domenica 14 gennaio 2024

Gli scritti di San Paolo — LA PRIMA EPISTOLA AI CORINZI (PAOLO SI ERGE A SIMBOLO)

 (segue da qui)

PAOLO SI ERGE A SIMBOLO

Tra 1:17 e 4:8 si colloca una lunga dissertazione con la quale dobbiamo ora fare conoscenza. Essa parla della «follia della predicazione», di Dio che si serve di ciò che è folle per confondere i sapienti, della sapienza di Dio predicata tra i perfetti, dell'uomo animale e dell'uomo spirituale, di certi maestri che sono avvertiti di sorvegliare il loro insegnamento e di non porre materiali infiammabili sul fondamento del Cristo sotto pena di vedere questi materiali divorati dal fuoco quando arriverà il «giorno». Parla ancora di giudici che hanno condannato Paolo o che lo condanneranno, e per i quali Paolo non ha altro che disdegno. Parla persino di Apollo che ritorna una prima volta in 3:4 e una seconda volta in 3:22 in compagnia di Cefa, il quale peraltro è già stato nominato in 1:12. 

Chi sono questi giudici a cui Paolo dichiara senza ambiguità 4:3 di avere solo disprezzo per il loro verdetto? Chi sono questi maestri a cui si rivolge l'ammonimento severo di 3:12-15? Quella apologia della croce che si legge in 1:17-25, contro chi è diretta? E Cefa, cosa viene a fare qui? La dissertazione che va da 1:17 a 4:8 ci conduce di mistero in mistero. 


1. Il fatto. 

Tra i testi enigmatici che ci presenta ce n'è uno soprattutto che attira la nostra attenzione. Eccolo in 4:6: 

Fratelli, ho simboleggiato queste cose in me e in Apollo a causa vostra, affinché impariate in noi a non essere al di sopra di ciò che sta scritto, affinché non vi inorgoglite a causa di uno contro un altro. 

Quindi Paolo ha «simboleggiato» (meteschematisa, transfiguravi nella Vulgata) certe cose in lui e in Apollo. Cosa equivale a dire? Ciò vuol dire che la rivalità che è sorta tra i Corinzi e di cui lui stesso e Apollo sono state le cause involontarie gli serve da simbolo per fini ulteriori. E quali sono i fini ulteriori che vuole ottenere per mezzo di questo simbolo o, se si vuole, di quella allegoria? Lui vuole insegnare ai Corinzi «a non essere al di sopra di ciò che sta scritto» e anche «a non inorgoglirsi a causa di uno contro un altro».

Vi è nella chiesa di Corinto un fatto vecchio e un fatto nuovo. Il fatto vecchio è la confraternita che si formò attorno ai nomi di Paolo e di Apollo. Il fatto nuovo è la convinzione che hanno i Corinzi di essere al di sopra di ciò che sta scritto, l'orgoglio che li spinge a insuperbirsi per qualcuno contro un altro. Il fatto vecchio non offre in sé alcun interesse. Che cosa è grave, ciò che è inquietante, ciò che dev'essere combattuto come un male formidabile,  è il fatto nuovo, è la tendenza che hanno i Corinzi a mettersi al di sopra di ciò che sta scritto, ad inorgoglirsi contro un altro a favore di qualcuno. Per guarirli da quella mentalità orgogliosa, Paolo non ha trovato nulla di meglio che rammentare il fatto vecchio e sfruttarlo. Questo fatto che, di per sé, appartiene al passato, ritorna attuale quando ci si serve di esso come di un velo allegorico. Permette allora di esprimere utili verità che, senza di esso, non potrebbero essere adeguatamente espresse oppure, in ogni caso, non sarebbero comprese. Ecco perché Paolo volendo dare ai Corinzi una lezione di umiltà, la simboleggia in sé stesso e in Apollo. 

