sabato 20 gennaio 2024

Gli scritti di San Paolo — LA PRIMA EPISTOLA AI CORINZI (L'EUCARESTIA)

 (segue da qui)

L'EUCARESTIA

Il capitolo 11 — quando si è sfoltito il versetto 1 che termina il pezzo precedente e dovrebbe chiudere il capitolo 10 — esordisce con un elogio: «Io vi lodo» che è in seguito temperata da un biasimo: «Ma... io non lodo ciò». Senza dubbio nello stato attuale del testo, il biasimo giunge solo molto tempo dopo l'elogio (versetto 17) da cui è separato da una dissertazione sul velo delle donne. Ma, all'origine, lo seguiva immediatamente. Parlerò più tardi del velo delle donne. Per il momento, io lascio da parte questo intruso e prendo il testo così come si presentava primitivamente. 


1. Il banchetto. 

Il biasimo formulato da Paolo verte sulle riunioni dei Corinzi: «Non lodo ciò, ovvero che vi riuniate non per il meglio, ma per il peggio». I Corinzi fanno quindi delle riunioni che lasciano a desiderare. Quali sono queste riunioni? E in cosa consiste il male? Raccogliamo delle precisazioni. Perciò, trascurando provvisoriamente i testi più o meno oscuri, più o meno misteriosi che noi ritroveremo presto, rivolgiamoci innanzitutto a quelli la cui chiarezza esclude ogni contestazione, ogni equivoco. Ed eccone alcuni che sembrano ben soddisfare queste condizioni: 

21 Ciascuno prende dapprima il proprio pasto, quando si mangia, e uno ha fame mentre l'altro è ubriaco. 22b Voi fate onta a coloro che non hanno nulla. Cosa vi dirò? Vi loderò? In ciò non vi lodo. 33 Dunque, fratelli miei, quando vi riunite per mangiare, attendete gli uni gli altri. 

Quindi i cristiani di Corinto fanno delle riunioni «per mangiare», vale a dire il cui unico obiettivo, l'unico che sia menzionato, è banchettare in comune. Queste riunioni «per mangiare» non hanno, di per sé,  nulla di molto illegittimo e nessuna critica può essere rivolta contro di loro se soltanto i convitati si aspettassero gli uni gli altri. Ma essi non si attendono. È lì che c'è il disordine; disordine che scomparirà quando ci si attenderà reciprocamente. Questo è il senso del versetto 33 che non dice: «Smettete di riunirvi per mangiare»; ma: «Quando vi riunite per mangiare, attendetevi gli uni gli altri».

I versetti 21 e 22b forniscono sulla stessa situazione alcuni dettagli nuovi. Arrivato al luogo di riunione, questo cristiano più fortunato si serve il suo pasto, il suo «proprio pasto», vale a dire le provviste che ha portato con sé, e consuma queste provviste senza versarle alla massa comune, senza nemmeno cederne una parte a un vicino povero. Da ciò consegue che gli uni sono ubriachi e che gli altri hanno fame. E questi ultimi hanno per giunta l'onta di assistere a gozzoviglie da cui non possono prendere la loro parte.  Queste informazioni completano quelle del versetto 33. E completandole, le chiariscono e ci invitano a modificare leggermente la traduzione universalmente accettata: «Attendetevi gli uni gli altri». Bisogna piuttosto leggere: «Accoglietevi gli uni gli altri», vale a dire ammettete i vostri vicini a condividere il vostro pasto. [1]

Insomma, i versetti 21, 22b, 33 ci mettono di fronte ad un pasto corporativo, molto conforme alle abitudini dell'epoca. Nell'impero romano i membri di una stessa associazione banchettavano, come oggi operai e commercianti si riuniscono all'osteria o al bar per trattare affari o semplicemente per parlarsi. [2] Seguendo l'usanza generale, i fedeli di Corinto appena nati alla vita cristiana hanno banchettato assieme periodicamente. Paolo non è stato per nulla in questo pasto corporativo che si è stabilito spontaneamente ed è diventato lo strumento principale della comunità cristiana di Corinto. Egli non lo ha creato. Ma lo accetta, come lo prova il suo testo. Lo accetta con tutte le conseguenze pratiche che ne possono risultare. Che il banchetto corporativo sia un'occasione di ubriachezza per molti o persino se si vuole, per il maggior numero, non vi è niente di più naturale, niente anche di più innocuo. Ciò che è inaccettabile è che gli uni sono ubriachi mentre gli altri hanno fame. È questo spettacolo che deve scomparire, perché fa onta a coloro che sono sprovvisti dei beni della fortuna. Che tutti, se necessario, lascino la mensa in stato di ebbrezza, ma tutti prendano parte al banchetto. Ecco perché il rimedio è nell'espressione: «Accoglietevi gli uni gli altri». Per dirla tutta, il banchetto corporativo dei cristiani di Corinto è viziato dall'egoismo. È questo egoismo che Paolo denuncia qui. 

Paolo non conosce la «cena del Signore». Non conosce quella assemblea che è religiosa per la sua celeste origine, che lo è anche per il suo obiettivo divino. Ciò che conosce è un banchetto corporativo il quale, come tutti i banchetti di quella natura, è essenzialmente profano. 

