. Allora, come tutti gli incidenti nervosi, si diffonde da persona a persona e si espande per contagio. 

Quella malattia imperversò, intorno al 165, nella provincia di Frigia. Montano e le due donne che lo accompagnavano erano esaltate: ebbero frequenti attacchi di glossolalia. Ciò lo sappiamo dall'Anonimo di Eusebio. Ecco cosa dice di Montano (Historia ecclesiastica, 5, 16, 7, 9). 

Entrando improvvisamente in trasporto e in falsa estasi, egli parlò con entusiasmo, pronunciò parole strane (xénophônéïn) e profetizzò contro il costume introdotto nella Chiesa dalla tradizione... Suscitò altre due donne e le riempì dello spirito impuro, tanto che queste parlarono fuori di senno, in modo inopportuno, in una maniera stravagante come il suddetto Montano.

Nell'estratto che si è appena letto, l'avversario dei montanisti li rimprovera di aver inaugurato un tipo di profezia sconosciuta alla tradizione, la profezia accompagnata da trasporti, da gesti entusiasti, da parole strane, da maniere stravaganti. Un po' più oltre (5, 17, 3) insiste su quella osservazione, e prova che la profezia montanista non ha nulla in comune con la profezia tradizionale: 

Essi non potranno mostrare nulla di simile in alcun profeta, né dell'Antico né del Nuovo Testamento, che fosse ispirato in questo modo dallo Spirito Santo. Si prendano Agabo, Giuda, Sila, le figlie di Filippo, Ammia di Filadelfia, Quadrato o chicchessia, non potranno vantarsi di averli con loro.

Questa difesa prova ai montanisti che le loro profezie, con le stravaganze a cui si abbandonavano, erano fenomeni nuovi, sconosciuti fino ad allora. Ma essa lascia intendere che i montanisti sostenevano la tesi opposta e pretendevano di avere legami con la tradizione. Il dialogo era questo: «Noi abbiamo precursori. — Voi non ne avete, perché i profeti ai quali pretendete di legarvi non avevano nulla in comune con voi». Si può dire d'altronde che essa si imponeva per la forza delle cose. Da una parte e dall'altra si doveva tirare a sé la tradizione. 

Ma in questo dialogo vi è una lacuna sorprendente. Com'è possibile che la dissertazione dell'epistola ai Corinzi sul «parlare in lingue» oppure «per mezzo dello Spirito» non sia utilizzato né per l'attacco né per la difesa? Alcuni passi di quel brano potevano servire alla  propaganda montanista, ad esempio 39: «Non impedite di parlare in lingue». Altri le erano piuttosto ostili, per esempio 9: «Se con la lingua non tenete un discorso comprensibile, come si saprà ciò che viene detto?» Come mai accade che né i montanisti né i loro avversari hanno approfittato dei testi che potevano servire loro? Si dirà che ne hanno approfittato, ma che Eusebio non ha giudicato opportuno inserire nei suoi estratti le citazioni attinte dalla dissertazione paolina sul «parlare in lingue»Ciò equivarrebbe a dire che Eusebio abbia eliminato dalla sua citazione i brani più importanti del dossier che voleva portare a nostra conoscenza. Chi non vede l'improbabilità di una simile spiegazione? 

E poi, sappiamo che uno degli avversari del montanismo, Milziade, scrisse — prima dell'Anonimo, quindi intorno al 185 — un libro intitolato: Come un profeta non deve parlare in estasi. A dire il vero, conosciamo di questo libro solo il titolo (Eusebio, 5, 17, 1). Ma questo titolo prova che, intorno al 185, un dotto cattolico non voleva sentir parlare dell'estasi. Come credere che avrebbe potuto assumere quell'approccio  aggressivo se avesse conosciuto 1 Corinzi 14:39: «Non impedite di parlare in lingue»? Concludiamo quindi che tutta la dissertazione sul «parlare in lingue» o per mezzo dello «Spirito» è stata provocata dalla controversia montanista. Essa non esisteva fino al giorno in cui Montano e i suoi compagni si misero a profetizzare «in estasi», vale a dire per mezzo dello «Spirito». Essa non esisteva ancora nemmeno quando scoppiarono le prime polemiche per la condanna e la difesa dei nuovi profeti. Essa fu scritta per placare tramite il metodo dell'autorità i dibattiti che i polemisti avevano scatenato (intorno al 170). 