Si dirà che metto troppe cose in 4:6? Ecco come Estio riassume questo testo: 

Ciò che ho detto dei maestri di cui vi glorificate, con una figura retorica l'ho trasposto su di me e su Apollo. Vale a dire, ho nominato me ed Apollo come i maestri a causa dei quali vi siete lasciati andare alle cabale (va aggiunto anche Cefa di cui tace il nome probabilmente per rispetto). Ma, sotto i nostri nomi, voglio designare altri sostenitori della sapienza umana, sub his alios volo intelligi, di cui voi vi siete gloriati follemente e in uno spirito di fazione, e che io non ho voluto nominare per non farvi onta. — Paolo non nega che i Corinzi abbiano riposto la loro gloria in lui, in Pietro e in Apollo... ma dichiara di aver usato una trasposizione, perché sotto questi nomi ha voluto designare altri personaggi, quia his nominatis alios magis voluit intelligi

La Bibbia di Saci riporta la sintassi seguente: 

Ho proposto queste cose sotto il mio nome e sotto quello di Apollo, queste cose, vale a dire quanto ho appena detto nei versetti 4, 5, 6 del capitolo precedente contro la presunzione dei ministri e contro i pregiudizi che eccitano nella Chiesa, come se io stesso e Apollo fossimo macchiati di questo vizio e come se fossimo stati capi di partito come gli altri. «A causa vostra», vale a dire per risparmiarvi la confusione che avreste ricevuto, voi che siete i pastori di Corinto, se vi avessi nominati con i vostri nomi propri, e per mettervi in condizione di beneficiare dei miei avvertimenti, visto che li uso con tanta carità, prudenza e modestia. 

San Tommaso parla dei falsi apostoli «che l'apostolo non ha voluto nominare per non sembrare che parlasse contro di loro per odio e gelosia; al loro posto aveva messo il suo nome e quello di altri buoni predicatori».

Lo si vede, i commentatori più ortodossi riconoscono che, in 4:6, Paolo dichiara di servirsi del suo nome e del nome di Apollo per indicare, sotto il velo del simbolo, altri uomini di cui, per carità, non vuole parlare apertamente, ma di cui tenta lo stesso di abbassare l'orgoglio insopportabile e di rovinare l'influenza perniciosa. È così che intendono il testo 4:6. Il testo stesso, ad eccezione di alcune sfumature di dettaglio, non comporta altra interpretazione. 

Ma quella interpretazione contiene diverse impossibilità. Innanzitutto, a credere al nostro testo, Paolo ha usato riguardi verso degli uomini la cui azione sui fedeli era dannosa, quindi verso degli uomini che non erano degni di alcun riguardo e le cui malefatte dovevano, al contrario, essere vigorosamente denunciate. Per questo motivo la carità che ha testimoniato loro è stata irragionevole. Ma nessuno acconsente a mettere sul conto di Paolo degli atti irragionevoli. Prima impossibilità. 

Ciò non è tutto. Secondo il nostro testo, Paolo ha spinto la carità verso questi personaggi così poco raccomandabili, fino a far assumere le loro colpe da Apollo. Alcuni si spingono persino più oltre e credono che Paolo abbia acconsentito ad assumersi personalmente le colpe commesse da alcuni di questi uomini (la Bibbia di Saci dice: «Come se io stesso e Apollo fossimo macchiati di questo vizio»). Ma arrivato a questo livello la carità diventa una stravaganza di cui ci si rifiuta di rendere Paolo responsabile. Seconda impossibilità. 

Ciò non è tutto ancora. Paolo, con tutte le precauzioni che prende per coprire uomini indegni di ogni riguardo, arriva almeno al suo scopo? È riuscito a coprirli? Questi uomini sono capi, si distinguono dalla massa, tutti hanno i loro occhi su di loro, tutti li conoscono, sarà impossibile biasimarli sotto il velo dell'allegoria senza che tutti sappiano a chi si attribuisce la colpa. Ciò sarebbe impossibile perfino se fosse coinvolta un'immensa comunità che contasse i suoi membri a migliaia. Cosa sarà in una chiesa che si compone di poche famiglie? Il simbolo impiegato per tener nascosti i nomi dei capi che hanno deviato i Corinzi è solo una puerilità; e per immaginarsi che un così povero espediente potesse avere qualche risultato, occorreva una leggerezza di spirito che non si può attribuire a Paolo. Terza impossibilità. 

