domenica 21 gennaio 2024

Gli scritti di San Paolo — LA PRIMA EPISTOLA AI CORINZI (LA RESURREZIONE)

 (segue da qui)


LA RESURREZIONE

Il capitolo 15 contiene una dissertazione sulla resurrezione del corpo. Ne ha stabilito dapprima la realtà; ne espone in seguito le modalità. 
La realtà della resurrezione del corpo è dimostrata soprattutto dalla resurrezione del Cristo, sicché quella parte della dissertazione può riassumersi nel sillogismo seguente: Se i nostri corpi non hanno alcuna resurrezione da attendere, il Cristo stesso non è risorto; ma la resurrezione del Cristo è un fatto innegabile; quindi dobbiamo tenere per certo che anche i nostri corpi resusciteranno. La sostanza di questo sillogismo si trova d'altronde nei versetti 12-13:
Ma se si predica che il Cristo è risorto dai morti, come mai certi tra voi vi dicono che non vi è resurrezione dei morti? Se non vi è resurrezione dei morti, il Cristo non è risorto.

1. La resurrezione del Cristo
Dunque vi sono a Corinto dei cristiani che respingono la resurrezione dei corpi, ma che però hanno fatto professione di credere alla resurrezione del Cristo. Quest'ultimo punto è sicurissimo, perché Paolo, che ha predicato lui stesso a Corinto la resurrezione del Cristo, è testimone che i cristiani di quella città hanno «ricevuto» la sua predicazione, vi si sono «attenuti», (1), in una parola hanno «creduto» (11) ciò che era stato loro predicato. Poiché hanno dato la loro adesione alla resurrezione del Cristo, pena di essere incoerenti, devono dare la loro adesione anche alla resurrezione dei corpi. L'argomentazione parte da un dogma accettato per provare il dogma contestato. Essa è in regola con le leggi della logica. 

È in regola. Eppure certi dettagli sorprendono. E innanzitutto perché il brevetto di ortodossia consegnato ai Corinzi è espresso al passato: «è così che voi avete creduto»? Perché questo giro di parole che, se è voluto, significa che i Corinzi hanno avuto, in origine, una credenza ortodossa sulla resurrezione del Cristo, ma non ce l'hanno più? Si dirà senza dubbio che non sia voluto, che sia dovuto semplicemente ad una negligenza di stile. Forse. Ma le negligenze nello stile hanno solitamente per causa la ricerca del minimo sforzo. Era dunque così difficile da dire: «È così che voi credete»? Quella espressione non era di per sé del tutto indicata e non si presentava naturalmente in una frase la cui prima asserzione era questa: «È così che noi predichiamo»? E poi l'espressione «è così che voi avete creduto» non è l'unica nel suo genere. Essa fa seguito a quell'altra: «nel quale vi siete attenuti». E questa è così bizzarra che la Vulgata l'ha soppressa per sostituirle l'espressione presente «nel quale vi attenete». Strane negligenze quelle che sembrano far dire a Paolo una prima volta: Durante «tutto il tempo che io sono stato presso di voi, voi vi siete attenuti nella fede nella resurrezione del Cristo che avete in seguito abbandonato», e una seconda volte: «È così che voi avete creduto, all'inizio, ma voi non credete più così, mentre noi vi predichiamo sempre così».