D'altronde, esaminiamo da vicino questo frammento. Ci si stupisce a buon diritto che Paolo abbia aspettato di essere lontano dai Corinzi per dare loro istruzioni sul «parlare in lingue»Perché non ha affrontato questo argomento durante il lungo soggiorno che ha fatto in mezzo a loro? 

Si dirò che il bisogno non si era fatto sentire allora? Vana scusa. Paolo, che si vanta (18) di conoscere la glossolalia meglio di chissà chi, possedeva evidentemente quella conoscenza all'epoca in cui dimorava a Corinto, e nessuno pretenderà che l'abbia appresa posteriormente alla sua partenza da quella città. A quella data egli sapeva parlare in lingue. Non poteva dunque ignorare che la glossolalia richiedeva di essere praticata con discrezione, pena di portare a disordini. Perché non ha fatto ai Corinzi raccomandazioni in questo senso? Perché non ha detto loro ad alta voce ciò che ha scritto loro nella sua lettera (18): «Nell'assemblea preferisco dire cinque parole con la mia intelligenza per istruire anche gli altri che diecimila parole in lingua»

E poi notiamo quella osservazione che è fatta nel versetto 23: «Se tutta l'assemblea è riunita e tutti parlano in lingue e sopravvengono ignoranti o infedeli, non diranno che voi siete folli?» Si mostrano qui pagani che si avvicinano ad una assemblea di fedeli per godere dello spettacolo. Una simile supposizione non sarebbe  nemmeno potuta venire al pensiero di Paolo. Al suo tempo, infatti, i cristiani si riunivano nella casa di uno di loro. Le assemblee erano private ed i pagani non si sognavano di disturbarle con la loro presenza non più di quanto un onest'uomo si sognerebbe di immischiarsi in una festa di famiglia dove non è invitato. Il versetto 23 ci trasporta in un'epoca e in un ambiente dove le assemblee cristiane numerosissime avevano carattere pubblico o addirittura si svolgevano all'aperto, come ciò sembra aver avuto luogo in Frigia nel corso della crisi montanista. 

Ancora un'osservazione. La dissertazione sulla glossolalia sembra mancare di omogeneità. Essa dice in un punto (21, 22) che «parlare in lingue» è un segno per gli infedeli, segno che Dio ha annunciato per mezzo del profeta Isaia. Poi essa dichiara che gli infedeli prenderanno per un'assemblea di folli la riunione dove tutti i cristiani parlerebbero in lingue. Essa giudica severamente la glossolalia che presenta (9) come l'emissione di suoni inarticolati, eppure la sua conclusione è che non si deve impedire di parlare in lingue. Vi sarebbero dunque due versioni amalgamate?

Senza essere impossibile, quella ipotesi non è probabile. Osserviamo che lo stesso scrittore che ha parole così dure per i glossolali si impegna a restituire loro tutti i punti. Si prende gioco dei loro balbettamenti incomprensibili, ma riconosce allo stesso tempo che queste manifestazioni si rivolgono a Dio (2). E il permesso che 39 concede ai glossolali deve tantomeno sorprendere in quanto, persino lì dove i glossolali sono criticati, si legge (5): «Desidero che voi parliate tutti in lingue»

La dissertazione di 14 è scritta in un unico getto. Il suo autore è un cattolico del tipo di Ireneo, vale a dire un uomo che ha la fede montanista, ma che ha anche il senso del ridicolo e che è stato scioccato dalle stravaganze di cui i montanisti hanno dato così spesso mostra. È perché egli tiene al buon nome della nuova profezia che si erge a censore dei glossolali. Crede che la glossolalia sia un segno per gli infedeli, un miracolo capace di riportare gli uomini alla fede, ma a condizione che non vi si introduca alcuna incongruenza. Così si conciliano 21-23 che possono riassumersi così: «Il miracolo che Dio ha istituito per portare gli infedeli alla fede degenera tra voi in un'esplosione di follia». Il suo slogan è questo (33): «Dio non è per il disordine ma per la pace». L'Anonimo di Eusebio ci insegna (5, 16, 9) che dai circoli montanisti si levavano talvolta dei censori che ricordavano ai loro correligionari le leggi della dignità e della decenza. 