Il testo «Io ho simboleggiato queste cose» non è di Paolo. Esso è l'opera di un falsario che, vedendo i suoi correligionari alle prese con nemici potenti, ha evocato per difenderli gli attriti dei sostenitori di Paolo a Corinto con i sostenitori di Apollo. Il testo 4:6 è un prodotto artificiale. 

Immediatamente esso diventa comprensibile e le impossibilità che si ergevano davanti ad esso scompaiono. Si comprende senza difficoltà che un falsario abbia  utilizzato per i suoi fini un conflitto di cui Paolo aveva dovuto soffrire, quello stesso di cui parla l'epistola ai Corinzi in 1:10-16. Per eseguire questo progetto doveva  fare una trasposizione. Il nostro falsario ha dunque trasformato i suoi amici e i suoi nemici in contemporanei dell'apostolo, e ha alloggiato tutta questa gente a Corinto. Gli uomini del suo partito sono divenuti i discepoli di Paolo, quelli del partito opposto sono stati assegnati ad Apollo. Questi ultimi dovevano naturalmente essere presentati sotto colori sfavorevoli; d'altra parte era impossibile indicarli per nome pena di smascherare l'artificio. Quanto ad Apollo, il padre fittizio di questi nemici, la sua opera non poteva che essere riprovata; ma lui personalmente doveva essere risparmiato, poiché, in 16:12, Paolo lo tratta da amico. Abbiamo ora la spiegazione di 4:6. Sotto la penna di un falsario, le incoerenze  che contiene svaniscono. 

Qui un'osservazione importante dev'essere fatta. Notiamo quindi che il testo «Io ho simboleggiato»  si riferisce a testi anteriori. Dichiara che i partiti che dividevano la chiesa di Corinto all'epoca di Paolo e di Apollo sono stati sottoposti ad un lavoro di trasposizione. Ma è solo un portavoce, un relatore. 

L'operazione di cui lui parla è stato realizzata da alcuni dei testi che precedono e che sono passati sotto i nostri occhi. Si capisce ora l'impossibilità in cui stiamo di trovare per questi testi un senso plausibile. Non arriviamo a porvi coesione. Come avremmo potuto farlo, quando abbiamo frainteso totalmente la loro condizione intima e, in qualche modo, la natura del loro linguaggio? Il nostro errore era quello di un archeologo che, trovandosi di fronte ad un'iscrizione greca, si ostinerebbe nel prenderla per un'iscrizione latina, che ne domanderebbe la spiegazione in latino e sarebbe piuttosto sorpreso di non arrivare a nulla. Per capire qualcosa dai nostri testi si deve partire da questo principio, che essi fanno della trasposizione, del simbolismo, che eseguono il lavoro di cui parla 4:6 e che hanno un'origine comune con esso. Poniamoci dunque alla scuola dell'autore che si «simboleggia» in Paolo, e ascoltiamo cosa ci dice, cominciando dalla sua dissertazione sulla sapienza di Dio e sulla follia della croce. 


2. Spiegazione del fatto. 

Egli ci dice (1:21) che il mondo non ha conosciuto Dio. Quella asserzione contraddice il punto dell'epistola ai Romani 1:19-21 dove leggiamo che Dio è visto nelle sue opere e che gli uomini lo hanno conosciuto. Ma essa è d'accordo con la versione marcionita del quarto vangelo che dice (1:18) che nessuno ha visto Dio e che solo il Figlio lo ha fatto conoscere, che aggiunge (7:28) che gli ebrei stessi non conoscevano Dio. 

