lunedì 15 gennaio 2024

Gli scritti di San Paolo — LA PRIMA EPISTOLA AI CORINZI (L'INCESTUOSO)

 (segue da qui)

L'INCESTUOSO

Il capitolo 5 tratta innanzitutto di una macchia che sporca la chiesa di Corinto. Tra i cristiani di quella città si trova un incestuoso. Il fatto si basa su testimonianze inconfutabili: «Si sente dire comunemente che vi è da voi impudicizia...» I Corinzi avrebbero dovuto provare un sentimento di costernazione. Avrebbero dovuto, sotto l'impulso dell'onta, cacciare ben presto dal loro seno il membro che li disonorava. Al contrario, sono fieri della loro chiesa e l'incestuoso non ha mai smesso di essere ammesso alle loro assemblee.

Paolo infligge loro la colpa che meritano: «E voi siete gonfi d'orgoglio! E non siete stati piuttosto nell'afflizione, perché colui che ha fatto ciò fosse allontanato da voi!» Egli mostra in seguito che, se il colpevole non è cacciato dalla comunità, il suo esempio sarà contagioso, ed egli illustra questo fatto per mezzo del paragone del lievito di cui una porzione basta a far fermentare la pasta. Conclude (7): «Sbarazzatevi del vecchio lievito affinché siate una pasta nuova», il che vuol dire: «Cacciate dal vostro seno il colpevole».


 1. Egli è consegnato a Satana. 

Dunque Paolo prescrive ai Corinzi di cacciare dalla loro società il membro che li disonora. Ma prima di prendere in 7 quella misura, lo vediamo in 35 consegnare lui stesso il colpevole a Satana per la distruzione della carne e la salvezza dello spirito. Perché questo miscuglio di severità estrema e di indulgenza che si traduce con la distruzione della carne e la salvezza dello spirito? E poi in che modo la distruzione della carne servirà alla salvezza dello spirito? Infine a che pro affidare ai Corinzi la sorte di un disgraziato che già Satana è incaricato di far morire! Tutto ciò è ben complicato e ben confuso. 

La vera soluzione della difficoltà consiste nel distinguere più redazioni. Ciò che appartiene a Paolo è il versetto 7 nel quale i Corinzi ricevono l'ordine di espellere dalle loro riunioni l'incestuoso. La consegna del colpevole a Satana è una misura presa secondo Paolo. Quella consegna stessa, sotto la forma che ha oggi, si è fatta in due fasi. L'incestuoso è stato dapprima consegnato a Satana, vale a dire al Dio malvagio «per la sua perdizione»: ciò è l'opera dell'editore marcionita. Poi è intervenuto l'editore cattolico. Costui, per cui Satana era uno spirito celeste rivoltatosi contro Dio, non ha voluto lasciare l'ultima parola a questo personaggio e ha trovato un esito favorevole alla consegna. Secondo lui l'incestuoso è consegnato a Satana, per la perdizione «della carne, affinché lo spirito sia salvato nel giorno del Signore Gesù».


 2. La lettera anteriore

In 9-13 Paolo si riferisce ad una «lettera» nei termini della quale ogni contatto deve essere evitato con gli impudici, ed egli l'interpreta. L'interpretazione che ne dà è sia restrittiva che estensiva. Restrittiva, in quanto spiega che i soli colpevoli di cui si deve evitare il contatto sono coloro che si definiscono «fratelli», vale a dire che fanno parte della comunità cristiana, perché loro soli sono soggetti alla giurisdizione dei cristiani e possono essere giudicati da essi. Quanto ai colpevoli «di fuori», Dio solo ha facoltà di giudicarli. Estensiva, in quanto spiega che gli impudici non sono i soli membri della comunità cristiana il cui contatto deve essere evitato, ma quella misura si estende ai ladri, agli ubriaconi, ai bestemmiatori, agli idolatri. 