Non andremo a concludere che ogni elemento religioso ne sia assente. Gli ebrei, lo sappiamo, inserivano nei loro pasti dei ringraziamenti a Dio per ringraziarlo di avere messo a loro disposizione il pane e il vino nutritivi. E, nei giorni di festività, questi ringraziamenti assumevano un carattere più solenne. [3] Ma i primi cristiani erano, prima della loro conversione, o ebrei d'origine, oppure ex pagani aggregati al giudaismo in qualità di proseliti. All'epoca in cui professavano la religione ebraica, essi santificavano i loro pasti con l'aggiunta di una preghiera. Divenuti cristiani, non rinunciarono all'usanza tradizionale. Perché l'avrebbero abbandonata? Il banchetto corporativo dei cristiani di Corinto era quindi accompagnato da una preghiera e quella preghiera doveva, in certi giorni, circondarsi di un allestimento pomposo. Ma esso non restava meno profano per il suo obiettivo come pure per la sua origine. Ed era viziato da un egoismo contro il quale Paolo solleva proteste. 


2. La Cena del Signore. 

Ma io ho lasciato finora nell'ombra i versetti 22a e 34. Bisogna ora dare loro la parola. Il primo dice: «Non avete case per mangiare e per mangiare?» E il secondo: «Se qualcuno ha fame, mangi alla casa». Il primo articolo esprime un rimprovero allo stesso tempo in cui constata un abuso; il secondo decreta una riforma. L'abuso consiste nell'inserire nelle riunioni dei pasti che  dovrebbero tenersi solo nelle case private. La riforma prescrive di non banchettare più nelle riunioni. Essa dice ai fedeli di mangiare a casa loro come sembra bene loro, ma di non trasformare le riunioni in banchetti. Questi due oracoli protestano contro i pasti delle riunioni e ne esigono la scomparsa immediata. Essi dicono ai fedeli: «Banchettate da voi, ma non nelle riunioni».  

A meno di non chiudere volontariamente gli occhi, non si può non vedere il contrasto di quella legislazione con la precedente. Appena prima una critica era formulata contro i pasti corporativi dei cristiani di Corinto e una riforma era reclamata. Ma il biasimo verteva solo sull'egoismo di cui certi convitati davano lo spettacolo; una volta scomparso l'egoismo, il pasto non aveva più nulla di reprensibile. Qui è il pasto stesso ad essere in causa, è esso che vizia le riunioni e che non deve uscire dalla casa di ciascun fedele. Vi è una opposizione irriducibile. 

Esaminiamo quella dissertazione che si adopera per bandire i banchetti dalle riunioni cristiane. E prima tentiamo di individuare il principio nel nome del quale essa conduce la sua campagna. Questo principio è formulato in termini laconici nel versetto 20: «Questo non è mangiare la cena [4] del Signore». Sviluppiamo questa espressione. Ecco ciò che vuol dire: «Il vostro dovere nelle vostre riunioni comuni è di fare la cena del Signore. Ma banchettare come voi fate non è mangiare la cena del Signore. Bandite dunque dalle vostre riunioni questi pasti che le profanano odiosamente». Ma cos'è «la cena del Signore»? Da dove viene? In cosa consiste? Il testo seguente risponde a queste domande: 

Io, infatti, ho ricevuto dal Signore ciò che vi ho trasmesso, ossia che il Signore Gesù, nella notte in cui fu consegnato, prese il pane e, avendo reso grazie, lo spezzò e disse... Fate questo in memoria di me. E allo stesso modo il calice dopo aver cenato il calice dicendo... Fate ciò tutte le volte che berrete in memoria di me. Poiché tutte le volte che mangiate questo pane e che bevete dal calice, voi professate la morte del Signore... Dunque colui che mangia il pane e che beve Il calice del Signore indegnamente è colpevole... Ciascuno si disciplini, mangi il pane e beva dal calice così.

Secondo questo testo la cena del Signore è un rito che il Signore stesso ha istituito. Mangiare la cena del Signore è fare esattamente ciò che il Signore ha istituito. Ma il Signore, nella notte in cui fu consegnato, ha preso il pane e fatto su di esso il ringraziamento. Egli ha preso anche la coppa e fatto su di essa il ringraziamento. Poi ha distribuito il pane e fatto girare la coppa prescrivendo di fare la stessa cosa in ricordo della sua morte. Dunque, per mangiare la cena del Signore, bisogna mangiare il pane e bere dal calice «così» (28). Così, vale a dire non introdurre nel rito nessun altro alimento oltre al pane, e nessun'altra bevanda oltre a quella della coppa comune. Così, vale a dire mangiare il pane dopo che esso ha ricevuto il ringraziamento, bere dal calice dopo che esso ha ricevuto, a sua volta,  il ringraziamento, e fare questi due atti «in ricordo» del Cristo, in ricordo della sua morte che si professerà.

Ecco perché banchettare «non è mangiare la cena del Signore». Vi è incompatibilità tra questo e quello perché un festino, con le carni e le bevande di cui è carico, è un atto profano solitamente accompagnato da ubriachezza; mentre la cena del Signore, con il pane e il calice che la compongono esclusivamente, con il duplice ringraziamento che ivi interviene, soprattutto con la commemorazione della morte del Signore che ivi si fa, è essenzialmente un atto religioso. 

In due parole, il cristiano deve mangiare il pane e bere il calice «così», vale a dire nella maniera prescritta dal Signore. Ma per questo deve dapprima «disciplinarsi», non abbandonarsi ai suoi istinti ingordi e non travestire un atto religioso in un volgare banchetto.


3. Origine della cena del Signore

Paolo insegna qui in quale circostanza e con quale scopo il Cristo ha istituito la cena. Egli dichiara inoltre di aver già dato questo insegnamento ai Corinzi durante il suo soggiorno in mezzo a loro: «Ciò che vi ho trasmesso».