Il nostro autore stabilisce tra la sapienza di Dio e la sapienza del mondo un'opposizione spinta fino all'ostilità, poiché, secondo lui, la sapienza del mondo è una follia davanti a Dio e la sapienza di Dio è una follia agli occhi del mondo (1:17-2:16). In presenza di questo antagonismo irriducibile ci si domanda con stupore come Dio sia stato indotto a creare una creatura che si è così mal trasformata e che, al posto di rendergli gloria, si rivolta contro di lui. 

La soluzione dell'enigma si trova nella versione marcionita del quarto vangelo che ci insegna (8:23, 40, 44) che gli uomini (si tratta degli ebrei considerati in quanto uomini) non sono le creature del Dio buono, ma del diavolo, e (1 Giovanni 5:19) che il mondo è sotto il potere del Maligno, vale a dire di questo stesso diavolo creatore. [1] 

Egli parla del «Signore della gloria», vale a dire del Signore glorioso che i capi di questo secolo hanno crocifisso. Questo vocabolario richiama quello del quarto vangelo che menziona (1:14) «la gloria» del Figlio di Dio. 

Egli dice (2:7) che la sapienza di Dio ci era stata destinata da Dio «prima dei secoli». Quella espressione fa da parallelo a quella che incontriamo nell'epistola ai Romani 16:25 dove si parla di un «mistero nascosto per secoli eterni» e che è stato rivelato per ordine del Dio eterno. Ma questo brano è di origine marcionita. [2] 

La dissertazione sulla sapienza di Dio e sulla follia della croce, considerata fino a 2:10, è fortemente apparentata a testi la cui origine marcionita non è discutibile.

A partire da 2:10 lo Spirito appare sulla scena. Prima di esaminare questo nuovo personaggio, studiamo il testo 4:3 dove Paolo testimonia, da una parte, il più profondo disprezzo per il giudizio che è stato pronunciato o che un tribunale umano poteva pronunciare contro di lui e, d'altra parte, si rimette al giudizio di Dio. La verità è che il testo 4:3 non offre alcun senso sotto la penna di Paolo. Diventerà comprensibile solo quando avremo trovato un uomo che ha avuto attriti con un tribunale ecclesiastico. Ma proprio Marcione fu condannato dalla chiesa romana nell'anno 144 (Tertulliano, Adversus Marcionem 1:19) e, prima di venire a Roma, era già stato condannato molto probabilmente dall'una o dall'altra delle chiese dell'Asia Minore nelle quali aveva soggiornato, in particolare dalla chiesa di Smirne dove c'era Policarpo. Si sa che egli non si lasciò fermare né dalla condanna di Roma, né, a maggior ragione, dalla condanna di Smirne o di altrove. Il testo «Non attribuisco la minima importanza all'essere giudicato da voi» ripropone quindi esattamente l'accoglienza che fece alla condanna o piuttosto alle condanne che lo colpirono. È proprio così che egli rispose ai suoi giudici. Disse loro: «Io appartengo al Signore, io non appartengo a voi; io ho il più profondo disprezzo per il vostro giudizio».

Ma cosa viene a fare ciò che segue «oppure da un tribunale umano»? Ciò è la conseguenza necessaria dell'operazione con la quale Marcione si è «trasfigurato» nell'apostolo. Il Paolo fittizio che parla qui ai Corinzi solleva un lembo del velo del futuro e annuncia la condanna da cui egli sarà colpito intorno al 140. Per non smascherarsi egli è naturalmente obbligato a restare nell'imprecisione. Da lì il modo di dire piuttosto misterioso col quale dichiara di ignorare la condanna che un «tribunale umano» – diverso da quello dei Corinzi – poteva pronunciare contro di lui. 

Marcione è stato condannato, vale a dire escluso da una o più comunità dell'Asia Minore, in ogni caso dalla comunità romana. I suoi nemici non sono certo giunti a quella conclusione immediatamente e prima di tutto. Essi hanno dovuto tentare prima di illuminare l'innovatore, di convincerlo, di confutarlo. Si sono rassegnati a pronunciare contro di lui una condanna di esclusione solo dopo aver constatato l'inutilità delle misure più miti. In una parola Marcione, prima di essere condannato, ha incontrato attorno a sé un'opposizione più o meno lunga, più o meno ardente.