Ciò non è tutto. Dopo aver dichiarato ai Corinzi che il vangelo procura loro la salvezza, l'apostolo aggiunge la clausola seguente: (2) «Se voi lo custodite nel senso in cui io ve lo ho annunciato; sennò voi avrete creduto invano». Leggendola non si può fare a meno di osservare che ciò è inutile dirlo. In effetti, ciò è inutile dirlo. Perché dunque è detto? Perché Paolo ritiene necessario spiegare ai Corinzi che ci sono maniere e maniere di custodire il vangelo, e che la sola maniera utile di custodirlo è mantenerlo nel suo senso tradizionale? Accade raramente alle precauzioni di questo tipo di avere un carattere preventivo. Quasi sempre esse sono prese quando il male è compiuto. Paolo deve sapere che la sua predicazione sulla resurrezione del Cristo è stata sottoposta ad un'esegesi che l'ha sublimata. Il danno è fatto e lui lo sa. Soltanto, per ragioni che ignoriamo ora, che  sveleremo presto, egli assume l'approccio del profeta che vede in anticipo il pericolo e mette i fedeli in guardia contro di esso. 
Ciò che ci sorprende soprattutto sono i termini tramite i quali esordisce la dissertazione: «Vi comunico, fratelli, il vangelo che vi ho annunciato» (il vangelo della resurrezione di Cristo). Comunicare una cosa equivale a farla conoscere a qualcuno che non la conosce ancora. Paolo, che si appresta a comunicare ai Corinzi il vangelo della resurrezione di Cristo, suppone quindi che i suoi lettori ignorino questo vangelo e abbiano bisogno che lo si esponga davanti a loro. Ma poiché i Corinzi hanno ricevuto questo vangelo, tre anni prima, dalla bocca stessa dell'apostolo, come hanno potuto dimenticarlo al punto che una nuova comunicazione sia divenuta necessaria? D'altronde come conciliare un oblio completo della dottrina della resurrezione del Cristo con una dissertazione la cui trama presuppone la fede in quella dottrina? Come farlo rientrare in una argomentazione dove la resurrezione del Cristo serve da mezzo di dimostrazione? Noi siamo nell'incoerenza. 
Ma forse abbiamo esagerato la portata di «Io vi comunico». Forse l'apostolo non intende fare una vera comunicazione del vangelo della resurrezione del Cristo? Il seguito del testo ce lo insegnerà. Leggiamo questo: 
Infatti io vi ho trasmesso ciò che io stesso ho ricevuto, cioè che il Cristo è morto per i nostri peccati secondo le Scritture, e che è stato sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture... 
Qui c'è un dispiegamento di precisazioni che non è per nulla necessario. A che pro spiegare che il Cristo è morto, che è morto per i nostri peccati, che è stato sepolto, che la sua resurrezione ha avuto luogo il terzo giorno? Tutto ciò non denota un'impazienza fortissima di giungere al fatto che è questo: «Poiché voi credete alla resurrezione del Cristo, credete anche alla resurrezione dei morti, perché se i morti non risorgono, neppure il Cristo è risorto»
Tuttavia questi introduzioni, se fossero sole, potrebbero essere messe sul conto di una prolissità che non ha saputo disciplinarsi. Ma ce ne sono altre due davanti alle quali quella spiegazione comoda è impotente. Vi è innanzitutto l'espressione «ciò che io stesso ho ricevuto»; poi quell'altra espressione «secondo le Scritture», la quale è ribadita. Entrambe non fanno avanzare in nulla il problema della resurrezione dei morti, non vi apportano alcuna luce e, da questo punto di vista, sono pure introduzioni. Ma nessuno attribuirà la loro presenza qui alla prolissità. Esse fanno parte di un programma, esse tendono ad uno scopo. Non è un caso che le «Scritture» (si tratta ovviamente dell'Antico Testamento) siano menzionate qui come se avessero annunciato la morte del Cristo così come la sua resurrezione. E quella osservazione vale soprattutto per «ciò che ho ricevuto». È deliberatamente che Paolo afferma di essere stato l'eco fedele della predicazione degli apostoli; perché è di loro che si parla qui come mostra chiaramente il versetto 11: «Sia io o siano loro, è così che noi predichiamo»
Un tentativo è stato fatto di porre il suo  insegnamento sulla resurrezione del Cristo in opposizione all'insegnamento dei Dodici. Esso aveva per obiettivo di aumentare il prestigio di uno dei partiti, di screditare l'altro. Contro chi era diretto quella manovra? Era contro Paolo? Era contro i Dodici? Non importa per il momento. Si è voluto opporre Paolo ai Dodici nella questione della resurrezione del Cristo. Paolo dichiara che quella opposizione non esiste e che egli parla della resurrezione del Cristo come i Dodici gli hanno insegnato a parlarne. Ecco ciò che vuol dire «ciò che io ho ricevuto», completato da 11 «sia io, o siano loro, è così che noi predichiamo». Ciò costituisce una difesa sia per lui sia per i Dodici. 