 Ciò che ha insegnato, non ha potuto omettere dal praticarlo. Egli ha dunque celebrato la cena del Signore. La ha celebrata almeno ogni settimana; e ciò, inutile dirlo, in tutta conformità con le intenzioni del Cristo. Finché egli ha abitato a Corinto, finché ha presieduto le riunioni dei fedeli, nessun abuso vi si è introdotto. Egli si allontana e, tre anni dopo la sua partenza, degli insegnamenti che ha dato, delle usanze che ha stabilito, dei regolamenti che non ha potuto mancare di decretare relativi alla cena del Signore non resta più niente. Tutto è dimenticato. L'atto religioso per eccellenza si è mutato in un pasto scorretto dove «l'uno ha fame quando l'altro è ubriaco». Nessuno ha messo un freno al sacrilegio, nemmeno la famiglia di Stefana di cui eppure Paolo presto loderà la devozione (16:15), né Fortunato e Acàico di cui farà l'elogio (16:18), né tutti questi profeti, né tutti questi ispirati che (a credere ai capitoli 12 e 14 la cui autenticità è universalmente accettata) sono gli strumenti dello Spirito. Tutti si sono lasciati trascinare nel male; la profanazione è stata generale! Come non vedere che una tale situazione ripugna, che le cose non hanno potuto svolgersi così? 

Decisamente il testo «ciò che io vi ho trasmesso», con tutto quello che si trascina dietro, non si inquadra nella vita di Paolo. Avevamo già constatato che la dissertazione sulla «cena del Signore» contraddice i testi 21 e 33 che parlano di un banchetto corporativo. Coloro che esitavano ancora, coloro che, dovendo accettare quella conclusione, pretendevano un supplemento di luce, ottengono soddisfazione. Il supplemento che domandano è loro, credo, somministrato. Si desidera una terza prova? La si avrà.

Rileggiamo l'espressione con la quale si apre il racconto dell'istituzione della cena: «Io, infatti, ho ricevuto dal Signore ciò che vi ho trasmesso». Per molto tempo i critici non fecero attenzione a «Io ho ricevuto dal Signore». Nel 1887, Havet, il primo, osservò [5] che queste parole strane dovevano essere prese alla lettera. Secondo lui Paolo ha ricevuto direttamente ed esclusivamente «dal Signore» le informazioni che egli ci dà sull'istituzione dell'eucarestia. «Dal Signore», il che vuol dire che non deve nulla ai discepoli immediati di Gesù. «Dal Signore», il che vuol dire anche che Paolo interpreta qui il ruolo di un visionario e che ha attinto gli elementi del suo racconto della cena dalla sua immaginazione esaltata. Oggi la tesi di Havet è generalmente ammessa e si dice comunemente che l'espressione «Io ho ricevuto dal Signore» si riferisca ad una visione. 

Quell'opinione mi pare confondere due domande molto diverse, ovvero cosa Paolo ha potuto predicare durante il suo soggiorno a Corinto e cosa ha potuto scrivere nella sua lettera. 

Che egli abbia contemplato nella sua presunta immaginazione mistica la tavola della prima cena e che abbia in seguito, con una fiducia senza riserve, predicato ai Corinzi l'istituzione dell'eucarestia per mezzo del Cristo, non vi è in ciò niente di impossibile. Ma, tra la sua partenza da Corinto e la sua lettera, un fatto nuovo si è verificato. Durante la sua assenza una confraternita ha preso corpo. Gli si è preferito Apollo; gli si è persino preferito Cefa, a credere ad 1:12, 3:22 la cui autenticità è ammessa da tutti i critici. La sua autorità è stata scalfita. Nello stato d'animo attuale, quale autorità ha la sua visione? Per molti Corinzi il patrocinio di Apollo (o di Pietro) gestirebbe molto meglio la vicenda. È sotto questo patrocinio che ci si dovrebbe mettere; proprio come, in 15:11 la cui autenticità è universalmente ammessa, egli dichiara di essere l'eco degli apostoli. 

Se egli non può – e per una buona ragione poiché la cena del Signore è la sua opera personale – non deve temere di scontrarsi contro uno scetticismo irriducibile? Perché ora che la sfiducia è suscitata, egli non può fingere che non gli si obietterà questo: «I fatti storici non sono provati a colpi di visione ma dalle testimonianze. Se il Cristo, nella notte della sua passione, avesse istituito l'eucarestia, i discepoli che erano lì lo saprebbero. Ma quelli che, tramite intermediari, noi abbiamo potuto interrogare, ignorano tutto di quella augusta cerimonia; non hanno visto nulla, sentito nulla. La vostra visione non può nulla contro le loro negazioni». Ecco l'obiezione che i Corinzi faranno, la quale Paolo non può mancare di attendersi e davanti alla quale non può restare indifferente. Ma la dichiarazione «Io ho ricevuto dal Signore» ce lo mostra proprio in quell'atteggiamento di indifferenza che non ha potuto avere. Per la terza volta il racconto dell'istituzione della cena non riesce ad inquadrarsi nel contesto della vita di Paolo. La questione può essere considerata definitivamente risolta: esso non è di Paolo.  