2. Panegirico dei doni dello Spirito Santo

Il capitolo 12 si apre con quella dichiarazione: «Fratelli, non voglio che voi ignoriate i doni spirituali». Dopodiché il codice dei doni spirituali ci è presentato. 

Il primo articolo di questo codice è che coloro che parlano per mezzo dello Spirito di Dio non possono maledire Gesù. Il secondo è che bisogna avere in sé lo Spirito Santo per dire: «Signore Gesù». Il terzo insegna che lo Spirito Santo ha doni molteplici e che distribuisce questi doni ai cristiani come vuole (11). Il quarto spiega perché tutti i cristiani hanno lo Spirito Santo: è perché tutti hanno ricevuto il battesimo nello Spirito Santo e tutti nel battesimo sono stati abbeverati dallo Spirito Santo (13). Dunque tutti i cristiani possiedono lo stesso Spirito; ma questo ente divino non concede a tutti gli stessi doni. Cosa devono fare i cristiani? Essi devono aspirare ai doni più importanti (31a). 

È Paolo che è ritenuto promulgare questi oracoli. Rileggiamo. Egli comincia col dichiarare che non vuole lasciare i Corinzi nell'ignoranza dei doni spirituali. Dichiarazione piena di sapienza. Poiché i Corinzi, al momento del loro battesimo, sono stati abbeverati dallo Spirito Santo, dovevano conoscere i doni che questo augusto personaggio ha loro conferito. Soltanto non possiamo dimenticare che Paolo, nel momento in cui scrive queste righe, è partito da tre anni da Corinto e che prima di uscirne vi ha soggiornato diciotto mesi. È da diversi anni che i Corinzi sono stati battezzati. Ed è al termine di questo tempo che l'apostolo decide di istruirli e di istruirli tramite una lettera! Perché non lo faceva nelle istruzioni che ha loro rivolto per prepararli al battesimo? Oppure, se in seguito alle circostanze, si è creduto obbligato ad abbreviare i ritardi e ad amministrare questo sacramento dopo un'istruzione molto sommaria, perché non li ha istruiti nel corso delle riunioni che sono seguite? Pochi minuti gli sarebbero bastati per dire ciò che ha scritto nella sua lettera. Veramente la dichiarazione 12:1 arriva molto tardi.

Vediamo ora le comunicazioni che questo preambolo annuncia. La prima è questa: «Vi porto a vostra conoscenza che nessuno, parlando per mezzo dello Spirito di Dio, dice: Maledetto sia Gesù!». Essa è scritta sotto forma di una notifica. I Corinzi non conoscevano ancora nulla di ciò che verrà loro esposto in questo capitolo, poiché Paolo dichiara di voler porre fine alla loro ignoranza. Ma qui la loro ignoranza è sottolineata in una maniera speciale, senza dubbio per risvegliare la loro attenzione. Una verità di cui non hanno finora mai sentito parlare sarà portata a loro conoscenza; sta a loro impegnarsi per raccoglierla. Quella verità, di un'importanza fondamentale poiché è posta in primo piano, è che non si maledice Gesù quando si parla per mezzo dello Spirito di Dio. 

Se un simile oracolo fosse oggi inscritto nel catechismo e proposto alla meditazione dei fedeli, costoro si chiederebbero con stupore cosa significhi questo gergo. Loro non hanno mai avuto la pretesa di parlare per mezzo dello Spirito di Dio. D'altra parte, avrebbero orrore di maledire Gesù, e respingerebbero con indignazione l'infame che volesse maledire davanti a loro il Salvatore. Poi, preoccupati innanzitutto di conservare l'atteggiamento della deferenza e del rispetto, non oserebbero ammettere a sé stessi l'impressione di smarrimento che avrebbero. Si rifugerebbero prontamente nel mistero, classificherebbero il suddetto oracolo al livello delle verità che Dio ha avuto le sue ragioni per rivelare, ma che la ragione umana non deve cercare di capire. Ecco esattamente ciò che fanno gli esegeti, sia gli indipendenti che gli ortodossi. Essi restano confusi, ma si guardano bene dal dirlo. La verità è che quella frase, se la si suppone scritta da Paolo, è pura sciocchezza. Lo stesso verdetto vale d'altronde per la frase successiva che, messa in bocca a Paolo, non vuole dire nulla. Tenteremo presto di risolvere questi enigmi. Per il momento, passiamo oltre.