Allo stesso tempo constatiamo che la resurrezione del Cristo dà luogo ad una controversia e che quella controversia deve, a giudizio dell'apostolo, essere risolta senza indugio. Noi ci immaginiamo che la resurrezione del Cristo intervenisse qui a titolo puramente incidentale e unicamente per dimostrare la resurrezione dei morti. E quella impressione motivata dal versetto 12 è quella dei commentatori che ci dicono tutti che il capitolo 15 della prima epistola ai Corinzi tratta della resurrezione dei morti, di cui dimostra la realtà con l'aiuto della resurrezione del Cristo. Errore. Nel suddetto capitolo la resurrezione del Cristo serve infatti a provare proprio la resurrezione dei morti; ma prima di essere impiegata a questo scopo, essa è liberata da una controversia alla quale era sottoposta. 
Eppure non abbiamo ancora il diritto di dire che Paolo vuole qui comunicare ai Corinzi, nel senso rigoroso del termine, la resurrezione del Cristo.
Continuiamo la nostra lettura (5): 
...e che è apparso a Cefa, in seguito ai Dodici. In seguito è apparso in una sola volta a più di cinquecento fratelli, di cui la maggior parte sono ancora vivi, ma alcuni sono morti. In seguito è apparso a Giacomo, in seguito a tutti gli apostoli. Ultimo di tutti, come ad un aborto, egli è apparso a me. Infatti io sono il più piccolo degli apostoli, io che non sono degno di essere chiamato apostolo, perché io ho perseguitato la chiesa di Dio. 
Ciò che si vede innanzitutto in questo testo, ciò che si vede chiaramente, è la preoccupazione di enumerare tutte le apparizioni del Cristo risorto, di non lasciarne sfuggire una sola, e anche di enumerarle nell'ordine cronologico in cui esse hanno avuto luogo. È Pietro che è stato favorito della prima apparizione; è Paolo che ha ricevuto l'ultima; tra questi due estremi ciascuno degli altri è menzionato nel suo posto, ma sono i Dodici a venire immediatamente dopo Pietro. Eccoci infine di fronte ad una vera comunicazione e «io vi comunico» va preso alla lettera. L'apostolo dice tutto ciò che sa della resurrezione del Cristo. Ne parla ai Corinzi come se mai ne avesse loro parlato. E poiché egli dichiara di averne già parlato, ne consegue che i Corinzi hanno nel frattempo dimenticato tutto. 
Hanno dimenticato tutto. Hanno accettato il vangelo di Paolo, vi si sono attenuti per qualche tempo, poi lo hanno abbandonato, oppure se ne hanno mantenuto la lettera, ne hanno perduto il senso. Hanno dimenticato così completamente che credono all'esistenza di un conflitto tra il vangelo di Paolo e il vangelo dei Dodici. E Paolo è obbligato a proclamare il suo accordo dottrinale con questi personaggi. Egli afferma di non aver mai predicato che il vangelo dei Dodici. Egli accompagna quella affermazione con grandi proteste di umiltà. Non si mette solo al di sotto dei Dodici, ma persino al di sotto degli apostoli. [1] Egli non dimentica, non vuole che si dimentichi, che ha cominciato col perseguitare la chiesa di Dio. E, proprio come non può negare dopotutto che ha lavorato molto in seguito per la causa del Cristo, egli riporta a Dio il merito delle sue fatiche.
La finzione che sospettavamo si manifesta ora in piena luce. Ma quale scopo persegue? Lo sapremo quando avremo delucidato il conflitto dottrinale che è stato immaginato tra Paolo e i Dodici. Cosa volevano coloro che hanno inventato questo conflitto contro il quale Paolo protesta qui dichiarando che esso non è mai esistito? O piuttosto, siccome il loro obiettivo era chiaramente di gettare il discredito su una dottrina, quale dottrina attaccavano? La premura che Paolo mette nell'esporre la sua colpa e nel prostrarsi ai piedi dei Dodici invita a pensare che è lui ad essere preso di mira. Esaminiamo quell'ipotesi.
Essa fa di Paolo un accusato. Ce lo presenta come un uomo la cui ortodossia è attaccata e a cui alcuni avversari rimproverano, ingiustamente peraltro, di deviare in ciò che concerne la resurrezione del Cristo, dall'insegnamento dei Dodici. È proprio a quella situazione che risponde l'atteggiamento di Paolo? Fa qui figura di accusato che perora la sua causa per sfuggire alla riprovazione di cui è l'oggetto?  
