domenica 31 dicembre 2023

Gli scritti di San Paolo — L'EPISTOLA AI ROMANI (LA MORTE REDENTRICE DEL CRISTO)

 (segue da qui)


LA MORTE REDENTRICE DEL CRISTO 

L'interpolazione più lunga è quella che va da 4:25 a 8:39. Liberata dai ritocchi che ha subìto e di cui si parlerà più avanti, essa tratta della morte redentrice del Cristo e costituisce la dissertazione capitale dell'epistola attuale ai Romani. 

Che cosa dice? Che eravamo peccatori, nemici di Dio, e che il Cristo, per mezzo della sua morte, ci ha riconciliati con Dio. Che Dio ci amava anche quando eravamo peccatori, che ha dato suo Figlio per ottenerci la vita eterna e che quella vita eterna non può mancare di procurarcela dopo tutto ciò che ha fatto per noi. Cos'altro dice? Che il cristiano partecipa alla morte del Cristo, ma partecipa anche alla sua resurrezione. È morto con il Cristo nel senso che il suo corpo di peccato è stato distrutto. È risorto con il Cristo nel senso che deve condurre una vita nuova e non lasciare agire le passioni nelle sue membra per produrre i frutti di morte.

Al riguardo, cosa insegna Paolo nei capitoli 4, 9 e 10? In sostanza, dice questo agli ebrei non cristiani: «L'impero del mondo è stato promesso ad Abramo e ai suoi eredi. Ma voi vi immaginate a torto di essere gli eredi di Abramo per diritto di nascita o, se volete, suoi figli. Per essere figli di Abramo e per essere suoi eredi, occorre credere che Dio ha risorto Gesù dai morti. Questo è ciò che serve, e questo è tutto ciò che serve»

Siamo di fronte a due programmi irriducibili. Paolo lascia il cielo fuori dal suo orizzonte: si occupa solo della terra. Il suo Cristo doveva venire per realizzare le promesse fatte ad Abramo, per esercitare un dominio sul mondo che tutti i suoi seguaci avrebbero goduto con lui. È per questo che Dio lo ha resuscitato dai morti. Nel programma di Paolo, la riconciliazione degli uomini peccatori con Dio non ha senso, e nemmeno la morte mistica del cristiano. Il brano 4:25-8:39, che occupa lo spazio tra 4 e 9, è il risultato di un'interpolazione. Esso non ha alcun legame con i due capitoli, che separa bruscamente. 

La dissertazione 4:25-8:39 non è di Paolo. Qual è la sua origine? Tentiamo di strappare il suo segreto. 

Esso ci raffigura in stridente contrasto, da un lato, la miseria degli uomini, dall'altro, la bontà di Dio per questi esseri disgraziati. La miseria degli uomini è desolante; infatti essi sono tutti condannati ad essere peccatori, tutti condannati alla morte. Ma questi peccatori Dio li ha amati, li ha riconciliati con sé e ha procurato loro la vita eterna. Ciò che aggrava la disgrazia degli uomini è che sono vittime della colpa di uno solo, vittime di una colpa che non hanno commesso. Per di più, la Legge è stata imposta loro per moltiplicare i peccati. Ciò che rende ancora più ammirevole la bontà di Dio è che, per riconciliare gli uomini a sé, per procurare loro la vita eterna, non si è ritratto di fronte alla morte di suo Figlio. 

Dio ama gli uomini. Si interessa a loro. Si adopera per alleviare le loro sofferenze. Perché? Evidentemente perché considera immeritata la loro disgrazia. Far ricadere sulla razza intera il peccato di uno solo dei suoi membri, ai suoi occhi, è un'iniquità. E promulgare la Legge espressamente per moltiplicare i peccati ne è un'altra. Di sicuro non è lui che ha messo il genere umano sotto il regime della morte e del peccato, perché vuole strapparlo ad esso. Ciò diventa ancora più chiaro se si considerano i mezzi ai quali è ricorso per realizzare il suo disegno. Se è lui stesso l'artefice del trattamento che gli uomini devono subire e se, preso tardivamente dal rimorso, sente di dovervi mettere fine, non ha che da dare un ordine e immediatamente la condizione del genere umano cambierà. Al posto di ciò cosa fa? Invia suo Figlio sulla terra e lo lascia mettere a morte. A che pro muovere così cielo e terra per un risultato che una parola sarebbe sufficiente a ottenere? E a cosa può servire una tale dimostrazione  di forza?