Mettiamoci alla ricerca della sua origine. Il testo «Io ho ricevuto dal Signore» ci fornisce un indizio prezioso. Ci presenta una visione; una visione che, inutile dirlo, non può che essere fittizia, poiché tutto il brano è fittizio. Questo dettaglio ha un'importanza fondamentale. Se la visione fosse autentica non avremmo il diritto di cercarvi alcun retro-pensiero; dovremmo vedere in essa il prodotto di un'immaginazione esaltata e nulla di più. Ma essa è fittizia. Colui che l'ha costruita l'ha rigorosamente adattata allo scopo che perseguiva; e, per scoprire questo scopo, non ci resta che prendere la visione così come ci è presentata. 

Essa è stata accordata a Paolo, a lui solo. Paolo solo ha ricevuto le confidenze celesti sulla condotta che i fedeli devono tenere nelle loro riunioni, sulla «cena del Signore» che ivi deve essere celebrata, sui festini che devono esserne banditi. I Dodici sono stati tenuti lontani da quel favore. È quindi Paolo solo che i cristiani devono ascoltare; è secondo le sue istruzioni che essi devono organizzare le loro riunioni. La visione cristallizzata nel testo «Io ho ricevuto dal Signore» è una manovra destinata a elevare Paolo a detrimento dei Dodici. Il suo autore non può essere che un nemico dei Dodici. Per trovare questo nemico bisogna andare alla scuola di Marcione. La visione di Paolo, la legislazione riformatrice che introduce è di origine marcionita. 

Dall'inizio del secondo secolo, il banchetto cristiano, senza dubbio per ragioni economiche, era, almeno in generale, frugale. Ciò risulta dal testo di Plinio: 

ad capiendum cibum promiscuum tamen et innoxium. [6] 

Ma quella frugalità non aveva affatto cambiato il carattere profano del pasto. D'altronde, essa subiva talvolta delle eclissi e capitava alle riunioni cristiane di essere veri e propri festini. Questa era la situazione quando Marcione è arrivato. Cosa ha fatto questo grande riformatore? 

Il banchetto era talmente radicato nei costumi che la sua soppressione radicale gli è parsa impossibile. Obbligato a mantenerlo, vi ha introdotto due trasformazioni. Dapprima lo ha ridotto alla sua più semplice espressione ammettendovi solo il pane con il calice comune e scartando rigorosamente tutto ciò che aveva l'apparenza di un festino. In seguito a questo pasto essenziale ha dato un'origine divina e una destinazione religiosa. Egli ha fatto del banchetto primitivo la «cena del Signore», vale a dire un rito istituito dal Signore stesso e celebrato in ricordo della passione del Signore. Infine ha lanciato la sua istituzione sotto il nome di Paolo che è stato ritenuto riceverla dal Signore. 

Ora che il pensiero fondamentale della versione marcionita è individuato, segnaliamo le idee accessorie che gli fanno seguito. È ad essa che appartiene il versetto 27a secondo il quale si è colpevoli quando si mangia il pane e si beve dal calice del Signore indegnamente, vale a dire banchettando e omettendo di fare memoria del Signore. 

Ad essa vanno attribuiti anche i versetti 30-32 che segnalano tra i cristiani numerosi casi di malattia e di morte e li presentano come castighi paterni destinati nel pensiero di Dio (del Dio buono) a preservare i suoi figli dalla sorte riservata al mondo.  Sotto la penna di Paolo che scrive tre anni dopo la sua partenza da Corinto, quella moltitudine di malati e di morti esigerebbe una comunità cristiana di almeno diecimila anime. Sotto la penna di un dotto del secondo secolo che dispone di quindici o vent'anni di esperienza, queste espressioni non richiedono necessariamente una chiesa così importante. Il Dio buono, di cui si parla qui, castiga i cristiani colpevoli per ricondurli a lui tramite il pentimento e per non vedersi costretto ad abbandonarli col mondo al Dio malvagio. [7

Lanciata sotto il nome di Paolo la riforma fu inserita nella versione marcionita della nostra epistola. Poi il suo autore ne fece un riassunto che inscrisse nel vangelo di Luca. Ciò si verificava intorno al 140, in un'epoca in cui i gruppi marcioniti non erano ancora espulsi dalle comunità cattoliche. Queste accettarono l'edizione edificante che si presentava loro dell'epistola e del vangelo. Però, nel giro di alcuni anni esse provarono il bisogno di farvi alcune aggiunte. Le si troverà segnalate nelle note. Ma una di esse, di una importanza fondamentale, deve essere studiata qui. 


4. Questo è il mio corpo

Nel nostro testo attuale il Cristo, dopo aver compiuto il ringraziamento sul pane e prima di formulare l'ingiunzione: «Fate questo in ricordo di me», dice: «Questo è il mio corpo per voi». Allo stesso modo dopo aver fatto il ringraziamento sul calice e prima di ripetere l'ingiunzione: «Fate questo in memoria di me», dice: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue». Cosa pensare di questi due oracoli? 

Che non hanno alcun legame con il precetto da cui ciascuno di essi è seguito. 

Si capirebbe che il Cristo avesse detto: «Questo è il mio corpo per voi: credete a ciò». Si capirebbe ancora l'espressione che segue: «Questo è il mio corpo per voi: ripetete ciò quando farete la cena». Ma non esiste alcun rapporto tra le due proposizioni seguenti: «Questo è il mio corpo per voi: fate questo in ricordo di me» (stessa osservazione in quanto concerne il calice). 