Dopo l'esposizione dei principi arriva la lista dei doni dello Spirito Santo e di coloro che ne sono beneficiari. Quella lista è copiosa e si deve ammirare la generosità dello Spirito che distribuisce senza contare le decorazioni e i favori. Ma sappiamo che, al tempo di Paolo, la chiesa di Corinto si teneva tutt'intera in una stanza. Quella legione di ufficiali ci ricorda le antiche armate della repubblica di Haiti, dove tutti i soldati erano  generali o perlomeno colonnelli. Tutta quella lezione sullo Spirito e sui doni dello Spirito è estranea a Paolo.  

D'altronde leggiamo Giustino. Nella sua grande Apologia egli menziona più di venti volte lo «Spirito profetico». Nel Dialogo, 39:2, egli elenca i «doni» che Dio procura ai cristiani e ne attinge la lista da Isaia 11:2 (aggiungendovi «lo spirito di guarigione»). Nello stesso libro 82:1 dichiara che i doni profetici esistono ancora tra i cristiani. Un po' più oltre, 87:4-6 e 88:1, egli si sofferma con compiacenza sui «poteri dello Spirito»; parla addirittura di «donne» e di «uomini» che hanno «ricevuto i doni dello Spirito di Dio», e sembra proprio avere in mente o Montano e le sue profetesse, oppure certi precursori del montanismo come Ammia e Quadrato, di cui parla l'Anonimo di Eusebio, 5, 17, 3. Ma della dissertazione paolina sullo Spirito e sui doni dello Spirito egli non dice una parola, non ne fa mai la minima allusione, non la conosce.

Da dove viene quel brano, che non esisteva ancora intorno al 165? Vediamo dapprima dove va. 

Esso è tagliato in due tronconi dall'inno alla carità del capitolo 13. Il capitolo 12 è una di questi tronconi: l'altro è costituito dalla dissertazione sulla glossolalia che riempie quasi interamente il capitolo 14 e che ho studiato più sopra. Il versetto 1 di questo capitolo è il raccordo artificiale e un po' goffo che lega l'inno alla carità al troncone posteriore. Nella scrittura originale la dissertazione andava da 12:31 a 14:1b. Il testo era pressappoco questo: 

Aspirate ai doni più importanti, ma soprattutto alla profezia. 

Ed ecco risolta la questione della provenienza. La dissertazione sui doni dello Spirito Santo fa tutt'uno con l'istruzione sulla glossolalia, la cui ispirazione è montanista. Essa deriva quindi dagli ambienti montanisti. L'autore crede all'effusione dello Spirito Santo che ha inondato le regioni della Frigia. La sua fede, è vero, è temperata da un senso di misura che lo allontana dalle incongruenze e dalle stravaganze. Lui non vuole lasciare che i glossolali facciano figura di folli. Preferirebbe addirittura che la profezia non fosse accompagnata da glossolalia. Ma egli crede alla glossolalia; è convinto che coloro che parlano in lingue parlino per mezzo dello Spirito. 


3. Coloro che non maledicono Gesù

Quella osservazione ci dà la chiave del celebre testo dove leggiamo che coloro che parlano per mezzo dello Spirito non maledicono Gesù. Coloro che parlano per mezzo dello Spirito sono i glossolali. L'autore prende la loro difesa contro i nemici numerosi che si sforzano di screditare la glossolalia. Presto criticherà i glossolali, dirà loro di comportarsi bene. Ma comincia col riabilitarli. Per ben comprendere  l'allusione che fa qui, rileggiamo la requisitoria che il loro acerrimo avversario, l'Anonimo di Eusebio, ha mosso contro di loro (5, 16, 20):

Quando, confusi dalle ragioni che si oppongono loro, non sanno più cosa dire, ripiegano sui martiri. Dicono che hanno molti martiri e che ciò prova chiaramente la potenza di ciò che si definisce tra loro lo Spirito profetico.

Illuminato dal commentario di un nemico, il nostro testo vuol dire questo: «Voi che ci deridete, noi e i nostri glossolali, mostrateci dunque i vostri martiri. Questi glossolali che parlano per mezzo dello Spirito non si arrendono quando li si conduce al supplizio, non sacrificano agli idoli, non maledicono Gesù [1] per sfuggire alla morte. Non è da noi che si incontrano i rinnegati». Il testo 12:3, che non offre alcun significato sotto la penna di Paolo, diventa comprensibile quando, dietro il Paolo storico, si scorge un Paolo fittizio che scriveva intorno al 170. Egli esprime, per la prima volta, ciò  che si definisce in teologia l'argomento ricavato della costanza dei martiri. E constatiamo che la formula è stata trovata da un montanista a profitto del montanismo. 


