sabato 30 dicembre 2023

Gli scritti di San Paolo — L'EPISTOLA AI ROMANI (LA PROMESSA FATTA AD ABRAMO E ALLA SUA POSTERITÀ)

 (segue da qui)


LA PROMESSA FATTA AD ABRAMO E ALLA SUA POSTERITÀ

La prima dissertazione che riscontriamo — deduzione fatta dai primi versi — tratta della promessa fatta ad Abramo ed alla sua posterità. Va da 1:16 a 10 compreso; ma vedremo che è tagliata da più interpolazioni, di cui una è molto estesa. Riappare in 15:8-12. Cominciamo da quest'ultimo frammento.

Vi si constatano più ellissi facilmente riconoscibili. Quando le si ha tirate in chiaro, si ottiene questo: «Dio ha fatto delle promesse ai padri del popolo circonciso, cioè del popolo ebraico (la parola «circoncisione» designa, ad avviso di tutti, il popolo circonciso). Queste promesse costituivano un impegno almeno verso sé stesso. Egli doveva dunque a sé stesso, doveva alla sua veracità di realizzarle. E questo spiega perché il Cristo si è messo al servizio del popolo ebraico. Per mezzo di lui, Dio ha fatto onore alle sue promesse, egli ha provato la sua veracità. Ma i pagani non avevano affatto ricevuto promesse. Essi non potevano reclamare nulla da Dio che non si era affatto legato verso di loro. Però essi sono stati ammessi a partecipare ai beni promessi agli ebrei (è qui che c'è la maggior ellisse del testo). Tengono quella partecipazione dalla misericordia di Dio che, non avendo promesso loro nulla, non doveva loro nulla. È per questo che gli oracoli profetici hanno descritto in anticipo le lodi rivolte alla bontà di Dio dai pagani riconoscenti».

Tale è il pensiero di Paolo. Un po' più oltre (16) lo vediamo definirsi «ministro del Cristo Gesù per i pagani». Qui egli giustifica in anticipo questo titolo e questo ruolo — nuova prova che parla ai giudeo-cristiani di cui cerca di conciliarsi le simpatie. Predica il Vangelo ai pagani, ma riconosce che i pagani sono, allo sguardo di Dio, in una situazione inferiore agli ebrei.

Questo, sotto un'altra forma, è il pensiero che abbiamo già incontrato in 15:27. Lì apprendiamo che i pagani erano stati ammessi a prendere parte ai beni che appartenevano agli ebrei, ma non sapevamo come e a qual titolo gli ebrei fossero diventati proprietari di questi beni. Qui vediamo che quella proprietà si basa su promesse fatte da Dio e alle quali Dio deve a sé stesso di essere fedele. I nostri due testi si completano. Lasciano nell'ombra solo una cosa, che è il punto capitale, ovvero l'oggetto delle promesse divine.

Quali sono dunque questi beni che Dio ha preso l'impegno di dare agli ebrei, ma non ai pagani? Quali sono questi beni ai quali i pagani sono ammessi a partecipare per pura misericordia e per i quali sono i debitori degli ebrei? Ciò che è sicuro è che la remissione dei peccati, la redenzione, la grazia non corrispondono né da vicino né da lontano a questa descrizione. Ma, fin qui, non sappiamo nulla di più. Poiché i nostri due testi si rifiutano di rispondere alla nostra domanda, tentiamo di informarci altrove.

In 11:4 Paolo segnala diverse prerogative degli ebrei, tra le quali basta citare la «filiazione» e le «promesse». Agli ebrei appartiene la filiazione; a loro pure appartengono le promesse.

La filiazione — si tratta evidentemente della filiazione divina — è menzionata spesso nell'Antico Testamento. Essa è talvolta attribuita collettivamente al popolo di Israele. È in questo senso che Osea fa dire a Dio (11:1): «Io ho chiamato mio Figlio dall'Egitto». [1] La stessa idea è peraltro contenuta in vari testi che, senza utilizzare la parola «figlio», insegnano che Dio ha amato Israele e lo ha destinato a essere suo popolo.