Quando si sono scartati questi due oracoli, ci si trova di fronte a due gesti, l'uno mediante il quale il Cristo fa un ringraziamento sul pane e poi lo dà da mangiare ai suoi discepoli, l'altro mediante il quale il Cristo fa un ringraziamento sul calice poi lo dà da bere. È chiaramente a questo duplice gesto che si riferisce la duplice ingiunzione: «Fate questo in ricordo di me. In ricordo di me fate un ringraziamento sul pane, poi datelo da mangiare. In ricordo di me fate un ringraziamento sul calice poi datelo da bere»

Le parole «Questo è il mio corpo» separano bruscamente le due parti di una frase che vogliono essere unite e che lo erano in origine. Esse sono state introdotte artificialmente in un contesto che non era fatto per riceverle e che esse rompono. Esse non hanno quindi la stessa origine del contesto che le circonda. Quella osservazione si applica al calice. 

Questi due oracoli sono peraltro di provenienza cattolica; perché dicendo che il pane è il corpo di Cristo, che il calice è la nuova alleanza nel suo sangue, essi insegnano equivalentemente che il Cristo ha un corpo, un corpo nel quale si trova del sangue, un corpo carnale simile al nostro. Il Cristo che è ritenuto dire che il pane è il suo corpo, che il calice è l'alleanza nel suo sangue, vuole certamente insegnarci che egli non è un Cristo spirituale, che egli ha un corpo carnale come il nostro. Ma come raggiunge lo scopo? Ciò equivale a cercare quale sia il senso preciso di «questo è il mio corpo».

Interroghiamo Giustino. Nel Dialogo scritto intorno al 165 questo dotto menziona più volte l'eucarestia e, dalla maniera in cui ne parla, si vede chiaramente che egli conosce il testo dell'istituzione come noi l'abbiamo oggi. Per il momento mi limito a citare 70:4. In questo passo si parla di un oracolo di Isaia — che è inutile riportare qui — e apprendiamo che questo oracolo deve essere inteso a proposito del pane che il nostro Cristo ci ha ordinato di prendere in ricordo del fatto che egli ha assunto un corpo (eïs anamnésin tou sesômatopoïesthaï auton) per coloro che credono in lui, per i quali si è fatto anche sofferente, e del calice che ha ordinato di prendere in ricordo del suo sangue, rendendo grazie.

Giustino sembra voler commentare qui solo il precetto  «Fate questo in ricordo di me». Il suo ragionamento è, infatti, questo: «Dobbiamo celebrare il pane di ringraziamento conformandoci alle intenzioni del Cristo. Ma il Cristo ci ha detto di fare il ringraziamento sul pane e sul calice in ricordo di lui. Dunque dobbiamo fare quel ringraziamento in ricordo del fatto che ha assunto un corpo e che ha avuto del sangue nel suo corpo». Ma è facile vedere che si può fare l'eucarestia in ricordo del Cristo senza farla in ricordo del corpo che il Cristo ha assunto. Giustino ha introdotto nel precetto del Cristo una precisazione che non vi è. Quella precisazione è il testo: «Questo è il mio corpo» che lui gli ha fornito, poiché è questo testo che associa il corpo del Cristo al pane dell'eucarestia. E, col pretesto di interpretare l'ordine «Fate questo», in realtà egli interpreta «Questo è il mio corpo»

Dunque, nel Dialogo 70, Giustino ha commentato: «Questo è il mio corpo». E il commentario che ci dà di questo celebre testo consiste nel dire che l'eucarestia è una professione di fede nell'incarnazione del Cristo. I cristiani devono mangiare il pane e bere il calice con il ringraziamento in ricordo del corpo che Gesù ha assunto, in ricordo del sangue che era in questo corpo. Ciò risulta da «Questo è il mio corpo». Pronunciando queste parole il Cristo ha insegnato che non era un puro spirito, ma che aveva un corpo vivificato dal sangue, un corpo carnale come il nostro. Egli ha voluto dire: «Ho un corpo simile al vostro». E, ricevendo l'eucarestia, i cristiani proclamano la loro adesione agli insegnamenti del loro padrone, la loro sottomissione ai suoi ordini. 

Quanto vale questo commentario? Notiamo che Giustino, che ha vissuto a Roma, ha dovuto avere comunicazioni o con l'autore del testo stesso, oppure con uomini che conoscevano l'autore, che lo avvicinavano. La sua interpretazione dell'oracolo «Questo è il mio corpo» è probabilmente autentica, vale a dire derivata dall'autore del testo. E, se essa pare artificiale, la causa è nel testo stesso che è strano.

È ben strana, in effetti, questa affermazione mediante la quale il Cristo dichiara che il pane è il suo corpo. A quelli che obietterebbero che essa sia poco appropriata a veicolare l'incarnazione io risponderei: a cosa è appropriata? La verità è che essa è per tutti un enigma. Ma poiché questo enigma è lì che si erge davanti a noi, si deve tentare di risolverlo. Tentiamo. 

E innanzitutto mettiamoci nella situazione dell'autore. Egli si è trovato in presenza di un comandamento il cui senso è questo: «Fate il ringraziamento sul pane e sul calice, poi mangiate il pane e bevete il calice in ricordo di me». Questo comandamento è derivato dal Cristo stesso, ed è stato comunicato mediante una rivelazione a Paolo che è stato, allo stesso tempo, incaricato di promulgarlo. Su questi due punti lui, teologo cattolico del 150 circa, non aveva alcun dubbio. Era ben sicuro anche che il Cristo avesse voluto obbligarci con questo ordine a mangiare il pane e a bere il calice, in ricordo della sua incarnazione e della sua morte cruenta sul calvario. Ma ha constatato con dolore che, da Marcione, si attribuiva il precetto «Fate questo in ricordo di me» al Cristo spirituale, al Cristo che non aveva un corpo carnale come il nostro. L'unico modo per confutare i marcioniti era mettere sulla bocca del Cristo le precisazioni che erano nel suo pensiero e di completarlo introducendovi la menzione dell'incarnazione del Cristo.