4. Inno alla carità.

L'inno alla carità del capitolo 13, che taglia in due tronconi la dissertazione sui doni dello Spirito Santo, tende a ispirare il disprezzo di questi doni. Si aveva celebrato davanti a noi l'attività dello Spirito che distribuisce i suoi favori ai cristiani in modo da promuovere il bene generale, che dona all'uno le «lingue», all'altro la «scienza», a un altro la «profezia», a un altro la «fede». Ci viene detto ora che tutto ciò non è nulla. L'inno alla carità è un correttivo destinato a contraddire discretamente il panegirico dei doni dello Spirito Santo. 

E la contraddizione è consegnata nel preambolo stesso, di cui ecco il significato intimo: «Vi è appena stato detto di aspirare ai doni più importanti. La verità è che tutti questi doni, anche i più importanti, non sono nulla. Vi mostrerò la vera via da seguire». Osserviamo, infatti, che colui che esorta i fedeli a ricercare i doni più importanti  ha in vista unicamente i doni di cui ha appena tracciato la lista. L'inno alla carità è stato interpolato nella dissertazione sui doni dello Spirito Santo intorno al 180, in ogni caso prima di Ireneo che gli fa delle citazioni (2:28, 7; 4:12, 1). 


5. Divieto alle donne di parlare nella chiesa.

Incontriamo un'altra interpolazione nell'ordinanza 14:33-35 che vieta alle donne di parlare nella chiesa. Due cose sorprendono in quella proibizione.

Innanzitutto la sua opposizione con 11:5, dove leggiamo che la donna che prega o che profetizza con il capo scoperto disonora il suo capo. Quest'ultimo testo autorizza la donna a condizione che abbia il capo velato. Ma per profetizzare occorreva necessariamente parlare e parlare ad alta voce. Inutile dire peraltro che il testo 11:5 suppone la donna nell'assemblea dei fedeli e non nella sua casa privata. E si arriva a quella conclusione, ossia che 11:5 e 14:33-35 ci mettono di fronte a due atti legislativi differenti che non possono essere dello stesso autore né dello stesso ambiente. 

Ma un'altra sorpresa ci attende. All'origine del movimento montanista incontriamo, si sa, le due donne Priscilla e Massimilla che, d'intesa con Montano, evangelizzarono le popolazioni frigie e le iniziarono alla dottrina del Paracleto. Il ruolo di queste donne risultava sconvolgente. Alle obiezioni che furono loro mosse su questo argomento i montanisti risposero che Priscilla e Massimilla rinnovavano una tradizione inaugurata dalle profetesse dell'Antico Testamento (Debora, Maria sorella di Mosè, Olda) e continuata dalle profetesse del Nuovo Testamento: Anna menzionata da Luca, le figlie di Filippo di cui parlano gli Atti, una certa Ammia di Filadelfia. [2

Trasportiamoci ora intorno al 230. A quella data Origene, posto di fronte a questa argomentazione montanista risponde in sostanza così: [3]

San Paolo dice, nell'epistola ai Corinzi, che è vergognoso per una donna parlare nell'assemblea. Lo stesso apostolo disse a Timoteo: Non permetto alla donna di insegnare. Quella legge di san Paolo non è mai stata infranta dalle profetesse né dell'Antico né del Nuovo Testamento. Le figlie di Filippo non hanno affatto profetizzato nella chiesa; Anna non ha affatto profetizzato nella chiesa; la stessa osservazione vale per Debora, per Maria, per Olda. 

Origene, lo si vede, oppone ai montanisti i testi di 1 Corinzi 14:35; 1 Timoteo 2:11. Ed ha ampiamente ragione, perché questi testi capitavano al momento opportuno sulle profetesse montaniste. 