Si dirà che serve a far ammirare l'amore di Dio per gli uomini? Ma l'amore, per essere ammirevole, deve essere soprattutto ragionevole, e per essere ragionevole deve imporre solo sacrifici utili. Il Dio che fa ricadere su tutto il genere umano la colpa di un uomo, che promulga la Legge al solo fine di moltiplicare i peccati, è di certo un Dio crudele. Ma se questo stesso Dio, per mettere fine alla sua crudeltà verso gli uomini, osa consegnare suo Figlio alla morte, è stravagante. Ma non è di fronte a un simile personaggio che ci pone il testo 5:8, che celebra l'amore di Dio per gli uomini. Il Cristo che muore qui per noi, muore perché, senza il sacrificio della sua vita, gli uomini non sarebbero stati liberati dal giogo crudele che grava su di loro. Sicuramente egli non ha nulla a che fare con la disgrazia della razza umana. E non vi ha nulla a che fare nemmeno il Dio che lo ha inviato perché amava gli uomini.

Ma, d'altra parte, il quadro della miseria umana che ci traccia l'epistola ai Romani è chiaramente una replica della caduta di Adamo, così come la riporta la Genesi. È dalla Genesi che è stato tracciato ed è alla Genesi che deve la sua esistenza. Senza dubbio non lascia trasparire da nessuna parte l'autore del castigo inflitto agli uomini, lo relega nell'ombra. I giri di parole di cui si serve, tutti calati nello stesso stampo, constatano degli effetti senza mai menzionare la causa: il peccato è entrato nel mondo, la morte si è estesa a tutti gli uomini, la morte ha regnato per la colpa di uno solo, la condanna ha raggiunto tutti gli uomini, la Legge è intervenuta perché il peccato fosse moltiplicato. Ma quella riserva calcolata non può ingannarci, perché la Genesi è lì a completare le nostre informazioni. È Dio che ha fatto ricadere su tutti i figli di Adamo la colpa del loro padre; è lui ad essere l'autore della miseria del genere umano. Ciò è certo, poiché la Genesi ce lo dice. E l'epistola ai Romani, che non nomina Dio, che finge di non nominarlo — si dirà più oltre perché — conta sul fatto che noi comprendiamo a metà e che facciamo luce sul suo testo per mezzo della Genesi. Conta anche sul fatto che comprendiamo, quando ci dice (5:20) che la Legge è stata data perché il peccato fosse moltiplicato, e che potremo riportarci all'Esodo, dove è riportata l'istituzione divina della Legge. 

Quindi Dio non ha nulla a che fare con la disgrazia del genere umano. Eppure ne è l'autore responsabile. Ed eccoci qui, bloccati tra due asserzioni che si contraddicono. Come uscirne? Sopprimendo uno dei termini della contraddizione? Il mezzo sarebbe radicale, ma puerile. Evitare una difficoltà non equivale a risolverla. Siccome le due suddette asserzioni sono altrettanto solidamente stabilite l'una quanto l'altra, non abbiamo il diritto di sacrificare alcuna delle due. Restiamo, almeno provvisoriamente, chiusi nella nostra prigione e vediamo come Dio sia riuscito a salvare gli uomini dalla loro disgrazia. Forse, nel corso di questa ricerca, troveremo una via d'uscita. 

Ecco con quale mezzo Dio è riuscito a riconciliarci con lui. Ha inviato suo Figlio sulla terra. Lo ha inviato con un corpo che aveva la rassomiglianza della carne del peccato. Questo Figlio di Dio, vale a dire il Cristo, è morto. Nello stesso momento in cui è morto, il peccato è stato condannato a morte nella carne (8:3). Ma il peccato era l'ostacolo che ci separava da Dio. Condannato esso a morte o, se si vuole, ucciso, noi siamo stati riconciliati con Dio tramite la morte di suo Figlio (6:10). 