I commentatori sono rimasti molto incuriositi da quella «lettera» alla quale Paolo fa qui allusione. Si pensa generalmente che si tratti di una lettera anteriore oggi perduta nella quale l'apostolo aveva prescritto ai fedeli, in termini sommari, di rompere tutte le relazioni con gli impudici. Alcuni, però, credono che Paolo non si riferisca ad una lettera anteriore, ma che spiega semplicemente i primi versetti del capitolo 5 della nostra epistola nei quali egli ingiunge ai Corinzi di allontanare dalla loro comunità l'incestuoso. Quell'ultima opinione, mi affretto a dirlo, ha poco credito tra i commentatori e non ne merita nessuno, perché è semplicemente un paradosso. 

Ma l'opinione comune non evita di scontrarsi a gravi difficoltà. E anzitutto se l'apostolo, tramite uno scrittore precedente, avesse regolato la situazione degli impudici, questo regolamento avrebbe dovuto lasciare qualche traccia nella storia dell'incestuoso che ci è riportata all'inizio del capitolo 5. Dal giorno in cui la condotta infame tenuta da uno di loro fosse pervenuta a loro conoscenza, i cristiani di Corinto si sarebbero affrettati ad eseguire le istruzioni apostoliche e ad espellere il colpevole dalla loro comunità. 

Supponiamo, tuttavia, che per una negligenza deplorevole abbiano dimenticato il regolamento inviato da Paolo; in ogni caso Paolo se ne sarebbe ricordato e lo avrebbe ricordato loro per assolversi dalla responsabilità. Egli avrebbe scritto loro qualcosa del genere: «Continuando ad ammettere alle vostre riunioni l'incestuoso e a trattarlo come uno dei vostri, voi avete infranto i miei ordini più espliciti poiché, in una lettera precedente, ho deciso che avreste dovuto espellere dal vostro seno tutti gli impudici». Ma cosa fa? Egli rimprovera ai Corinzi di essere restati indifferenti in presenza di una colpa che gli stessi pagani non vorrebbero commettere; egli li richiama alle leggi del pudore e anche della solidarietà; li avverte che il male ha un'azione contagiosa; ingiunge loro di espellere immediatamente l'incestuoso. Ma del regolamento che ha decretato precedentemente, e che i Corinzi non hanno messo in esecuzione, della disattesa dei suoi ordini di cui essi si sono resi colpevoli, egli non dice una parola. E questo silenzio è inconcepibile.

Consideriamo ora in sé il regolamento della lettera precedente. Certamente è saggio, è giusto. Si comprende senza difficoltà che Paolo, preoccupato della buona reputazione delle comunità cristiane, abbia prescritto l'espulsione degli impudici. Ma l'impudicizia non è il solo vizio che sia di natura tale da disonorare un gruppo. Anche altri vizi, in particolare l'ubriachezza, il furto, la disonorano. E le società che tengono alla stima pubblica eliminano coloro tra i loro membri che non hanno saputo conservare una reputazione di sobrietà e di onestà. Perché Paolo, quando ha legiferato sugli impudici, non ha associato loro gli ubriachi e i ladri? Nella lettera che possediamo dice in sostanza questo ai Corinzi: «Vi ho ingiunto precedentemente di espellere gli impudici; aggiungo oggi che voi dovete espellere anche gli ubriachi, i ladri, gli idolatri». Ripara la sua svista. Ma aveva commesso questa svista, e questo è ciò che non si riesce a comprendere fintantoché si attribuisce il brano 5:9-13 a Paolo. Cerchiamo un'altra soluzione. 

I versetti 5:9-13 derivano da uno sconosciuto del secondo secolo che ha preso fittiziamente il nome di Paolo. Ed ecco come si può fissare il rapporto di 9-13 con 1-7. 

