lunedì 10 luglio 2023

Monofisismo, docetismo ed ermeneutica

 (segue da qui)

§ 2) Monofisismo, docetismo ed ermeneutica. — Era stato primo Paolo di Tarso (Filippesi, II, 8) a proclamare che la forma umana assunta dal Gesù in terra era stata solo «apparenza». Difatti Paolo parla sempre del Gesù come di una entità trascendente, senza mai rilevarne la materialità. «Perché se anche lo abbiamo conosciuto secondo la carne» - ribadisce Paolo — «ora non lo conosciamo più» (II Corinti, V, 16). Pertanto proprio in Paolo il docetismo o «dottrina della parvenza» (ma più esatto sarebbe «dottrina dell'opinione», perché da dokèo deriva doxa e dogma») ebbe il suo primo assertore. Dopo Paolo, le dottrine sopravvenute (moltiplicatesi nell'Oriente greco insieme colle sette, tra cui gnosticismo, mandeismo, manicheismo, ecc.), non furono che aspetti diversi della dottrina paolista, affermatasi apertamente come «docetismo» nel 140 con Valentino, e negante la materialità del Cristo. C'è di più: la dottrina docetica propriamente detta non fu, in origine, se non un mezzo, escogitato dagli apologeti per teorizzare il «divismo monofisita» a carattere trascendente, che nel frattempo si era consolidato. Giacché tutte le volte che una opinione nuova acquisti credito, interviene la Filosofia quale «serva dell'opinione» (ancilla opinionis), per teorizzare, e trasformare in doctrina (da doxa) l'opinione stessa. 

Erano stati dunque i padri della Chiesa, i quali — sia per assecondare la predicazione di Paolo («e ritenuto, in apparenza, uomo» aveva scritto Paolo), sia per troncare le polemiche dei Gentili illustranti il fondatore del Cristianesimo qual'era vissuto veramente — avevano eccepito che la figura corporea del Gesù, quale era apparsa per le vie di Gerusalemme, ed era stata conosciuta dai suoi contemporanei, non era stata altro che parvenza. Il Gesù invece, «vero Dio e vero figlio di Dio», non aveva avuto mai corpo — secondo quei padri — e mai aveva avuto contatto con la materia: giacché venuto in terra per affrancare gli uomini dalla «materia», non poteva essere stato «materia».

Con simile postulato l'Apologetica cristiana aveva rifiutato di porre in discussione, nei primi secoli, la persona fisica del proprio fondatore. I «pagani» infatti — come in forma spregiativa i Cristiani chiamavano ormai i Gentili (perché le maggiori forze del gentilesimo, dopo i primi secoli, si trovavano solamente nelle campagne o pagi) — polemizzavano ironici contro l'agitatore galileo, e dileggiavano quali «Galilei» i Cristiani, anche quando da gran tempo gli stessi avevano ripudiato quel loro antico nome (cfr. Giuliano, Katà Galilàion lògoi). Gli apologeti dell'opinione nuova invece, rifiutando di discutere la persona del «Galileo», lasciavano senza risposta gli argomenti polemici degli avversari circa l'Uomo, e continuavano a denominare «Dio» e «Messia-Salvatore» (Cristo-Gesù) il loro eponimo fondatore. 

Ma non illustreremmo abbastanza questo aspetto primigenio dell'apologetica cristiana, se non richiamassimo l'analoga apologetica giudea. È noto infatti che, posteriormente alla traduzione in lingua greca del canone biblico (275 a. E. V.), i Giudei della diaspora iniziarono, specie ad Alessandria, un vasto movimento culturale, che doveva, nel loro proposito, sanzionare la preminenza della loro «Legge». Ciò produsse delle reazioni negli uomini di cultura greco-latina, e molti studiosi sorsero, non solo per contrastare la pretesa «rivelazione divina» dei testi biblici; ma per mettere in risalto quello che di inumano, e di ripugnante al senso morale, si rinveniva di frequente in quei testi. Sorse così la polemica, ed esponenti principali di essa furono, come è noto, Filone per i Giudei, ed Apione per i greco-latini.

Appunto dalle polemiche, pro e contro la natura divina dei testi biblici, si originò e prese consistenza quella dottrina, che il cristianesimo — erede e continuatore del giudaismo della diaspora — oggi chiama «ermeneutica». Giacché, trascinati nell'argomento, gli studiosi gentili affermarono che molti passi biblici si rivelavano non solo ripugnanti al senso morale, ma in stridente contrasto con la realtà storica. Essi quindi, nonché non poersi attribuire ad una divinità, dovevano per contro ritenersi accozzaglia di notizie, risalenti ad epoche di abbiezione spirituale. E proprio dopo questi rilievi, i difensori giudei ricorsero agli argomenti più impensati, per tentare di dimostrare che quel determinato passo dei testi biblici non andava inteso secondo il suo significato letterale, ma secondo un significato allegorico.