Senza dubbio egli dichiara di aver sempre parlato della resurrezione di Cristo come ne parlano i Dodici. E, in questo senso, egli si difende. Senza dubbio testimonia ai Dodici e agli apostoli loro aiutanti l'espressione della più profonda deferenza. E dà così una prova della sua umiltà. Ma non teme di atteggiarsi da accusatore. Rimprovera discretamente ai Corinzi di abbandonare il suo vangelo, il vangelo dei Dodici, poiché i Dodici e lui predicano la stessa cosa; li rimprovera di abbandonare il vangelo non nella sua lettera, ma nel suo spirito, e li informa che, per questo fatto, la loro fede è diventata vana. Quindi i Corinzi, sul capitolo della resurrezione del Cristo, si discostano dal vangelo dei Dodici. Ma l'ipotesi che è discussa qui presuppone, al contrario, che i Corinzi siano rimasti fedeli all'insegnamento dei Dodici e che rimproverano a Paolo di essersene discostato. Essa non corrisponde al testo. Vi rinunciamo e cerchiamo un'altra spiegazione. Poiché il conflitto dottrinale immaginato tra Paolo e i Dodici non ha per obiettivo di screditare Paolo, vediamo se non si tratta di una macchina da guerra montata contro i Dodici. 
In quell'ipotesi, la risposta di Paolo deve essere in sostanza questa: «Il vostro scopo ponendomi in opposizione con i Dodici è di sopraffare questi ultimi e di aumentare il mio prestigio. Voi volete far credere che i discepoli immediati del Cristo non hanno capito nulla della dottrina del loro divino maestro e che io solo ho ricevuto in deposito la rivelazione cristiana. Io non ho meritato questo eccesso d'onore; loro non hanno meritato quella umiliazione. Io non sono niente presso i Dodici, non sono nemmeno degno di essere annoverato tra gli apostoli, io che una volta ho perseguitato la Chiesa di Dio. Senza dubbio ho lavorato più degli apostoli e dei Dodici, ma è la grazia di Dio che mi ha reso ciò che sono; in realtà non sono io che ha lavorato, è la grazia di Dio che ha lavorato con me. Io ho visto il Cristo; sì, ho visto il Cristo risorto. Ma non sono stato il solo a ricevere quel favore. Tutti gli apostoli l'hanno ricevuto prima di me. Prima degli apostoli un gran numero di cristiani, per non parlare di Giacomo, l'avevano avuto. I Dodici lo avevano ricevuto prima di tutti gli altri, e, prima dei Dodici, Pietro l'aveva ricevuto. Respingete ciò che i Dodici dicono della resurrezione del Cristo, col pretesto di ricevere soltanto il mio insegnamento. Come avrei potuto parlarvi di questo miracolo diversamente dai Dodici, poiché mi sono limitato a trasmettervi ciò che avevo ricevuto da loro? Loro e io insegniamo la stessa cosa. Allontanandovi da loro, è da me che voi vi allontanate. Il vangelo di cui mi attribuite la paternità non è mio, siete voi che lo avete immaginato. In ogni caso, se avete ancora la lettera del vangelo, voi non ne avete più lo spirito»
Sarebbe molto difficile da credere che una chiave che apre con tanta facilità la serratura non sia stata fatta apposta per essa. Siamo autorizzati a concludere che i cristiani messi in scena nella dissertazione sulla resurrezione del Cristo pretendono di seguire Paolo ad esclusione dei Dodici, e che Paolo rinnega questi falsi discepoli che vogliono opporlo ai suoi maestri. Siccome ciò non ha potuto accadere a Corinto, tutta la scena è fittizia e dietro Paolo si nasconde un'apologeta dell'insegnamento dei Dodici. 
Chi è questo difensore dei discepoli immediati del Cristo che parla qui nel nome di Paolo? Saremmo incapaci di dirlo o persino di congetturarlo, se non avessimo ad informarci i discepoli che lo acclamano come loro maestro e che egli rinnega. Loro sappiamo chi sono. Conosciamo gli uomini che hanno confiscato Paolo, che hanno preteso di prenderlo per unico dottore, che si sono vantati di essere i discepoli di Paolo, di professare il vangelo di Paolo. Questi sono i marcioniti. E questo Paolo che li rinnega, che dichiara di non essersi discostato in nulla dall'insegnamento dei Dodici suoi maestri, è un dotto cattolico della seconda metà del secondo secolo. 
Noi abbiamo ora la spiegazione di certi dettagli che ci parevano bizzarri. I marcioniti dicevano che la morte del Cristo era stata puramente apparente; è per confutarli che Paolo, non contento di affermare la morte del Cristo, menziona anche la sua sepoltura. E se fa intervenire ripetutamente la testimonianza delle Scritture, è per chiudere la bocca ai marcioniti che insegnavano che il Cristo, manifestazione del Dio buono, non aveva nulla in comune con l'Antico Testamento, opera del Dio malvagio. 