Ma quanto più quella osservazione di Origene pare attuale, tanto più pare strana la nota seguente scritta da Ireneo in risposta a coloro che respingevano il vangelo di san Giovanni col pretesto che questo libro sembrava patrocinare il Paracleto dei montanisti (3, 1, 9):

Questa gente, per essere logica, non dovrebbe nemmeno ammettere l'apostolo Paolo. Infatti, nell'epistola ai Corinzi, egli si è applicato a parlare dei doni profetici, e sa che degli uomini e delle donne profetizzano nella chiesa, scit viros et mulieres in ecclesia prophetantes.

Ireneo ha senza dubbio qui in vista le predicazioni femminili in uso presso i montanisti per le quali egli aveva simpatie (queste simpatie si manifestano proprio in prossimità del testo che ho appena citato). Ma come ha potuto evocare con fierezza una pratica solennemente condannata dall'apostolo Paolo? Sembra proprio aver ignorato quella condanna e non aver incontrato nella sua edizione delle lettere paoline i testi che proibiscono alla donna di parlare nella chiesa. 

Ad Ireneo va associato l'Anonimo di Eusebio che noi abbiamo già incontrato più volte sul nostro cammino. Acerrimo avversario dei montanisti, li rimprovera aspramente di porsi fuori dalla tradizione con la loro profezia in estasi accompagnata da gesti disordinati e da parole sprovviste di senso. Tutto ciò va benissimo. Ma, poiché l'autore accusa i montanisti di essere in conflitto con la tradizione, perché non oppone loro il regolamento di 1 Corinzi 14:33-35? Perché non utilizza questa argomentazione così semplice e così perentoria alla quale Origene sarebbe più tardi ricorso? Oppure, se l'ha utilizzata, come spiegare che Eusebio, che ci ha tenuto a mettere sotto i nostri occhi il passo più saliente della sua dissertazione, abbia omesso di citare il punto essenziale? 

La stessa osservazione vale d'altronde per un altro avversario del montanismo, Apollonio (Eusebio, 5, 18), che si priva a sua volta dell'argomentazione che gli offriva 1 Corinzi 14:33-35. La conseguenza che emerge da questi fatti è che l'ordinanza di 1 Corinzi 14:33-35 è stata decretata per condannare le profetesse montaniste in una data in cui i primi scritti della controversia montanista erano già apparsi e, di conseguenza, al più presto intorno all'anno 200. Notiamo d'altronde che i montanisti, che erano cattolici, non avrebbero mai lasciato delle profetesse insegnare pubblicamente nelle loro assemblee, se l'ordinanza in questione fosse circolata sotto il nome di Paolo all'inizio del movimento montanista. 


6. Lo stesso Dio opera tutto in tutti. 

Una terza interpolazione è costituita dai versetti 12:56 che, in un contesto che parla esclusivamente dei «doni» dello Spirito Santo, non parlano né di doni né dello Spirito Santo, ma di «funzioni» e di «operazioni» derivanti dal «Signore» e da «Dio»

La versione originale passava direttamente da 4 a 7: «Vi è diversità di doni, ma è lo stesso Spirito. E a ciascuno è data la manifestazione dello Spirito per l'utilità comune». In seguito veniva l'enumerazione dei doni nel corso della quale l'autore notava tre volte che tutto deriva da un solo e medesimo Spirito. Poi la lista si terminava con quella osservazione: «Un solo e medesimo Spirito produce tutte queste cose, distribuendo a ciascuno come vuole».

Usciamo dagli ambienti montanisti e trasportiamoci tra i cattolici. Qui si criticavano i rivoluzionari frigi innanzitutto per le loro estasi e per la loro stravagante glossolalia. Ma il loro linguaggio deve anche suscitare preoccupazioni sulle loro concezioni teologiche. A forza di esaltare lo Spirito, lo Spirito Santo, lo Spirito profetico, a forza di celebrare i suoi doni, essi finivano per parlare solo di lui, per pensare solo a lui, per vedere solo lui. In quel tripudio di panegirici dedicati allo Spirito Santo, cosa diveniva Dio, colui di cui lo Spirito è solo un attributo? Egli era praticamente dimenticato. Dimenticato anche il Cristo che si era sacrificato per gli uomini e che, per mezzo della sua morte, aveva compiuto l'opera della redenzione. Lo Spirito attorniato dal suo corteo di doni soppiantava Dio, soppiantava il Cristo. 