Quella opposizione dovette sembrargli stranissima. Marcione, se non era un visionario — difetto che dai documenti non abbiamo il diritto di affermare — era sicuramente un esaltato, perché la dottrina che egli ha insegnato è incompatibile con la ponderazione del giudizio. Gli esaltati possiedono la certezza assoluta. Marcione riteneva quindi evidente la sua dottrina. L'opposizione contro la quale si è scontrato ha dovuto fargli l'effetto di un enigma misteriosissimo da cui non ha potuto dispensarsi nondimeno dal cercarne la spiegazione. 

L'unica spiegazione possibile è stata quella di una differenza di essenza. Ha dovuto pensare che lui e i suoi sostenitori fossero di una condizione superiore ai suoi avversari, che questi ultimi avessero un senso in meno e che, in mancanza di questo senso,  sfuggissero loro certe realtà di cui lui, Marcione, e i suoi sostenitori, avevano la chiara percezione. Ma la dissertazione sullo Spirito ci spiega che, per comprendere le cose di Dio, bisogna essere un uomo spirituale, vale a dire aver ricevuto lo Spirito, e che per l'uomo animale, per l'uomo carnale, le cose spirituali sono una follia (2:10, 12, 14) o, in ogni caso, sono incomprensibili (3:1, 3). Essa traduce esattamente i pensieri che hanno dovuto agitare Marcione quando ha visto gli avversari ergersi contro di lui. Essa aggiunge (2:15) che «l'uomo spirituale giudica tutte le cose e non è giudicato da nessuno»E ciò risponde ancora allo stato d'animo di Marcione che non ha potuto credere un solo istante alla competenza dei suoi avversari e non ha riconosciuto altra autorità che quella di Dio. 

Il nome dell'apostolo Pietro giocò un ruolo considerevole nella controversia marcionita. L'iniziativa venne probabilmente dallo stesso Marcione, che avendo attaccato Pietro in quanto rappresentante dei Dodici e del cristianesimo volgare, obbligò i cattolici a difenderlo. Quel che è certo, in ogni caso, è che gli avversari di Marcione misero sulla bocca del Cristo degli oracoli che presentavano Pietro come il capo della Chiesa. È allora che i famosi testi: «Tu sei Pietro» e «Pasci le mie pecore» fecero la loro prima apparizione, l'uno in Matteo, l'altro nel quarto vangelo. 

Ciò ci riporta al «partito di Cefa». La presenza di questo partito a Corinto è inspiegabile. Noi abbiamo ora la chiave del mistero. Non c'è stato un partito di Cefa a Corinto negli anni 52-55. Ma intorno al 140 ci sono stati cristiani che, per difendere la loro fede attaccata, l'hanno posta sotto il patronato dell'apostolo Pietro, che hanno venerato Pietro come il ministro fornito di pieni poteri dal Cristo, che hanno professato di obbedire solo a Pietro. Il partito di Cefa, che non è esistito a Corinto durante la vita di Paolo, è esistito, un secolo più tardi, nelle chiese dell'Asia Minore così come a Roma. È esso che è denunciato qui e che è denunciato da un nemico. L'autore di quella fantasia ci inganna solo a metà, poiché ci avverte altrove di aver fatto deliberatamente di proposito la trasposizione. 

Egli vieta ai cristiani (3:21-22) di riporre la loro gloria negli uomini; al di là se questi uomini siano Paolo, Apollo o Cefa. Ostenta una grande modestia. Non vuole essere il capo di turno: «Tutto appartiene a voi, sia Paolo…» Ma non lasciamoci ingannare dall'artificio. Poiché lui, Paolo, ha ricevuto lo Spirito di Dio (2:12) ed è un uomo «spirituale», tutti i cristiani che hanno ricevuto lo Spirito di Dio, che sono «spirituali», giudicheranno necessariamente come lui; e coloro che non giudicheranno come lui saranno, proprio per questo, accusati di essere uomini sprovvisti dello Spirito. Dell'assioma così pomposamente formulato in 3:21-22 non resta dunque che una cosa, cioè che i cristiani non devono riporre la loro gloria in Cefa. Marcione era completamente di questo avviso.