Questo è il principio. Ma perché noi partecipassimo realmente a questo beneficio della riconciliazione, occorre preliminarmente che il peccato sia stato ucciso in ciascuno di noi. Questo è ciò che ha luogo quando siamo battezzati (6:3-11). Siamo allora innestati sul Cristo, innestati sulla sua rassomiglianza di morte. Il nostro vecchio uomo è crocifisso con il Cristo, così che il nostro corpo di peccato è distrutto (6:6). E siccome noi siamo una cosa sola con il nostro corpo di peccato, ne consegue (7:4) che siamo messi a morte dal corpo del Cristo sul quale noi siamo innestati. Ma siccome noi partecipiamo alla morte del Cristo, noi partecipiamo anche alla sua resurrezione. Nel cristiano, «il corpo è morto a causa del peccato, ma lo spirito è vita» (8:10). Il cristiano non è più nella carne (7:5: «quando eravamo nella carne»; quindi non siamo più nella carne); da morto che era, è diventato vivente (6:13). Vive per Dio di una vita che deve essere eterna. (6:23). 

Dunque la liberazione del cristiano è il risultato della sua unione con il Cristo. Unione intima simile a quella che produce l'operazione dell'innesto. Il cristiano è affrancato dal giogo che gravava su di lui, perché partecipa alla resurrezione del Cristo dopo aver partecipato alla sua morte, perché è risorto come il Cristo, dopo aver subito la morte come il Cristo. 

Come il Cristo? È possibile? E si ha il diritto di impiegare questa espressione che, se fosse corretta, comporterebbe una conseguenza piuttosto grave? Rassicuriamoci. E impiegandola, non facciamo che conformarci alle intenzioni dell'autore che ci dice che il nostro corpo di peccato è stato distrutto e che noi non siamo più nella carne. Egli conosceva il valore delle parole. Non è per inavvertenza che ha parlato ripetutamente della distruzione del nostro corpo, della nostra carne, come di un fatto che si compie nell'immersione del battesimo! Egli ha visto la conseguenza che si ricaverebbe dal suo linguaggio, e ha voluto che la si ricavasse.  Ricaviamola. Il cristiano partecipa alla morte del Cristo. Egli muore proprio come il Cristo è morto sul Calvario... Ma il cristiano non muore realmente; egli resta pieno di vita e la morte che subisce è una pura finzione. Anche il Cristo è morto solo fittiziamente. Nel momento in cui sembrava rendere l'anima, egli non ha cessato di vivere, e la morte non lo ha raggiunto. 

Ecco la deduzione alla quale siamo stati condotti dai testi che parlano della nostra morte con il Cristo. Essa non manca di rigore. Ma abbiamo di meglio rispetto ad essa. Abbiamo il testo 6:5, dove l'autore stesso ci avverte che la morte del Cristo non è stata una morte vera, ma una «rassomiglianza di morte», qualcosa che aveva le apparenze esteriori della morte senza averne la realtà. Egli conferma la nostra deduzione. Aggiunge anche una spiegazione. Ci dice come sia accaduto che la morte del Cristo è stata puramente apparente. Ce lo dice in 8:3. Il Cristo non aveva quella carne peccaminosa che abbiamo noi. Ne aveva solo l'apparenza, qualcosa che rassomigliava a quella carne, en homoïômati sarkos hamartias. Pertanto gli era proprio impossibile morire realmente, poiché non aveva ciò che è necessario per farlo. Egli ha subìto solo un fantasma di morte, perché il suo corpo era solo un fantasma. 

Eccoci di fronte al Cristo fantasma. Potremmo altrettanto dire che siamo da Marcione e che la nostra dissertazione è un prodotto della scuola marcionita. Allo stesso tempo, abbiamo la chiave dell'enigma che ci imbarazzava così tanto, la chiave di questo Dio che non ha nulla a che fare con le nostre disgrazie ed eppure ne è l'autore. La soluzione di quell'enigma è semplicemente la soluzione del problema del male come la propone Marcione. E poiché siamo da Marcione, non dobbiamo essere sorpresi di sentirlo, per bocca di un discepolo, esporci la sua teodicea. Spogliata delle reticenze nelle quali essa è avvolta qui, la teodicea marcionita è la seguente: 

Ci sono due dèi: uno che ha creato il mondo, che ha creato l'uomo e che è sempre stato conosciuto; l'altro che è estraneo al mondo e che nessuno conosceva finché il Cristo non fosse venuto a rivelarlo. 