L'operazione era ardua. L'autore non ha osato far dire al Cristo nei suoi termini: «Io ho un corpo simile al vostro; mangiate il pane in ricordo di quella verità». Fece una scorciatoia. Mise sulla bocca del Cristo un'affermazione che, per mezzo di deduzione, doveva condurre il lettore allo stesso risultato. L'affermazione che scelse fu «Questo è il mio corpo». Con quella formula i fedeli erano avvertiti che tra il pane eucaristico e il corpo del Cristo un rapporto esisteva. La natura di questo rapporto non era loro spiegato. A loro indovinarlo. Erano posti all'ingresso di un percorso al termine del quale si trovava l'incarnazione. Ed ecco i passi che dovevano condurli dal punto di partenza al punto d'arrivo: «Questo pane che io vi do' si trasformerà nel vostro corpo; da ora si può dire che esso è il vostro corpo, perché il vostro corpo è fatto di pane. Ebbene, è ​​lo stesso per me. Il mio corpo, anch'esso, è fatto di pane. Questo pane è la materia che costituisce il mio corpo: esso è il mio corpo. Dunque il mio corpo non è un fantasma; esso è esattamente della stessa natura del vostro; esso è carnale come il vostro. Voi mangerete questo pane in memoria di me; mangiandolo professerete che il mio corpo e il vostro sono della stessa natura perché entrambi si nutrono di pane; voi professerete la mia incarnazione; voi condannerete la blasfemia di Marcione».

 È beninteso che quella maniera di enunciare l'incarnazione di Cristo è la più oscura, la più artificiale che si possa immaginare. E le osservazioni che si sono appena lette non tendono a giustificarla. Esse si propongono soltanto di spiegare come questo artificio abbia potuto essere inventato. Esse vogliono mostrare che l'autore cattolico di «Questo è il mio corpo» è stato portato a quella formula dal suo desiderio di mettere il dogma dell'incarnazione in un contesto che non era fatto per riceverlo, per la sua ostinazione a perseguire uno scopo con  dei mezzi che non vi erano appropriati.

Fin qui ho preso per  guida il testo del Dialogo 70:4 che ci informa che il Cristo ha prescritto di «prendere il pane» in ricordo della sua incarnazione. Ma vi è anche nella grande Apologia 66:2 un testo celebre dove si parla del cibo sul quale il ringraziamento è stato fatto. Eccolo:

Quel cibo dal quale il nostro sangue e la nostra carne sono nutriti per mezzo di trasformazione, abbiamo appreso che è la carne e il sangue di Gesù fatto carne. 

Quindi il pane e il vino sono la carne e il sangue di Gesù incarnato. Ma questo stesso pane e questo stesso vino «si trasformano» nella nostra carne e nel nostro sangue. Sicché l'eucarestia è al contempo, da una parte, il corpo e il sangue di Gesù incarnato, d'altra parte, il nostro corpo e il nostro sangue. Essa possiede due proprietà distinte. Distinte, non di per sé, ma per la maniera con cui le conosciamo. Che il pane e il vino costituiscono il nostro corpo, lo constatiamo dall'esperienza che ci fa assistere alla trasformazione dei cibi nella nostra stessa sostanza. Che questo stesso pane e questo stesso vino hanno costituito la carne e il sangue di Gesù durante la sua vita sulla terra, noi lo sappiamo «dall'insegnamento che abbiamo ricevuto». L'insegnamento alluso qui è la formula «Questo è il mio corpo» che è riportata di seguito. A parte la maniera con cui le conosciamo, queste due proprietà sono solo una. Il pane e il vino dell'eucarestia sono il corpo e il sangue di Gesù allo stesso titolo e nello stesso senso in cui sono il nostro corpo e il nostro sangue. Essi sono la materia da cui provenivano il corpo e il sangue di Gesù durante la sua vita terrena, proprio come essi sono la materia da cui provengono il nostro corpo e il nostro sangue. Da ciò consegue che il pane e il vino dell'eucarestia provano l'incarnazione di Gesù e condannano l'eresia di Marcione. 

Ecco ciò che vuol dire Giustino in questo punto della prima Apologia in cui i teologi romani hanno creduto di riconoscere il dogma della transustanziazione. Egli si riferisce a «Questo è il mio corpo», lo interpreta, spiega che il Cristo ha voluto dire questo: «Il mio corpo è della stessa natura del vostro»


5. Il velo delle donne.

Quella dissertazione, che si estende da 3 a 16, non ha alcun rapporto né con l'elogio che la precede, né con il biasimo che la segue. Essa fa figura di blocco irregolare: è un pezzo interpolato. È esistita una versione nella quale 17 veniva dopo 2 e il cui tenore  era: 

Io vi lodo per il fatto che vi ricordate di me in tutto e per il fatto che custodite le tradizioni così come io le ho trasmesse. Ma non lodo questo, ovvero che vi riuniate non per il meglio ma per il peggio. 