Altre volte, la filiazione è attribuita al re d'Israele. Tale è il senso del verso del salmo 2: «Tu sei mio figlio: io ti ho generato oggi». Dio, che pronuncia lui stesso queste parole, ha appena detto che ha stabilito il suo re su Sion, che egli lo ha unto (questo salmo è stato scritto dopo le vittorie dei Maccabei; il figlio di Dio che ha in vista è probabilmente Ircano).

Altrove, è ciascun Israelita individualmente che è dichiarato figlio di Dio. Questo appare in Deuteronomio 14:1: «Voi siete i figli di Jahvé vostro dio».

Paolo si preoccupa soprattutto di quell'ultima filiazione; ma senza escludere la prima, dato che le due sono inseparabili. Nel suo pensiero, ciascun ebreo è figlio di Dio, e il popolo ebraico preso globalmente è anche figlio di Dio.

Quanto alle «promesse» alle quali 9:4 — del tutto come 15:30 — fa allusione, i testi dell'Antico Testamento che le spiegano non mancano, e sarebbe facile fornirli. Ma si sarebbe sicuri che queste spiegazioni corrispondano al pensiero di Paolo? Niente varrebbe un commentario dato dall'apostolo stesso. Ora, questo commentario esiste. Ci è fornito da 4:13, dove leggiamo: «Non è per mezzo della Legge che è stata fatta ad Abramo e alla sua posterità la promessa di essere erede del mondo ma per mezzo della giustizia della fede».

Soffermiamoci un attimo davanti a questo testo capitale, che contiene una promessa con l'esposizione delle condizioni alle quali è soggetta. E, lasciando a lato provvisoriamente le condizioni che ritroveremo presto, occupiamoci unicamente della promessa. Essa ha per oggetto l'eredità del mondo. Abramo è stato istituito per un decreto divino «erede del mondo». La sua posterità ha ricevuto la stessa investitura. Essa pure è «erede del mondo» o, ciò che equivale lo stesso, l'impero del mondo le appartiene per diritto di devoluzione.

È questa eredità che assicura ai «santi» di Gerusalemme i «beni spirituali» di cui parla l'istruzione sulla elemosina (pag. 9). Deriva dalla munificenza divina e, in ragione della loro origine celeste, le prerogative che procura sono «beni spirituali». D'altra parte, è stata garantita ad Abramo, così come alla sua posterità e, di conseguenza, i beni spirituali che procura appartengono anzitutto agli ebrei. Il testo 4:13 spiega dunque 15:27. Spiega anche il frammento 15:8-12, che ci mostra il Cristo messosi al servizio della circoncisione per fare onore alle promesse divine.

Le promesse che il Cristo è venuto a realizzare sono le promesse relative all'impero del mondo, promesse che hanno tutte lo stesso oggetto e, in realtà, non fanno che una, ma che però sono molteplici, poiché la stessa promessa è stata formulata più volte (Genesi 12:7; 13:15; 15:18; 17:8; 22:18). Il Cristo è venuto per procurare alla posterità di Abramo l'impero del mondo. Tuttavia, non concede questo beneficio solo agli ebrei a cui la promessa era stata fatta; lo accorda anche ai pagani estranei alla promessa, in modo che (10:12) «non vi sia differenza tra il Giudeo e il Greco». E questo spiega di nuovo il frammento 15:8-12, dove vediamo i pagani ammessi per misericordia ai beni promessi agli ebrei.

Prima di andare più oltre, rispondiamo ad una domanda che sorge qui inevitabilmente davanti a noi. La promessa fatta ad Abramo così come alla sua posterità, e di cui il beneficio in seguito è stato esteso per misericordia ai pagani, è il possesso dell'impero del mondo. Perché dunque certi testi parlano di salvezza? Perché, ad esempio, 1:16 dice che il Vangelo è una operazione possente di Dio «per la salvezza» di chiunque creda? Perché, in 10:1, Paolo desidera che gli ebrei siano «salvati»? E perché aggiunge un po' più oltre, 10:13 (si veda pure 10:9): «Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato»? Esiste dunque un legame tra l'impero del mondo e la salvezza?

Questo legame esiste. E i profeti dell'Antico Testamento lo fanno conoscere al lettore che li consulta. Ascoltiamo ciò che dice Isaia 66:14-15:

Jahvé manifesterà la sua potenza ai suoi servi, ma mostrerà la sua collera ai suoi nemici. Ecco che Jahvé arriva in un fuoco; i suoi carri sono come un turbine. Egli trasforma la sua collera in un braciere e le sue minacce in fiamme di fuoco...