Il Dio Creatore è crudele. Ha fatto ricadere su tutti i figli di Adamo la colpa del loro padre; più tardi ha imposto la legge mosaica per moltiplicare i peccati; si ingegna a rendere gli uomini infelici: infelici su questa terra dove li carica di pene di ogni sorta, infelici nell'altro mondo dove li punirà per i peccati che ha fatto loro commettere su questa terra. 

L'altro Dio è il Dio buono, così chiamato perché la bontà fa parte della sua essenza. Il Dio buono ha avuto pietà degli uomini, che eppure non erano nulla per lui, e ha deciso di strapparli all'impero del Dio crudele che li torturava. Per realizzare il suo piano, venne lui stesso sulla terra, nascosto sotto un mantello etereo che aveva le apparenze di un corpo umano. Questo fantasma di corpo si  definì figlio di Dio e rivelò agli uomini il Dio buono che chiamò suo Padre. Il Creatore, prendendo Gesù per un semplice mortale delegato dal Dio buono, lo fece crocifiggere. Non crocifisse niente del tutto. Ma la sua intenzione fu presa per il fatto. Egli credeva di crocifiggere una carne peccaminosa. La carne peccaminosa, la carne del peccato fu ritenuta essere stata crocifissa, essere stata uccisa, almeno tra i cristiani che, mediante il battesimo, sono innestati sul Cristo. Essendo stati così messi a morte dal Dio creatore, i cristiani non esistono più per lui, non sono più sotto il suo impero. Essi appartengono al Dio buono, che riserva loro la vita eterna. 

Ma l'autore, scrivendo tra i cattolici e per i cattolici, ha proceduto come i modernisti hanno proceduto ai nostri giorni. Ha risparmiato il sentimento cattolico; al metodo della violenza ha sostituito quello della sorpresa. Ciò che contava per lui era far accettare espressioni enigmatiche che, una volta introdotte nella credenza cattolica, avrebbero fatto a poco a poco la loro opera. Da qui questi giri di parole che dicono una parte delle cose e lasciano indovinare il resto. Li ho segnalati più su e non ho da ritornarci sopra. Una parola solo su 8:20, di cui non ho ancora parlato e dove si legge quanto segue: «La creatura è stata sottoposta alla vanità, non di sua volontà, ma per la volontà di colui che l'ha sottoposta». Questo testo è molto imbarazzante per gli esegeti, che o lo imbrogliano a loro piacimento, oppure ci passano sopra frettolosamente e non colgono il punto. Chi si addentra in qualche spiegazione riconosce generalmente — almeno oggi — che 8:20 fa allusione a Genesi 3:17, dove Dio maledice la terra. Dunque il nostro autore dichiara che la terra è sotto il peso di una maledizione. E, un po' più espansivo che in 5, dove si era proibito rigorosamente tutto ciò che non fosse una pura descrizione della disgrazia del genere umano, risale qui alla causa della maledizione. Indica colui che ha sottoposto la creatura alla vanità. Ma lo indica senza nominarlo. Il personaggio che ha maledetto la creatura è «lui», cioè colui di cui sono pieni i racconti della Genesi. Ed ancora la sua responsabilità a «lui» non è denunciata apertamente. Essa appare solo dietro il velo di una perifrasi. La creatura è stata sottoposta alla vanità non di sua volontà, ma dia ton hupotaxanta. Che vuol dire quella espressione? Secondo san Tommaso, significa che ciò ha avuto luogo «in virtù della disposizione di Dio che ha deciso così», oppure «in virtù della sentenza di Dio». Secondo Estio (per cui la creatura indica il mondo intero) l'assoggettamento ha luogo per ordine di Dio. Come si vede, secondo i teologi più importanti, è proprio il Dio della Genesi, il Dio creatore, a essere presentato qui come la causa della schiavitù delle creature. Ma egli è lasciato nella penombra, al punto che un buon numero di commentatori hanno creduto di poter dare un'altra interpretazione — fantasiosa —, secondo la quale sarebbe l'uomo peccatore ad aver asservito le creature! 