È con questi sentimenti che un lettore — senza dubbio l'autore dell'inno alla carità — prese coscienza del panegirico dello Spirito. Constatò con orrore che questo testo, se lo si lasciasse senza spiegazione, avrebbe fatto il gioco dei montanisti. Un commentario sobrio, discreto, gli parve indispensabile. Lo introdusse modellando la sua scrittura su quella del testo. Da qui i versetti 5 e 6 che, a considerare solo il giro di parole, sembra far seguito a 4. Esaminiamo le idee  espresse qui e confrontiamole con la tesi del panegirico. Il montanista diceva (11): 

Un solo e medesimo Spirito opera tutte queste cose. 

Il commentario risponde in anticipo (6): 

È Dio che opera tutte le cose in voi. 

Dio prende il posto dello Spirito; è lui la fonte dell'attività universale che presto sarà attribuita allo Spirito: 

Il montanista diceva (4): 

Vi è diversità di doni, ma è lo stesso Spirito. 

Il commentatore risponde (5): 

Vi è una diversità di funzioni, ma è lo stesso Signore. 

Il Signore, vale a dire il Cristo, prende il posto dello Spirito e i doni di quest'ultimo sono eliminati dalle funzioni che compie il corpo del Cristo. L'autore del commentario conosce Dio e il Signore Gesù: Dio che è la fonte di ogni operazione, che fa tutto in tutti; il Signore il cui corpo, vale a dire la Chiesa, non può sussistere senza funzioni. Quanto allo Spirito Santo, non osa toccarlo apertamente; egli lo lascia nello stato in cui lo ha trovato; gli conserva anche in apparenza le sue prerogative; ma in realtà gli toglie tutto e divide le sue spoglie tra Dio e il Signore. Egli è di coloro che hanno lavorato per fondare la Trinità — la Trinità arcaica dei tempi pre-agostiniani — poiché ha messo lo Spirito Santo accanto a Dio e al Signore. Ma l'ha fondata senza volerlo, perché sotto la sua piuma Dio e il Signore non prendono contatto con lo Spirito Santo se non per spodestarlo. 


7. Il corpo e le membra del Cristo. 

Una quarta interpolazione è costituita dall'istruzione sul corpo e le membra del Cristo il cui sviluppo verboso si estende da 12:12 a 12:30 previa deduzione di 13 che fa parte del panegirico dello Spirito Santo. 

Il corpo del Cristo si compone dell'insieme dei fedeli. In questo vasto organismo ciascun cristiano occupa un posto ed esercita una funzione che gli sono stati assegnati da Dio; egli è, in relazione al corpo del Cristo, ciò che è il membro nel corpo umano. Se ciascuno dei membri del corpo di Cristo, prendendo modello dalle membra del corpo umano, si occupa della funzione che gli è stata assegnata e si occupa solo di essa; se, collaborando pacificamente con gli altri membri, si associa alle loro gioie e ai loro dolori, tutto va bene. Ma se un membro pretende di sostituirsi al membro vicino e di usurpare la sua funzione, ciò sarà il disordine, il caos. E l'autore esclama (29): «Tutti sono apostoli? Tutti sono profeti? Tutti sono dotti?...» 

Sotto questa svolta interrogativa della frase si sente vibrare l'accento della protesta. Tutti questi membri del corpo di Cristo non hanno saputo tenersi al loro posto. Parecchi tra loro hanno usurpato le funzioni dei membri vicini. Hanno misconosciuto la grande legge della collaborazione e le esigenze che impone. Un soffio di individualismo è passato su di loro. Vi si riconoscono i misfatti dell'estasi montanista che non rispettava nessuno dei quadri tradizionali della vita cristiana. L'autore della nostra istruzione è probabilmente un capo di comunità che, senza combattere apertamente l'effusione dello Spirito e il parlare in lingue (si veda 28 e 30), premunisce il suo gregge contro il vento di rivoluzione che il montanismo soffiava attorno ad esso.

NOTE

[1] Martirio di Policarpo, 9:3: «Il proconsole insistette: Maledici il Cristo»; Lettera di Plinio a Traiano, 10, 96: «Tutti costoro (si tratta di apostati) hanno venerato la vostra immagine e le statue degli dèi e hanno maledetto il Cristo».

[2] Si veda l'Anonimo, citato da Eusebio, 5:17, 2-4.

[3] Catenae in epistol. ad Cor. 14:35, in Bonwetsch, Texte zur geschichte des Montanismus, pag. 24.

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