Poi un interpolatore è venuto che ha inserito, laddove noi la leggiamo oggi, la dissertazione sul velo delle donne e che, nello stesso momento, è stato obbligato ad introdurre in 17, a guisa di raccordo, l'espressione «prescrivendo ciò». Quella piccola nota, che si presenta come un legame, è in realtà un artificio volto a mascherare l'interpolazione. 

Esaminiamo il contenuto di quella dissertazione. Delle donne si sono messe a pregare e a profetizzare nelle riunioni pubbliche. Senza dubbio le riunioni pubbliche non sono menzionate nel testo, ma vi sono sottintese, perché nessuno poteva pensare di imporre l'uso del velo alle donne nelle loro case private, d'altronde la profezia poteva essere praticata solo nelle riunioni pubbliche.  L'autore non vede alcun inconveniente nel fatto che le donne esercitino il ministero della preghiera e della profezia nelle riunioni. Ma, in nome della decenza, vuole che esse indossino un velo. Ed espone le molteplici ragioni che obbligano le donne a portare un velo. Una di esse, attinta dal libro di Enoc, fa allusione al peccato che certi angeli commisero una volta con le donne, e lascia intendere che la stessa disavventura potrebbe capitare alle donne che osassero pregare e profetizzare senza velo nelle riunioni pubbliche. Ecco la tesi.

Ed ecco l'osservazione che comporta. È tra i montanisti che la profezia divenne un ministero esercitato dalle donne (si veda più oltre, pag. 101). L'autore della dissertazione è un cattolico che, senza essere ostile alle pratiche montaniste, tenta di sottometterle alle regole del buon senso. In quell'epoca la scuola di Marcione era l'unica ad identificare il Cristo con Dio; ovunque altrove la cristologia era ancora subordinazionista. Questo è ciò che spiega la professione di fede di 3 secondo la quale Dio è il capo del Cristo, proprio come l'uomo è il capo della donna e come il Cristo è il capo dell'uomo.

La nostra dissertazione non è omogenea. I versetti 11 e 12, il cui obiettivo è chiaramente  di mettere la donna sullo stesso piano dell'uomo, apportano un correttivo a 9 che mette nettamente la donna al di sotto dell'uomo. Essi sono la risposta di un montanista esaltato alla critica di un montanista moderato.

NOTE 

MARCIONE E IL TESTO «QUESTO È IL MIO CORPO» 

Marcione, che non riconosceva altro vangelo che quello di Luca, diede in questo libro un'edizione nella quale non non si trovavano né i racconti dell'infanzia, né certi passi del nostro Luca attuale particolarmente opposti alla dottrina marcionita. Altri testi più o meno imbarazzanti per quella dottrina erano consegnati nella sua edizione ma muniti di glosse che li conciliavano o, in ogni caso, tentavano di conciliarli con il marcionismo. Queste glosse erano raccolte in uno studio speciale che accompagnava il testo marcionita del vangelo di Luca e che era intitolato Antitesi, vale a dire opposizioni tra la dottrina del Cristo e la dottrina del Creatore promulgata nell'Antico Testamento. 

Su questi due punti noi siamo informati da Tertulliano che, nel 4° libro del suo trattato Adversus Marcionem, talvolta rimprovera a Marcione di aver soppresso un testo autentico di Luca e talvolta cita, prima di confutarlo, uno dei suoi commentari. Prendiamo per esempio la scena della Trasfigurazione. Il testo marcionita di Luca segnalava la presenza di Mosè ed Elia accanto al Cristo glorioso, ma non diceva che il Cristo si fosse intrattenuto con loro. E nelle Antitesi, Marcione spiegava che il Cristo aveva fatto intervenire questi due personaggi per rinnegarli; a prova di ciò citava l'oracolo celeste che glossava così: «È il Figlio che voi dovete ascoltare e non Mosè o Elia». Tertulliano, in 4:22, segnala la lacuna del testo del vangelo marcionita. Egli dice: «Marcione non vuole che Mosè si sia intrattenuto con il Signore». Quanto al commentario, egli lo riporta, poi lo confuta con il suo vigore consueto. Naturalmente al momento in cui egli scrive, egli ha sul suo tavolo due esemplari di Luca, un esemplare del testo cattolico e un esemplare del testo marcionita al quale le Antitesi erano allegate. Queste osservazioni preliminari erano necessarie per la comprensione del problema che ora devo discutere. 

Supponiamo che l'oracolo: «Questo è il mio corpo», «Questo è il mio sangue», derivi o dal Cristo o da Paolo. Marcione che, in quella ipotesi, lo ha saputo necessariamente e ha dovuto prendere posizione in merito, si è trovato di fronte a due partiti: il partito dell'interpretazione e il partito della soppressione. Egli ha potuto, per mezzo di un'esegesi artificiale, adattare o, se si vuole, tentare di adattare il detto oracolo alla sua dottrina del Cristo spirituale. Ha potuto anche accorgersi che un simile tentativo era irrealizzabile e, in preda alla disperazione, decidersi per la soppressione. Ha dovuto scegliere tra questi due espedienti. Ma ha dovuto optare per l'uno o per l'altro, il che vuol dire che non ha potuto introdurre nella sua edizione di Luca le parole «Questo è il mio corpo», «Questo è il mio sangue», senza dedicare loro nelle Antitesi un commentario utile.