Esaminiamo ora il frammento 3:10-15, che in termini severi esige che non si collochi materiali infiammabili sul fondamento del Cristo. A tener conto solo del contesto, è Apollo ad essere preso di mira qui. Ma non dimentichiamo che siamo in piena trasposizione. L'Apollo che è preso di mira è il clero cattolico del 140 circa. L'Apollo storico interviene solo per «simboleggiare» questo personaggio collettivo. E il censore che lo sgrida è Marcione «simboleggiato» da Paolo. Marcione crede che il Dio buono, che non punisce nessuno, preserverà solo i suoi, vale a dire coloro che credono in lui, dai colpi del Creatore e gli abbandonerà gli altri. Crede che il «giorno» del Creatore verrà prossimamente col suo corteo di fiamme, e minaccia di queste fiamme colui la cui costruzione comprenderà materiali combustibili, vale a dire colui il cui insegnamento conterrà elementi giudaici. Costui sarà punito dal Creatore che sfogherà su di lui la sua collera. Egli sarà vittima del fuoco. 

Questa sorte è nella logica delle cose. Così si è sorpresi di leggere in seguito che egli  sarà comunque salvato, ma dal fuoco, come se il fuoco potesse essere un agente di salvezza. Siamo qui in presenza di un ritocco. Il testo primitivo diceva: «Colui la cui opera brucerà sarà punito dal fuoco». L'editore cattolico ha aggiunto: «Ma lui stesso sarà salvato». E per adattare questa salvezza al fuoco, ha fatto ricorso all'espressione «ma come» (outôs dé ôs) destinata a fungere da raccordo. [3]

Mi resta da dire due parole della dissertazione che comincia in 4:9 e si estende fino alla fine del capitolo. Essa descrive dapprima, in termini commossi, la sorte lamentevole alla quale gli apostoli sono condannati su questa terra, e la rassegnazione con la quale essi sopportarono tutte le loro sofferenze. Poi Paolo informa i Corinzi che ha inviato da loro Timoteo e che questo figlio beneamato è incaricato di ricordare loro la maniera in cui lui, Paolo, insegna in tutte le chiese.

In realtà Paolo non sa esattamente se Timoteo passerà per Corinto (16:10); non lo ha dunque affatto inviato in quella città. In ogni caso i Corinzi, tra cui Paolo ha soggiornato per diciotto mesi, sapevano da prima fonte cosa insegna l'apostolo e come insegna. D'altronde se, per assurdo, restasse loro qualcosa di nuovo da apprendere, l'avrebbero appreso da Paolo stesso, che dovette passare l'inverno successivo in mezzo a loro (16:6-7). E non vi dovette esserci alcun pericolo nella casa poiché, per diversi anni, l'apostolo non ha ritenuto utile comunicare ai Corinzi queste informazioni supplementari. La missione affidata a Timoteo è fittizia. 

La dissertazione 4:9-21 fa parte della grande tesi 1:17-4:7, da cui essa è separata da 4:8. Paolo vi continua il suo ruolo di simbolo. Agli adepti del Cristo spirituale egli parla con la tenerezza di un padre. Ma di fronte ai ribelli, la sua voce diventa severa, ed ergendosi con maestà, li minaccia con la verga.

NOTE

[1] Si veda Le quatrième évangile, pag. 19-26.

[2] Si veda l'Epître aux Romains, pag. 89. 

[3] L'espressione «dal fuoco» (dia puros) che non è preceduta da un verbo che indica un movimento, attribuisce al fuoco il ruolo di causa. Ma il fuoco può ben essere una causa di punizione, ma non una causa di salvezza. Il risultato cercato non è quindi ottenuto. Ma l'intenzione vi è. 

Nessun commento: