giovedì 31 agosto 2023

Il «discorso della montagna» ed il «sermone profetico»

 (segue da qui)

§ 54) Il «discorso della montagna» ed il «sermone profetico». — Senonché nel Gesù della leggenda è la mitezza che prevale, mentre nel Giuda Galileo storico prevaleva il gesto violento e ribelle. Inoltre il Gesù evangelico si rivela un uomo universale, come è dimostrato nel «discorso della montagna», nel quale si invitano gli uomini ad amare i propri nemici. Giuda Galileo invece viene presentato da Giuseppe Flavio quale un uomo di parte: un «capo di bande» insomma, stando al passo surriportato di Loisy. Come conciliare tante discordanze?

Anzitutto non è esatto che Giuda Galileo fosse un capo di bande. Egli era piuttosto un capo-scuola: un «maestro» cioè, in tutta la nobiltà del termine. D'altra parte, che il Gesù evangelico fosse persona mite è solo una opinione popolare. Colui che entra nel tempio con la sferza, e discaccia con quella i profanatori; colui che affronta i suoi avversari chiamandoli «serpenti e progenie di vipere» non è un uomo mite. Quanto poi alla qualifica di «persona universale», pure data comunemente al Gesù, basti confrontare Matteo. In Matteo leggiamo che il Maestro, mandando i discepoli a propagare le sue idee, così aveva loro ingiunto: «Non andate ai Gentili, e non entrate in alcuna città dei Samaritani, ma andate soltanto alle pecore perdute della casa d'Israele, e predicate loro dicendo: il Regno dei Cieli è vicino» (X, 5-7).

Anche il Galileo evangelico dunque, come il Galileo storico, si preoccupava esclusivamente degli Israeliti. Una conferma, se occorresse, l'abbiamo in un altro passo dello stesso Matteo (XV, 21-26), laddove leggiamo: «Poi Gesù, partitosi di là, si ritrasse nelle parti di Tiro e di Sidone, ed ecco una donna cananea, uscita da quei confini, che gli gridò: “Signore, la mia figliuola è malamente tormentata dai demoni”; ma egli non le rispose nulla. E i suoi discepoli accostatisi lo pregarono dicendo: “Licenziala, perciocché essa grida dietro a noi”; ma egli rispondendo disse: “Io non sono mandato che alle pecore perdute della casa d'Israele”. E quella venne e l'adorò, dicendo: “Signore, aiutami”. Ma egli rispondendo disse: “Non è cosa onesta prendere il pane dei figliuoli e gettarlo ai cani”».

Il passo trascritto non ha bisogno di commenti. Perché se gli stessi elaboratori dei Vangeli avevano visto soltanto l'aspetto esclusivamente giudaico nel pensiero del Maestro, qual meraviglia che anche Giuseppe Flavio abbia visto e tratteggiato tale aspetto nel descrivere il Galileo storico?

a) Paolo e il «discorso della montagna». — L'argomento principe, comunque, a conforto della tesi tradizionale, sta nel «discorso della montagna» (Matteo, V, 1 — VII, 29). Tale discorso costituirebbe, secondo i più, una testimonianza della saggezza ultra-umana, e ad un tempo della universalità di chi ebbe a pronunziarlo. «Benedite coloro che vi perseguitano» (V, 44), si legge in tale discorso; «fate bene a coloro che vi fanno male» (ib.); «beati i pacifici» (V, 9), ecc. Ora, un simile linguaggio non può essere stato di Giuda Galileo, che aveva predicato l'odio contro i romani. E poiché deve escludersi che il «discorso» sia interpolazione tardiva, trattandosi di un passo che fa corpo con la tradizione tutta, lo stesso — si insiste — deve costituire prova, per convincere che un personaggio diverso da Giuda Galileo sta alla base della tradizione evangelica.

Senonché non è la prima volta che, scrivendosi la biografia di un personaggio, si attribuiscano allo stesso discorsi interi, che quello non aveva mai pronunziato. Quanto poi al «discorso della montagna», il lettore constaterà, dopo un esame un po' meno sommario, che contraddizioni sostanziali — e pertanto incompatibilità assolute — esistono, tra i principi universali affermati genericamente nel «discorso», ed i principi particolari, attuati dal Gesù nei singoli casi concreti. Così, come abbiamo visto nel caso della donna cananea (la quale si era prostrata al Gesù, pregandolo di curarle la figliuola), Gesù aveva risposto: «Non è cosa onesta prendere il pane ai figliuoli e gettarlo ai cani». Ora, come non ritenere incompatibile, con questo fatto ed atto, il versetto al Capo V, 43-44 di Matteo? Si legge in questo passo: «Fu comandato (Levitico XIX, 18) “ama il tuo prossimo e odia il tuo nemico”; ma io vi dico: “amate i vostri nemici”». Senonché, nel caso della donna cananea, Gesù aveva ottemperato alla norma prescritta in Levitico, e non alla norma che si legge in Matteo. Giacché la donna cananea era stata parificata al cane, e nel «discorso della montagna» si legge (VII, 6): «Non date ciò che è santo ai cani, e non gettate le vostre perle ai porci».