Imbarazzato quando si tratta di indicare il Dio creatore, l'autore marcionita non lo è quando descrive il male che il Dio creatore ha fatto al genere umano. Egli lo descrive, prendendo per punto di partenza il racconto della Genesi che egli completa, e di cui dà un'interpretazione teologica.

In seguito al peccato di Adamo, il Dio creatore ha condannato gli uomini a essere mortali — ciò è nella Genesi — e li ha anche condannati a essere peccatori — questa è l'interpretazione marcionita del racconto della Genesi. Quindi tutti gli uomini sono peccatori. Ciò sarebbe nel senso in cui lo intende Agostino, che insegna che il bambino nasce con un peccato propriamente detto, consistente nella concupiscenza, e che, appunto, si basa sull'epistola ai Romani?  No. Tra Agostino e l'epistola ai Romani vi sono senza dubbio, in ciò che concerne il peccato originale, dei legami di parentela, ma vi è anche una differenza essenziale che attiene alla diversità delle preoccupazioni.  

Agostino è stato condotto alla sua nozione del peccato originale dal suo ardente desiderio di conciliare la miseria umana con la giustizia di Dio, del Dio unico che egli ammetteva. Il suo ragionamento era il seguente: Il male fisico nell'uomo può spiegarsi, sotto il governo di un Dio giusto, solo come la punizione di un peccato, di un peccato propriamente detto. Ma i bambini sono infelici prima di avere l'uso della ragione; lo sono dal momento in cui entrano nel mondo. Quindi i bambini, dal momento in cui entrano nel mondo, sono colpevoli di un peccato propriamente detto. E Agostino ha fatto dei prodigi di sofistica per trovare questo peccato propriamente detto, per provarlo, per spiegarci che Dio si è confrontato col peccato, con un peccato che risiede nell'anima di tutti i bambini senza che lui, il Creatore, vi abbia nulla a che fare, con un peccato propriamente detto che lui, il Dio giusto, è costretto per la sua giustizia a punire. Egli si è immerso in un abisso di assurdità per salvare la giustizia divina, compromessa dalla miseria del genere umano (quella osservazione vale per i teologi della Chiesa romana che, se hanno lasciato cadere, nel corso dei secoli, una parte delle tesi agostiniane, hanno mantenuto la nozione di un peccato che insudicia l'anima del bambino fin dal suo ingresso nel mondo). 

L'editore marcionita dell'Epistola ai Romani non prova l'imbarazzo di Agostino, perché non ha la stessa preoccupazione. Senza dubbio si propone anche lui di risolvere il problema del male. Ma, per trovare la soluzione, ha cominciato col mettere a lato del Dio buono un Dio malvagio che ha il monopolio del governo del mondo. Non ho bisogno di dire che si è aperto questa strada solo al prezzo di un colossale controsenso. Ma una volta entrato, ha potuto avanzare senza incontrare alcun ostacolo.

Il Dio giusto di Agostino può far soffrire solo i bambini preliminarmente macchiati di un peccato al quale lui, il Dio creatore, è estraneo. Il Dio malvagio dell'Epistola ai Romani non ha gli stessi scrupoli. Nessuna considerazione di giustizia gli impedisce di dare libero sfogo al suo istinto di crudeltà. Ed è ciò che fa. Condanna alla sofferenza, condanna alla morte i bambini che sono innocenti. Condanna gli uomini a peccare dando loro un organismo carnale che secernerà il peccato meccanicamente. Muniti di quella macchina del peccato, gli uomini diventano necessariamente peccatori. Ma non avevano fatto nulla per ricevere il triste dono con cui il capriccio del Dio creatore li ha gratificati. Si può dire che l'Epistola ai Romani insegna il peccato originale, ma non nel senso in cui lo intende la Chiesa romana sin da Agostino. 

La prova è fatta che la dissertazione 4:25-8:39 è interpolata nel mezzo della tesi di Paolo sulla promessa fatta ad Abramo e che — a parte alcuni supplementi di cui si parlerà più avanti — essa è di origine marcionita. Conoscendo la sua provenienza, conosciamo di colpo anche la sua data. La dissertazione di 4:25-8:39 sulla morte redentrice del Cristo è stata scritta prima della condanna di Marcione, quindi intorno al 140.   

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