Ma la sola soluzione alla quale non ha potuto fermarsi è proprio quella che avrebbe adottato, a credere a Tertulliano la cui dissertazione su questo punto di Luca 4:40 dice in sostanza questo: «Il Cristo dichiara che il pane è la figura del suo corpo. Se il suo corpo non fosse stato vero, non avrebbe potuto rappresentarlo con una figura. La realtà del corpo del Cristo è confermata dalla menzione del calice dove si tratta di un'alleanza suggellata dal sangue. Infatti, se si obietta che vi sono corpi non carnali,  in ogni caso un corpo che ha del sangue è necessariamente un corpo carnale». Ci si aspettava di incontrare una delle due note seguenti: «Marcione ha soppresso queste parole del Cristo che lo disturbavano», oppure: «Marcione, che non ha osato sopprimere le parole del Cristo, le ha deviate dal loro vero significato per mezzo di questo espediente che vado a confutare». In realtà Tertulliano non rimprovera a Marcione di aver soppresso «Questo è il mio corpo»; nemmeno lo accusa di averne travestito il senso. Menziona un'obiezione che potrebbe essere fatta, ma senza dire che essa sia stata formulata. D'altronde, quella obiezione che consiste nell'interpretare spiritualmente «Questo è il mio corpo» non raggiunge «Questo è il mio sangue» e la risposta di Tertulliano mette proprio questo punto in rilievo. Da queste constatazioni risulta principalmente che Tertulliano ha letto l'oracolo «Questo è il mio corpo» nel suo esemplare marcionita di Luca, secondariamente che egli non ha letto nelle Antitesi alcun commentario destinato a falsificare il senso di questo oracolo imbarazzante. E si è autorizzati a concludere che Tertulliano attribuisce a Marcione il solo approccio che questo eretico non ha potuto tenere. 

Tertulliano deve essere nell'errore. Oppure ha letto superficialmente le Antitesi e non ha visto tutto quello che vi si trovava. Oppure il suo esemplare dell'edizione marcionita di Luca era impreciso. La prima ipotesi è molto improbabile. Esaminiamo la seconda. 

Per questo rileviamo alcuni rimproveri che Tertulliano esprime contro il suo avversario. In 2:17 egli accusa Marcione di aver cancellato dal vangelo il testo che ci mostra Dio che fa cadere la pioggia sui buoni e sui cattivi. E l'accusa è ribadita in 4:17. È nel vangelo di Luca che Marcione è ritenuto aver fatto quella soppressione perché Tertulliano, che ci tiene a porsi sul terreno del suo avversario, dichiara di non volergli opporre che questo vangelo. Lo stesso rimprovero è formulato a proposito del testo dove il Cristo dichiara di non essere venuto per abolire la legge. «Marcione ha cancellato queste parole come se fossero state aggiunte dopo il fatto», leggiamo in 4:7, poi in sostanza in 4:9, poi in 4:12. Ma questi due oracoli che si leggono in Matteo 5:45, 47 non si trovano in Luca. Chiaramente Tertulliano li leggeva nel suo esemplare cattolico di Luca. Ciò prova che tale esemplare dava ospitalità a testi che non vi avevano alcun diritto, che esso non era esente da ogni influenza.

E allora una convergenza si impone. Se l'esemplare cattolico di Luca di cui Tertulliano disponeva conteneva certe alterazioni, perché il suo esemplare del testo marcionita sarebbe stato necessariamente meglio conservato? Poiché Marcione, a confessione di Tertulliano, non ha affatto tentato, nelle sue Antitesi, di alterare il testo «Questo è il mio corpo», egli non lo ha introdotto nel suo vangelo. Quella conclusione formulata più sopra mantiene tutto il suo valore. Essa si impone anche a coloro che si ostinerebbero a mettere il suddetto oracolo in bocca a Paolo o addirittura al Cristo. Quanto a me, non mi è spiacevole ricordare che io vi sono arrivato per una via del tutto diversa poiché io faccio risalire l'apparizione di «Questo è il mio corpo» intorno al 150. A coloro che opporrebbero l'esemplare marcionita di Luca che Tertulliano aveva a sua disposizione, si è in diritto di rispondere: Questo esemplare era interpolato. [8]


NOTE

[1] Quella interpretazione risponde meglio al verbo exdéqomaï che ha talvolta il significato di attendere (1 Corinzi 16:22; Atti 17:6) ma che significa soprattutto raccogliere. 

[2] Boissier, La Religion romaine, II, 282.

[3] Von der Goltz, Tischgebete und abendmahlsgebete, pag. 5-13.

[4] Scartando il termine «pasto» mi conformo all'intenzione dell'autore che si serve, è vero, del termine deïpnon, ma non vuole che questo deïpnon sia un pasto. 

[5] La conversion de saint Paul nella Bibliothèque de l'école des Hautes-Etudes, scienze religiose, I, 186.

[6] Nella mente del giurista Plinio, la parola «innoxius» indica un pasto che, per la sua frugalità, non contravviene alle leggi suntuarie, in particolare alla legge Fannia. Renan (Les Evangiles, pag. 478) traduce: «per prendere assieme un pasto ma un pasto comune e perfettamente innocente». Si deve tradurre: «per prendere un pasto collettivo ma che non ha però nulla di illegale». (Si veda Baumgartner, in Zeitschrift für die katholische Theologie, 33 (1909), 54).

[7] Quella spiegazione si applica solo ai malati e lascia da parte i morti. È quindi incompleta; ma l'autore fa ciò che può.

[8] Harnack, Marcion: das Evangelium vom fremden Gott, pag. 236, riconosce che la Bibbia di Marcione fu di buon'ora interpolata dai suoi stessi sostenitori, e apporta varie testimonianze a sostegno di quell'asserzione. 

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