Ugualmente, in un altro caso specifico, Gesù così aveva affermato (Matteo, X, 34): «Non pensate che io sia venuto a mettere pace in terra; giacché io non sono venuto a mettervi la pace, bensì la guerra». E come potrebbe conciliarsi questo passo col versetto: «Beati i pacifici»? E tanto più deve il critico rilevare tali contraddizioni, in quanto un altro passo esiste nel «discorso della montagna», perfettamente analogo, nella forma, al passo più sopra riportato, e che così suona: «Non pensate che io sia venuto per annullare la legge o i profeti; giacché io non sono venuto per annullarli, bensì per adempierli» (cfr. Paolo, Romani, III, 21, 31 e passim).

Si manifesta da quanto sopra che la dottrina di un terzo personaggio (ed in concreto di Paolo) fu  col «discorso della montagna» — attribuita al Gesù, cercandosi di esporla, secondo la forma che ai propri discorsi aveva dato il Gesù stesso. Giacché come mai si potrebbe conciliare, ad esempio, il passo «Amate i vostri nemici e benedite coloro che vi odiano» (Matteo, V, 44), con l'altro passo (Luca, XIV, 26): «Chi vuol venire a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figliuoli, i fratelli e le sorelle, anzi, la sua stessa vita, sappia che non può essere mio discepolo»?

In verità, lo studioso, in base al principio del libero esame, deve saper vagliare, attraverso il proprio spirito, quello che prima di lui fu scritto su determinati argomenti. Giacché i metodi di accertamento, in passato, erano insufficienti, ed appunto per questo era stato facile, molto spesso, sanzionare come verità, gli errori anche i più grossolani. Tuttavia non è lecito persistere nell'errore, sol perché tale errore fu ritenuto dai padri verità intoccabile. Perché se così dovesse accadere, ogni umano perfezionamento sarebbe interdetto. 

Il «discorso della montagna» non può attribuirsi al Gesù, perché il suo contenuto è in contrasto troppo stridente con la predicazione attiva del Gesù stesso. Ma se il «discorso della montagna» non può attribuirsi al Gesù, come mai lo stesso venne a fondersi — fino a farne parte integrante — colla tradizione evangelica?

Vedremo appresso (§ 55), esaminando il motto «rendete a Cesare quel che è di Cesare», che una buona parte della predicazione attribuita dai Vangeli al Gesù, e tra questa il nucleo centrale del «discorso della montagna», non altro era stato in origine che predicazione di Paolo. Proprio Paolo aveva insegnato: «Benedite coloro che vi perseguitano» (Romani, XII, 14). Così pure era stato di Paolo il detto (ib. 17): «Non rendete male per male»; come l'altro detto (ib. 18): «Pace a tutti gli uomini»; e da ultimo (ib. 19): «Non vendicatevi da voi stessi, e non date luogo all'ira; imperrocché sta scritto (in Deut. XXXII, 35): “A me la vendetta, perché io darò la retribuzione”». E non è chi non riconosca, a questo punto, che se Gesù avesse espresso esso, prima di Paolo, i suddetti concetti, Paolo stesso, ripetendoli nella epistola ai Romani, non avrebbe richiamato, per suffragarli, il Deuteronomio; ma avrebbe richiamato i detti dello stesso Gesù. Il «discorso della montagna» dunque fu dottrina di Paolo (§§ 92 e 93).

