mercoledì 30 novembre 2022

IL CRISTIANESIMO AVANTI CRISTOAPPENDICE VI: MITI E RITI

 (segue da qui)

APPENDICE VI

MITI E RITI

Per riti intendiamo atti materiali: sacrifici cruenti o di altro tipo, eucaristie e battesimi, mutilazioni (castrazione, circoncisione, ecc.), indossare ornamenti, tatuaggi, fabbricazione di effigi e di simboli, fissare immagini, danze sacre, travestimenti, processioni, cannibalismo e matrimoni sacri, fuochi rituali, ecc.

Nei miti vediamo sequenze di affermazioni primitivamente orali, generalmente in relazione ai riti e infine costituenti racconti immaginari.

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Si contesta oggi, seguendo Lévy-Strauss, la validità di una legge definita da Saintyves: «Un mito è solo l'esegesi o il commentario di un rituale». Si pensa piuttosto che miti e riti siano «trasformazioni diverse di elementi identici». [6] Risulta da quella proposizione che i riti non sarebbero anteriori ai miti, ma che gli uni e gli altri si collocano sullo stesso piano.

Quella teoria ci sembra irricevibile per i racconti popolari, le leggende più o meno storiche e per i miti eziologici o esplicativi.

Per i racconti delle prime due categorie ciò va da sé. Per la terza, va distinto dal mito propriamente detto ciò che fu probabilmente la sua origine: lamenti al momento della morte del dio, grida di gioia al momento della sua resurrezione, affermazioni cultuali caratterizzate dalla loro brevità in quanto espressione spontanea di una credenza.

Ad esempio, gli adepti di Kore gridavano, durante la notte della natività di Aïon: «La Vergine ha partorito!» e quelli del Cristo al momento dell'Epifania: «Gesù è appena nato!» A Pasqua, cristiani e pagani gridavano: «Attis è risorto! Chrêstos è risorto!». Questo nucleo emotivo può essere considerato parallelo ai riti subalterni, ma non è ancora un mito.

L'apparizione del mito richiede in effetti un'amplificazione. Così l'affermazione «Gesù di Nazaret è nato a Betlemme» ha già consistenza mitica; perché collega due tradizioni diverse sulla nascita del dio. La proposizione «Cristo è risorto nella carne» è una formula di natura evangelica e non paolina; essa risulta da un'elaborazione psicologica se non polemica; persino come espressione liturgica non è primitiva. A maggior ragione se si aggiunge «dopo tre giorni» o «Pilato essendo procuratore», ecc. Si supera così, passo dopo passo, l'esclamazione iniziale, la credenza istintiva elementare; si comincia surrettiziamente l'elaborazione di miti divenuti racconti.

Si può quindi porre in principio che tutti i miti eziologici sono posteriori ai riti. Essi li commentano introducendoli in scene fittizie di cui il dio è spesso l'eroe. Ad esempio, nell'eucarestia dei nostri sinottici, Gesù dà la sua carne da mangiare e il suo sangue da bere, al punto che la storia  dell'«ultimo pasto» è la spiegazione immaginaria di un rito omofagico precedente.

Stessa constatazione per la comunione a base d'acqua in Giovanni 4:10-19. L'antico rito ha dato origine all'episodio della Samaritana al pozzo di Giacobbe. Ne è l'illustrazione dialogica. 

Similmente il battesimo cristiano conduce a quello del Cristo. L'immersione nel Giordano, l'apparizione di una colomba, l'ascolto di una voce celeste, l'illuminazione delle acque (Giustino), l'intervento di Giovanni Battista rivelano tradizioni sovrapposte; cfr. Matteo 3:13ss. Per i precristiani si trattava solo di immergersi nell'acqua viva, elemento divino, per rinascere immortali dopo un annegamento finto. Più tardi hanno creduto di giustificare il loro rito sulla base del prototipo di un dio che non ne aveva bisogno. Anche qui il mito segue il rito. Lo stesso vale, evidentemente, per il paganesimo.

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Oltre a una ragione logica, una constatazione abbastanza semplice mostra che il rito è precedente al suo ambiente e alla sua traduzione verbale. Ecco perché potete sopprimere l'esegesi senza sopprimere l'originale, ma se si sopprimete l'originale voi non avrete il suo commentario. In altre parole, il rito può esistere senza il mito che lo accompagna, ma se cancellate il rito il mito scompare.

Così il battesimo e la comunione possono sussistere senza i racconti. Ci sarebbe amputazione liturgica, non soppressione radicale del culto. Il contrario non è possibile: i racconti cadrebbero nel vuoto. Ad esempio, quelli che riguardano la morte di Attis o la sua relazione con Cibele possono essere cancellati senza che gli atti cultuali siano interrotti: la fissazione dell'immagine del dio sul pino sacro, il trasporto dell'albero, la castrazione dei galli, la doccia di sangue nella fossa, ecc. Ignorando questi riti, esaurite i racconti concomitanti.

Non sono, infatti, essenziali, anche se lo sono diventati. Come pensava Robertson Smith, la maggior parte delle religioni antiche non aveva credenze, ma istituzioni e pratiche. Idea ripresa da E.O. James: «All'inizio fu in una tecnica rituale piuttosto che in una mitologia che le speranze, le paure e i bisogni di un'umanità che viveva in condizioni avverse e penose trovarono la loro espressione [...]». [7]


Ne consegue che, sebbene numerosissimi miti siano eziologici, essi non hanno per scopo originario di fornire una spiegazione scientifica o pseudo-razionale. Questo tipo di racconti esprimono la fede, una «realtà vissuta» (Malinowski). Fanno riemergere eventi passati ai quali il credente attribuisce un'importanza primaria e che garantiscono l'efficacia del rituale. Possiedono un valore funzionale. [8]

È persino possibile che un sentimento identico abbia generato un rito e  un mito che hanno in comune solo la loro origine. È il caso dell'esempio avanzato da Nicole Belmont: la paura dell'incesto. Altre volte il mito cessa di avere il minimo significato cultuale, come accade nella mitologia greca. Altre volte ancora il mito reagisce al rito e lo modifica.

Ma insomma il mito è una complicazione liturgica. È apparso generalmente più tardi del rito, in un periodo più evoluto dell'umanità, quando essa ha saputo allineare le parole per esprimere sentimenti, idee o parvenze di idee. 

NOTE

[6] Crf. N. BELMONT, Pratiques et rituels populaires en France, in Dict. des mythologies, volume 2, 296 e s.

[7] JAMES, o.c., 34, 286.

[8] JAMES, ibid., 15-16; MORENZ, o.c., capitolo 2; capitolo 5, particolarmente 115-119.  

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