2. La resurrezione dei morti
Gli avversari della resurrezione dei morti contro i quali l'autore combatte si fanno battezzare per i morti (29), vale a dire per persone che desideravano ricevere il battesimo, che si preparavano a questo grande atto, e che la morte ha sorpreso prima che abbiano potuto metterlo in esecuzione. Proprio Crisostomo in Omelie sulla prima lettera ai Corinzi 41, 1, attesta che, ancora ai suoi tempi, quest'usanza fosse in vigore nella chiesa di Marcione. Descrive addirittura il rito secondo il quale i marcioniti conferivano il battesimo ai defunti. I morti erano stesi sul letto funebre, si procedeva al cerimoniale del battesimo che comportava domande, risposte, una professione di fede, ecc. Un cristiano nascosto sotto il letto rispondeva a tutte le domande, dichiarava di voler ricevere il battesimo e lo riceveva per il defunto. 
Ma cosa attira qui la nostra attenzione, non è il rito, sono i casi di morte che, secondo il versetto 29, hanno dato luogo alla sua celebrazione. Catecumeni sono morti; il loro numero è abbastanza considerevole da fornire materia per un argomento. Chi crederà che ciò sia potuto accadere nella chiesa di Corinto nell'anno 55? Anche nelle grandi chiese i casi di morte di catecumeni erano, per forza di cose, eccezionali. È solo dopo un periodo di quindici o venti anni che essi potevano costituire un numero apprezzabile. In una chiesa che conta appena cinque anni di esistenza e che, per più di un anno, si teneva tutt'intera nella casa di uno dei suoi membri, non si vede come il battesimo per i morti avrebbe potuto divenire una consuetudine. Il versetto 29 conferma il risultato ottenuto più sopra. Gli avversari della resurrezione che vi sono denunciati appartengono al secondo secolo e il testo di Crisostomo ci aiuterebbe a trovarli se non sapessimo già chi sono. 