b) Gesù d'Anano ed il «sermone profetico». — Altro argomento a sostegno della missione soprannaturale del Gesù — il quale pertanto non potrebbe identificarsi con Giuda Galileo — è costituito dal «Sermone profetico» (Matteo XXIII, 33 — XXIV, 19), nel quale il Gesù avrebbe preannunziato la fine di Gerusalemme quarant'anni prima, predicando insieme tutte le sciagure che sul popolo giudaico si sarebbero riversate. Senonché il «Sermone profetico» costituisce un paragrafo caratteristico della storia di Giuseppe Flavio. Da Giuseppe infatti apprendiamo che quando, nel 63 E.V., gli Zeloti di Giuda Galileo si accingevano a dar principio alla guerra contro Roma, fidando nell'aiuto di Jahvé e del Tempio, un modesto uomo di Giudea, Gesù d'Anano, osò scendere nelle piazze, profetando la distruzione di Gerusalemme e del Tempio, ove si fosse dato esecuzione ai progetti degli Zeloti. Al quale proposito va ricordato che circa sei secoli prima (606-589 av. E.V.), essendosi verificata una identica situazione in Giudea (perché le truppe babilonesi incombevano allora sul paese, come incombevano adesso le truppe romane), altre masse di fanatici avevano sollecitato la guerra contro Babilonia, confidando nell'aiuto di Jahvé e del Tempio. E quella volta era stato Geremia a scendere nelle piazze, per tentare di salvare il suo popolo dalle armi babilonesi, predicendo la fine di Gerusalemme e del Tempio se il popolo non si fosse ravveduto (cfr. Geremia, XXVI, 2-24). 

Allo stesso modo che sei secoli prima si era comportato Geremia, si comportò Gesù d'Anano durante la guerra messianica del 66-70. Quattro anni prima infatti che la guerra scoppiasse, precisa Giuseppe Flavio (VI, V, 4), appunto quando la «scuola» di Giuda Galileo riteneva prossima la seconda parusia del Maestro, e — predicando la guerra — riteneva sicura la vittoria, per l'aiuto divino considerato immancabile, Gesù d'Anano scese nelle piazze, per predire ai concittadini le sciagure che si sarebbero tirati addosso, qualora avessero persistito nelle intenzioni bellicose fino ad allora manifestate. Ma è utile riportare qui il testo di Giuseppe.

Lo storico, dopo aver elencato alcuni fatti straordinari, ritenuti preannunziatori della guerra, e che i messianici interpretavano in loro favore (mentre Giuseppe Flavio dichiarerà poi essere stati annunziatori di disgrazie), così prosegue: «Ma avvenne un fatto più straordinario di tutti. Gesù figliuol d'Anano, uomo semplice e rustico, quattro anni prima che cominciasse la guerra, venuto a Gerusalemme nella solennità pasquale, nella quale tutti usano alzare padiglioni in onore del Dio, cominciò improvvisamente a gridare presso il Tempio (cfr. Geremia, XXVI, 2): “Sento una voce da Oriente, sento una voce da Occidente; sento una voce dai quattro venti; una voce contro Gerusalemme e contro il Tempio; una voce contro gli sposi e contro le spose; una voce contro tutto il popolo”. Così gridando sempre, si aggirava giorno e notte per tutte le vie. Alcuni popolani più in vista, infastiditi da quel melanconico augurio, mettono le mani addosso al buon uomo, e lo maltrattano in mille modi. Ma quegli, senza emettere un lamento per se stesso, né contro i suoi battitori, seguitava a pronunziare le lamentazioni di prima. Resisi coscienti i caporioni della città che le parole di quell'uomo potevano apparire al popolo — come erano infatti — rivelazione di Dio, essi lo trascinarono davanti al governatore romano, laddove, condannato alla flagellazione, e lacerategli le carni fino alle ossa, né porse una supplica, né versò una lacrima; ma anche allora, colla poca forza che gli restava, piegando a flebil suono la voce, ad ogni sferzata rispondeva: «Guai, guai a Gerusalemme!». Richiesto dal procuratore romano chi egli fosse e donde venisse, come pure perché gridasse in quel modo, quegli non diede in risposta neppure una sillaba; per contro non cessava di replicare contro la città le dolenti sue profezie. Al fine, il procuratore romano, avendolo ritenuto pazzo, lo lasciò libero, ed egli in tutto il tempo che trascorse fino alla guerra non visitò mai alcun cittadino; né fu mai visto conversare: ma tutto il giorno, come un uomo che esca da una profonda meditazione, gridava: “Guai, guai a Gerusalemme”. Non imprecava mai contro coloro che ogni giorno lo percuotevano, e non ringraziava mai chi gli dava di che vivere; ma unica e comune risposta per tutti era la dolorosa profezia. Nei giorni solenni però egli gridava assai di più, e tutto questo per sette anni e cinque mesi continui. Né la sua voce diventò mai fiacca; né fu mai stanco, se non quando alfine vide, al tempo dell'assedio, avverate le sue profezie e se stesso morto. Giacché mentre si aggirava sopra le mura gridando più alto che mai: “Guai, guai alla città, guai al popolo, e guai al Tempio”, alfine aggiunse: “guai, guai anche a me”, ed un sasso scagliato da un mangano in quel momento lo colse e l'uccise, sprigionandogli l'anima, ancora gridante le sue profezie».