E Sofonia 1:15:

Questo giorno è un giorno di collera, un giorno di afflizione e di angoscia, un giorno di devastazione e di distruzione, un giorno di tenebre e di oscurità...

Amos 5:18; Geremia 30:7; Gioele 2:11, se li interpellassimo, ci terrebbero lo stesso linguaggio. I profeti dicono che il Signore farà un giorno un'immensa carneficina dei suoi nemici.

Cresciuto alla loro scuola, Paolo conta su questa carneficina, attende la grande sera. Soltanto, crede che Dio abbia incaricato il Cristo dell'esecuzione delle sue alti opere. Il Cristo verrà dunque dal cielo, dove egli è ora, per fare a pezzi gli infedeli. Naturalmente i credenti non avranno nulla da temere. Loro faranno scorta al Cristo, il loro posto non sarà dunque con le vittime: essi saranno «salvati». Ecco la «salvezza» come la intende Paolo. È il privilegio in virtù del quale i credenti sfuggiranno al grande massacro che avrà luogo quando il Cristo inaugurerà l'impero del mondo. O, se si vuole, è il privilegio che permetterà ai credenti di appartenere all'impero che il Cristo inaugurerà sulla terra. Lo si vede, la salvezza promessa ai fedeli si ricollega per un legame intimo all'impero del mondo che, anch'esso, è loro promesso.

Ritorniamo al nostro soggetto. Abbiamo visto che ebrei e pagani, gli uni in virtù di una promessa, gli altri per misericordia, sono ammessi a partecipare all'impero del mondo. Ma non conosciamo ancora le condizioni che hanno da realizzare per ricevere questo beneficio. Questo è ciò che ci resta da cercare.

Un tempo, per essere l'amico di Dio bisognava osservare la Legge. Infatti (10:5): «Mosè scrive che l'uomo che compie la giustizia proveniente dalla Legge vivrà in essa» (vale a dire sarà, per il compimento della Legge, l'amico di Jahvé; non vi è qui alcuna allusione ad una vita futura). [2]

Ma (10:4) «il Cristo è il termine della Legge» (vi ha messo fine). La Legge ha cessato di essere un titolo per il possesso dell'eredità del mondo. Al regime della Legge un altro regime è stato sostituito: il regime della fede. Tale è la tesi che Paolo sviluppa nei capitoli 4, 9, 10 e che enuncia sin dall'inizio della sua lettera nel testo seguente (1:16-17): «Il Vangelo è una operazione possente di Dio per la salvezza di chiunque creda, prima di tutto del Giudeo poi del Greco, perché in esso è rivelata la giustizia di Dio mediante la fede e per la fede, come è scritto: Il Giusto vivrà per la fede».

Dunque è la fede e non più la Legge che dà diritto di partecipare alla grande promessa. Quale fede? Lo apprendiamo in 3:21, che ci dice: «Ora, senza la Legge, la giustizia di Dio è stata manifestata, attestata dalla Legge e dai Profeti: la giustizia di Dio mediante la fede in Gesù Cristo per tutti coloro che credono». Gesù Cristo è «Signore», vale a dire detentore dell'impero del mondo promesso alla posterità di Abramo.

Egli è stato resuscitato da Dio proprio per essere Signore. La fede che salva, la fede che dà diritto di partecipare alla promessa, è la fede in Gesù Cristo come Signore e come resuscitato da Dio (10:9): «Se tu confessi con la tua bocca il Signore Gesù e se tu credi nel tuo cuore che Dio lo ha resuscitato dai morti, tu sarai salvato». I due titoli non fanno che uno. Dio non avrebbe resuscitato Gesù se non l'avesse destinato a possedere l'impero del mondo, e Gesù è Signore solo perché è stato preliminarmente resuscitato da Dio. Da qui, 4:24: «Noi che crediamo in colui che ha resuscitato dai morti il nostro Signore Gesù», e 10:13: «Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato».

Per partecipare all'impero del mondo, per essere salvati, bisogna avere la fede in Cristo. Ma non bisogna anche avere la circoncisione? La fede che salva è la fede senza la circoncisione? Non è piuttosto la fede congiunta alla circoncisione? Problema formidabile, che ha messo Paolo in conflitto con i «santi» di Gerusalemme.