Filone scrisse parecchi libri, per dimostrare che i racconti immorali, contenuti nei testi sacri e sui quali di più si appuntavano i sarcasmi dei gentili, erano invece allegorie di verità filosofiche: parvenza cioè, data ad essi dalla divinità rivelante, in adeguamento con la minore elevatezza spirituale dell'epoca cui si riferivano. E proprio nella scia di Filone marciarono gli apologeti cristiani, quando, attaccati dai gentili sugli aspetti umani della vita del loro Maestro, sostennero che anche tali aspetti erano stati mera «parvenza».

In questo modo il personaggio che aveva dato vita al movimento cristiano — come capita per tutti i personaggi idolatrati dalle folle [1] — a poco a poco si era sdoppiato; e mentre il «Galileo» originario restava registrato nei libri anagrafici, e nei documenti ufficiali di Giudea, nelle biografie invece, che si venivano elaborando in mezzo alle comunità di adoratori, si delineava una figura nuova, nella quale l'aspetto ideale del dio trascendente soppiantava l'aspetto reale dell'uomo immanente. Ma su questo sdoppiamento del personaggio è prematuro parlare. Diremo invece qui, per meglio illustrare l'aspetto docetico e monofisita del primo cristianesimo, della polemica più nota rimastaci sull'argomento, svoltasi tra Origene per i Cristiani, e Celso per i Gentili.

Tra gli scrittori gentili più noti, che avevano polemizzato sulla personalità umana del Messia-Gesù, era stato (anno 180 circa) il medico Celso, confutato appunto da Origene. Aveva quegli esposto, nel suo «Discorso sulla verità» (Alethès logos), la vera vita e le vere gesta del «Maestro di Galilea», aggiungendo una confutazione della dottrina di quello, allo scopo di richiamare i romani al vecchio senso della patria e della famiglia, che invece la nuova opinione anti-romana si era avviata a sradicare. Tratteggiando quindi Celso la figura del «Maestro», così ne aveva da ultimo sintetizzato la biografia: «Con una morte miserabili finì una spregevole vita; e come potete pretendere che noi si creda in lui come in un Dio?».

Senonché in una collettività di neofiti, quando l'ammirazione per l'uomo si sia trasformata in adorazione, è il sentimento che prevale sulla ragione. Era quindi naturale che, a simili attacchi, i Cristiani, credenti ormai nella infallibilità del loro Maestro, rispondessero negandone gli aspetti umani. Importava infatti impedire che nelle comunità di neofiti altri portasse l'esame sulla «Umanità» del «Maestro». Giacché nessun uomo, come tale, può sottrarsi alle critiche ed alle censure (dal che l'odio fanatico degli atanasiani contro Ario, odio che nel 336 condusse all'avvelenamento di quell'agitatore). Il «Maestro» poi, era stato condannato a morte da un Tribunale validamente costituito, che aveva giudicato e deciso il processo secondo le legi dell'epoca. Non poteva quindi l'ironia dei Gentili sull'argomento non apparire pericolosa alla ulteriore propaganda messianica nel mondo romano. Di qua la necessità di negare, o quanto meno sconoscere, la natura umana del Fondatore, per insistere soltanto sull'affermata natura divina. La dottrina docetica pertanto giungeva a proposito — prima applicazione della «ermeneutica» di Filone — per teorizzare il «divismo monofisita», rimasto poi prevalente fino al Concilio di Calcedonia (a. 451).

Dopo quanto sopra, appare manifesto che per poter ricostruire la verità, relativamente alla formazione del primo cristianesimo, e soprattutto per poter individuare nelle fonti profane il personaggio che diede vita al movimento cristiano, sarà necessario — bandita ogni adulazione — riportare nel campo della pura storia lo studio del fenomeno. Giacché soltanto la storia — principale disciplina della conoscenza per quanto ai fatti dello spirito — può ricercare e ricostruire gli aspetti primigeni, come nel più vasto campo della vita in generale, così nel più limitato fenomeno del cristianesimo in particolare.


NOTE

[1] Il fenomeno dello «sdoppiamento della personalità» anche oggi si accompagna al fenomeno del «divismo» (perché la Storia è sempre Storia Contemporanea). Allorquando un Tizio si sia conquistato l'entusiasmo popolare, diventando «divo» (demagogo politico, campione dello sport, stella del Cinema ecc.), le biografie sul suo conto si moltiplicano. Ma quelle biografie vengono create per pascere di entusiasmo i «tifosi», e sono sempre dettate da entusiasti del «divo». Esse pertanto non rappresentano la verità sul soggetto (personalità storica); ma episodi immaginari od alterati, idonei a soddisfare gli entusiasti. 

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