Paolo, il cui programma verteva interamente sulla restaurazione del regno di Israele a profitto di Gesù, lasciava le questioni morali fuori dal suo orizzonte. Ma tuttavia non voleva che il piccolo gruppo cristiano divenisse un oggetto di scherno per gli ebrei e i pagani. Quando, tre anni dopo la sua partenza, l'affare dell'incestuoso arrivò a sua conoscenza, vide immediatamente il partito che i pagani avrebbero ricavato da uno scandalo che, come dice lui stesso, era sconosciuto tra loro. Egli ingiunse ai Corinzi di espellere dalla loro società il colpevole, non senza accusarli di non aver preso loro stessi l'iniziativa di quell'operazione. Decretando quella misura egli non regolamentò affatto la situazione generale degli impudici di fronte alle comunità cristiane, non agì da legislatore; si pronunciò sul caso particolare, fece ciò che fa il medico che estirpa un arto in cancrena.

Più tardi, nel corso del secondo secolo, in una grande comunità cristiana, probabilmente quella di Roma, dove i vizi ivi compresa l'idolatria si diffondevano liberamente, un lettore preoccupato dal problema morale si diede la missione di rimediare alla dissolutezza di cui era testimone e di sollevare il livello dei costumi. Per assicurare il successo della sua impresa, la mise sotto il nome di Paolo e, per accreditare questa menzogna, presentò la sua opera come la continuazione della misura decretata dall'apostolo. Pieno di questi pensieri egli deformò, senza dubitarne, il senso e la portata di 5:2, 7 dove Paolo, dopo aver rimproverato i Corinzi di non essersi sbarazzati dell'incestuoso, ingiunge loro di non lasciare più che questo triste personaggio prendesse parte alle loro riunioni. Egli credette di vedere in questi testi una legislazione che regolasse in generale la sorte di tutti gli impudici e, alla luce di quella  interpretazione fantasiosa che era anche l'interpretazione utile, portò a termine il suo progetto. 

Avendo regolato la sorte degli impudici, Paolo, in effetti, era condotto naturalmente a proseguire la sua opera di epurazione e ad allontanare dalle assemblee cristiane tutti gli altri membri indegni. Questo è ciò che fa nel brano 9-13 il cui significato è questo: «Vi ho prescritto di escludere dalle vostre riunioni gli impudici. Aggiungo ora che dovete espellere anche gli ubriachi, i ladri, gli idolatri e in generale, tutti coloro la cui condanna esteriore è uno scandalo». Insomma, la lettera precedente alla quale 9 si riferisce è proprio 5:1-7; ma l'autore di quel riferimento non è Paolo come hanno creduto certi commentatori, ma è un riformatore del secondo secolo che ha allegato al testo di Paolo (7) un corso di morale.

Questo corso si prosegue in 6, sotto forma delle prescrizioni che saranno segnalate nelle note. Dopo aver detto: «Allontanate i cattivi da mezzo a voi», l'autore aggiunge 6:9b: «Né gli impudici, né gli idolatri... possederanno il regno di Dio». Su quella lista ritroviamo i termini che abbiamo già incontrato in 5:11. L'impudicizia sulla quale l'attenzione è concentrata in seguito dà luogo alle osservazioni seguenti in 6:13: «Dio distruggerà i cibi proprio come il ventre». I cristiani i cui corpi sono le membra del Cristo non devono unirsi alle prostitute; non devono essere un solo corpo con le prostitute, loro che sono un solo spirito con il Signore. Essi devono fuggire l'impudicizia e glorificare Dio nei loro corpi ricordandosi che sono stati riscattati a un grande prezzo. 

Il «riscatto» è un prodotto della teologia marcionita secondo la quale il Dio buono era venuto sulla terra e aveva sacrificato la sua vita per strappare gli uomini all'impero del Creatore. È anche nella teologia marcionita che il Cristo era uno «spirito», e che il cristiano diveniva  un solo spirito con il Cristo. L'istruzione 5:9-6:20 è di origine marcionita. 