Paolo lo affronta (in 4:9). Perché? Proprio perché è lì la fonte dell'odio che lo perseguita. Una volta ancora, rapportiamoci alla sua situazione. Egli vuole conciliarsi la benevolenza degli ebrei cristiani di Roma. Per ottenerla, il miglior mezzo è evidentemente la franchezza. Egli deve dunque prendere l'iniziativa e confessare che non è d'accordo con la comunità cristiana di Gerusalemme in ciò che riguarda la circoncisione.

Egli confessa il disaccordo. Ma allo stesso tempo, egli perora la sua causa, prova la validità del suo sentimento. Quella prova, egli la domanda alla cronologia. Egli nota, infatti, che il patriarca Abramo non era ancora circonciso quando ottenne l'amicizia di Dio (4:10). Poiché Abramo non era ancora circonciso, la circoncisione non ha dunque avuto alcuna parte nella promessa di cui fu privilegiato. Per Abramo, la fede è stata tutto e la circoncisione non è stata niente. La posterità di Abramo non può evidentemente essere sotto un regime diverso da quello al quale suo padre è stato sottoposto. Anche per loro la fede è tutto, la circoncisione non è niente. Che cosa equivale a dire, e che cosa risulta da lì? Il testo seguente (4:11) ce lo insegna: «(Abramo ricevette la circoncisione come sigillo della giustizia che aveva ottenuto per la fede quando egli era incirconciso) al fine di essere il padre di tutti coloro che credono senza essere circoncisi, in modo che la loro fede sia loro imputata per giustizia, e il padre dei circoncisi che non hanno solo la circoncisione, ma in più seguono le tracce della fede che aveva nostro padre Abramo essendo ancora incirconciso». In due parole: questi hanno Abramo per padre e sono suoi figli che, benché incirconcisi, hanno la fede. E quelli che sono circoncisi hanno Abramo per padre e sono suoi figli solo se alla circoncisione uniscono la fede.

Ma accanto ai giudeo-cristiani che hanno la fede e il cui solo torto è di volervi aggiungere la circoncisione, ci sono gli ebrei rimasti increduli. Paolo deplora la loro aberrazione (9:1-4) e si domanda se l'incredulità della massa del popolo ebraico non metta in fallimento le promesse divine. Nella sua risposta (6-7) emette un principio di cui fa in seguito l'applicazione.

Il principio è che la parola di Dio non è rimasta senza effetto. La «parola di Dio» indica le promesse di Dio a Israele. Il senso è dunque questo: «Le promesse divine non sono state messe in fallimento dall'incredulità del popolo ebraico considerato nella sua massa; malgrado quella incredulità, le promesse sono in via di realizzazione».

Vediamo come Paolo intende l'applicazione del principio, vale a dire come prova che l'infedeltà del popolo ebraico non rechi danno alle promesse divine. La prova che porta è perentoria: «Non si è Israele perché si è venuti da Israele; non si è figli di Abramo perché si è usciti dal seme di Abramo». Se gli ebrei increduli fossero veramente Israele, per forza allora si dovrebbe confessare che le promesse divine hanno fatto fallimento, poiché queste promesse si rivolgevano a Israele, ai figli di Abramo. Ma per essere derivati da Israele, gli ebrei increduli non sono Israele; per essere usciti dal seme di Abramo, essi non sono i figli di Abramo. Dunque l'incredulità degli ebrei non reca alcun ostacolo alla realizzazione delle promesse divine. D'altronde, quella incredulità è stata annunciata dai profeti. Paolo cita (9:33; 10:19; 11:7) diversi oracoli nei quali l'indurimento del popolo ebraico è predetto. E questi oracoli, emanati dallo stesso Dio che ha fatto le promesse, sono senza dubbio ai suoi occhi commentari con l'aiuto dei quali le promesse devono essere interpretate.

Io ho detto che la dissertazione sulla promessa fatta ad Abramo e alla sua posterità, che va da 1:16 a 9, è interrotta da più interpolazioni. Ora studierò questi brani interpolati.


NOTE

[1] Si veda anche Esodo 4:22.

[2] Si veda Lagrange, Epître aux Romains, pag. 254.

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