Non dovrebbero occorrere molte parole per convincere che non solo il sermone profetico tutto intero; ma altri aspetti della leggenda evangelica, tra cui principale l'episodio della flagellazione, siano riferibili a Gesù d'Anano. Giacché la tradizione cristiana ebbe a completarsi soltanto dopo la distruzione di Gerusalemme, appunto cogli apporti degli Zeloti sopravvissuti alla guerra, e ricoveratisi nelle comunità della diaspora greca.

Ma di ciò sarà detto allorquando sarà fatta l'analisi dei Vangeli. Frattanto, poiché il lettore potrebbe eccepire che i Vangeli erano stati scritti prima dell'anno 70, e che pertanto non possono i fatti di Gesù d'Anano avere influito sulla formazione della tradizione evangelica, noi daremo qui una prova contraria inconfondibile. Giacché nel sermone profetico, riportato dai Vangeli, viene citato un episodio specifico, che dalla storia di Giuseppe risulta essersi verificato proprio durante la guerra messianica, quando a Gerusalemme profetava Gesù d'Anano.

Ed invero, in Matteo il sermone profetico ha inizio coll'invettiva del Capo XXIII, 35, dove è detto: «Vi verrà addosso tutto il sangue giusto sparso sulla terra: dal sangue del giusto Abele, fino al sangue di Zaccaria figliuolo di Baruch, che Voi avete ucciso tra il tempio e l'altare». Ora non v'ha dubbio che questa invettiva sia stata pronunziata da Gesù d'Anano, proprio pochi giorni dopo l'uccisione di Zaccaria figliuolo di Baruch, che appunto i messianici-zeloti avevano ucciso, durante l'assedio di Gerusalemme, tra il tempio e l'altare. Infatti in Giuseppe Flavio (Guerra, IV, V, 6) così troviamo descritti i disordini accaduti in Gerusalemme assediata, mentre gli zeloti vi seminavano il terrore: «Ora i ribaldi, stanchi di trucidare alla disperata, finsero di erigere dei tribunali, per far condannare un tal Zaccaria figliuolo di Baruch, ch'era uomo ragguardevolissimo. Adunarono pertanto essi per via di bando settanta dei più rispettabili popolani col nome di giudici, ed accusarono Zaccaria di tradimento. Non vi erano prove, né indizi su cui appoggiare l'accusa: ma essi affermavano di essere più che certi, e questo solo doveva bastare a prova della verità. Zaccaria si avvide che ormai poca speranza poteva nutrire di uscirne vivo. Giacché si trovava chiuso fraudolentemente in prigione, e non citato davanti ad un vero tribunale. Tuttavia non si perse d'animo, ma cominciò a parlare francamente, e con poche parole sventò tutta l'accusa. Indi, rivoltosi ai suoi accusatori, venne esponendo tutte le loro ribalderie. 

Gli zelanti fremevano, ed a gran pena si trattenevano dal metter mano alla spada. Giacché avevano deciso di mascherare fino alla fine quell'azione col titolo e col velame di giudicato, e volevano insieme sperimentare se gli uomini da essi scelti quali giudici, di fronte al pericolo che essi stessi avrebbero rappresentato per loro, avessero avuto il coraggio di contraddirli. I settanta giudici però diedero i loro voti in favore dell'accusato, preferendo morire con lui, piuttosto che portare scolpita nel viso l'infamia della sua morte. A tale proscioglimento si fece tra gli zelanti un gran strepito, tutti essendo sdegnati contro i giudici, i quali non avevano capito che solo per finzione si era dato loro quell'autorità. Due zelanti frattanto, fra i più temerari, balzati in mezzo al tempio, uccidono Zaccaria, e mentre quegli cade a morte, gli dicono schernendolo: “Prenditi col nostro voto un proscioglimento più sicuro”; dopo di che lo buttano subito dal tempio nel sottostante burrone».

Appare quindi manifesto — come con più particolari diremo quando tratteremo la genesi dei Vangeli (§ 100) — che solo Gesù d'Anano poteva rimproverare e rimproverò ai giudei di avere ucciso Zaccaria figliuolo di Baruch. Solo Gesù d'Anano pertanto aveva pronunziato il sermone profetico, che segue nel Vangelo a quell'invettiva.

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