3. Modalità della resurrezione. 
Dopo aver stabilito il fatto della resurrezione del corpo, l'autore ne espone le modalità. Ma, in quella dissertazione che va da 35 a 58 osserviamo certe asserzioni strane. 
Innanzitutto questa (50): «Ciò che dico, fratelli miei, è che la carne e il sangue non possono ereditare il Regno di Dio né la corruzione ereditare l'incorruttibilità». Ireneo, seguito da tutti i teologi, spiega (5, 14, 1) che quella sentenza di esclusione non si rivolge alla sostanza stessa della carne e del sangue, ma solo alle opere carnali. Il problema è che l'espressione non menziona affatto le opere carnali ma solo la carne e il sangue. 
E poi vi è quest'altro testo (56): «Il pungiglione della morte è il peccato e la potenza del peccato è la legge». Non ci si aspettava di vedere apparire qui la legge mosaica — perché è proprio di essa che si parla — e si ha la nettissima impressione che essa intervenga unicamente per ricevere il colpo di mazza che le è assestato. È quindi un nemico implacabile che è andato a cercarla per concedersi il piacere di colpirla.
Chi è questo nemico? È evidentemente colui che in Romani 5:20 ha scritto che la legge era intervenuta per moltiplicare il peccato e che, in Galati 3:19, ha formulato lo stesso pensiero. [2] La qualificazione di «potenza del peccato» associata alla legge deriva da un discepolo di Marcione che ci mostra il Dio creatore che si ingegna di far peccare gli uomini per condannarli in seguito a morte e che tende tramite la legge mosaica una trappola ai discendenti di Adamo, proprio come, in origine, aveva teso una trappola ad Adamo stesso. Ed è anche un discepolo di Marcione ad aver scritto che la carne e il sangue non possono ereditare il regno di Dio. 
Ora che la nostra attenzione è destata proseguiamo la nostra inchiesta. Alla versione marcionita appartiene il brano 45-49 che  distingue due uomini, l'uno anima vivente, l'altro spirito vivificante; l'uno animale, l'altro spirituale; quest'ultimo di origine celeste mentre il primo è di origine terrestre. L'origine marcionita di questo brano — riconoscibile nel nostro testo attuale — diventa ancora più chiara se si adotta per 45b e 47b la lezione di Marcione che ci è pervenuta tramite Tertulliano e tramite il Dialogo di Adamanzio. [3] 
Alla stessa redazione marcionita appartiene il versetto 22 che insegna che tutti saranno vivificati dal Cristo come tutti muoiono tramite Adamo. Ad essa appartengono anche gli ultimi nove versetti di 15 eccezion fatta del versetto 52 o almeno della parte di questo versetto che menziona la tromba e la resurrezione dei morti.
Fino al 140 circa, il capitolo 15 era tutt'intero nel nulla. In quella data un discepolo di Marcione incorporò nella prima epistola ai Corinzi un'esposizione spiritualista della vita futura nel corso della quale egli scagliava una freccia all'indirizzo del Dio creatore. Questa esposizione è stata conservata (22 e 45-58 salvo 52), ma è ora inclusa in una dissertazione sulla resurrezione del corpo e sulla resurrezione del Cristo. Essa deve questa sorte all'editore cattolico del 165 circa. 
Ma quella riduzione in schiavitù ha avuto conseguenze curiose. Prendendo al suo servizio la tesi spiritualista dei marcioniti lo scrittore cattolico è stato obbligato a non urtarla troppo apertamente e, non potendo sopprimere il conflitto delle idee, ad attenuare il conflitto delle espressioni. Da lì i suoi sforzi per sublimare il corpo dei risorti. Questo corpo non è più animale, è spirituale, è incorruttibile, è glorioso (42-44). Il vinto ha imposto le proprie condizioni al suo vincitore. 

NOTE
[1] Questi apostoli che egli distingue dai Dodici come prova la lista delle apparizioni, devono essere i sessanta discepoli di cui parla Luca.
[2] L'Epître aux Romains, pag. 26.
[3] Si veda la nota, pag. 173. 

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