Quella constatazione ci dà il vero significato di 5:13 dove si parla di un «Malvagio» che i Corinzi devono espellere dalla loro comunità. Questo «Malvagio» è il Dio creatore di cui il quarto vangelo dice in 12:31 che sarà «gettato fuori». Aggiungiamo che quella istruzione marcionita, interrotta da più interpolazioni di cui si troverà l'indicazione nelle note, ci è pervenuta in una edizione cattolica. 


3. Il Cristo agnello pasquale. 

Passiamo ora all'esame di un oracolo brevissimo contenuto interamente in 5:7b-8. Paolo giunge a dire ai Corinzi di sbarazzarsi del vecchio lievito che avrebbe fatto fermentare tutta la pasta, in altri termini di espellere dalle loro riunioni l'incestuoso il cui contatto potrebbe essere pernicioso per tutti. Egli aggiunge: 

Voi siete azzimi. Infatti il nostro agnello pasquale è il Cristo che è stato immolato. Dunque celebriamo la festa, non con del vecchio lievito né con il lievito della malizia e della perversità, ma con gli azzimi della purezza e della verità.

Che nesso c'è tra l'espulsione dell'incestuoso e la pasqua? E a quale titolo la celebrazione della festività di Pasqua («facciamo festa», éortazômeninterviene qui? Nelle righe precedenti Paolo ha fatto appello alle leggi del pudore naturale per ottenere dai Corinzi che caccino delle loro riunioni un membro indegno. Se a quella prima considerazione voleva aggiungere un'altra, non aveva dunque nulla di meglio da presentare che la pasqua la cui festività avveniva una volta all'anno? Ma soprattutto cosa ci fa qui l'agnello pasquale? Perché Paolo utilizza questo ricordo? E perché ci tiene a spiegare che ciò che importa per «celebrare la festa» sono «gli azzimi della purezza e della verità»?

L'oracolo 7b-8 non ha alcun rapporto con la vicenda dell'incestuoso. Per trovargli un significato plausibile occorre metterlo di fronte a cristiani legati ai riti giudaici dell'agnello pasquale e degli azzimi, a cristiani convinti che la pasqua cristiana consista, come la pasqua ebraica, nel mangiare l'agnello e il pane senza lievito. Ma con questi cristiani giudaizzanti tutto si chiarisce.  

Il nostro testo ci lascia intravedere le argomentazioni che accampavano questi discepoli retrogradi di Mosé e vi risponde. Loro adducevano il testo dell'Esodo 12:31 che prescrive di immolare l'agnello pasquale (testo della LXX  thusaté to pasqa). Adducevano le ordinanze mosaiche che prescrivevano di mangiare gli azzimi e di scartare il vecchio lievito. Egli risponde innanzitutto che l'agnello pasquale dei cristiani, «il nostro» to pasqa èmôn, è il Cristo, e che questo agnello è stato immolato, étuthé Christos. Risponde in seguito che il vecchio lievito che deve essere scartato è il lievito dell'iniquità, e che gli azzimi che devono essere mangiati sono gli azzimi della purezza e della verità.

 Resta da sapere se i cristiani attaccati alla pasqua ebraica siano esistiti. Essi sono esistiti. Lo sappiamo dalla lettera di Policrate a Vittore (Eusebio, 5, 24, 2 e 6) nella quale leggiamo:

Sempre i miei genitori hanno celebrato il giorno in cui il popolo scartava il lievito. 

Policrate, quando arrivava la pasqua, scartava il lievito e mangiava gli azzimi. Egli osservava le ​​ordinanze mosaiche e, di conseguenza, mangiava l'agnello pasquale. Policrate ha scritto la sua lettera intorno al 190. A quell'epoca, i cristiani legati alla pasqua ebraica non si incontravano, salvo infime eccezioni, che in Asia Minore. Ma cinquanta anni prima li si incontrava altrove. È con loro che se la prende l'oracolo 5:7b-8. Esso vuole «de-giudaizzare» la pasqua cristiana. Esso è di origine marcionita; è stato scritto intorno al 140. [1

NOTE

[1] Si veda l'Epître aux Romains, pag. 82. 

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