sabato 29 ottobre 2022

IL CRISTIANESIMO AVANTI CRISTOIl proto-cattolicesimo

(segue da qui)

— VI — 

Il proto-cattolicesimo

Il cristianesimo risulta dalla fusione di sette che presentavano teologie diverse, ma legate originariamente al culto della fertilità.

A poco a poco però le rappresentazioni molteplici del Salvatore tendono all'unità. Gli si presteranno sentenze, miracoli, una scorta di discepoli e lo si introdurrà in piccole scene artificiali di cui egli sarà il protagonista. [105]

A partire dal 120-130, il precristianesimo lascia il posto a un periodo pre-evangelico o, quantomeno, pre-canonico. Malgrado un arcaismo spesso accusato, i documenti comportano elementi che annunciano il Vangelo. Il cammino della fede è costellato da alcuni testi che analizzeremo da questo punto di vista.


L'Ascensione di Isaia

L'Ascensione di Isaia mostra il profeta sollevato fino al settimo cielo. L'angelo che lo accompagna gli annuncia che il Principe di questo mondo ucciderà il Figlio di Dio e lo appenderà al legno; 9:14.

L'esposizione sul legno dopo la morte è un costume ebraico che non corrisponde al supplizio romano. Non può quindi trattarsi della crocifissione di Gesù per sentenza di Pilato.

In 11:19-20 il Figlio di Dio è consegnato al «re» di Giudea dai «figli di Israele». Egli è torturato a Gerusalemme. E. Weill-Raynal osserva a questo proposito che al tempo di Tiberio non c'era più un re in Giudea e che i Giudei non praticavano la crocifissione romana. [106]

L'Ascensione di Isaia è una compilazione di testi che andrebbero dall'88 al 150. [107] Ne consegue che i suoi elementi più tardivi sono un po' anteriori ai nostri Vangeli e non hanno subito la loro influenza. Certo, le fonti principali dei canonici circolavano prima del 150, ma restano fuori da quell'apocalisse che è l'Ascensione. Quest'ultima rappresenta, nei passi segnalati, un precristianesimo ancora molto ebraico e molto rozzo.


Il vangelo di Tommaso

Il vangelo di Tommaso fa parte della biblioteca gnostica ritrovata nel 1947 a Kenoboskion, nell'Alto Egitto. Esso restituisce la collezione di logia, o detti del Signore, di cui i papiri di Ossirinco, scoperti mezzo secolo prima, avevano consegnato solo tre frammenti. Il testo copto che possediamo sarebbe la traduzione di uno scritto redatto in greco del 140 circa «a partire da fonti ancora più antiche». [108]

Il documento è interessante per la sua datazione. Lo è anche perché i suoi 114 logia, che comprendono ciascuno più versi, formano un insieme abbastanza ampio da fornire dati affidabili.


Il vangelo di Tommaso è molto diverso dai canonici perché il processo di umanizzazione vi è ancora embrionale. Contiene solo frasi attribuite al Signore e riportate da un «Tommaso» sconosciuto. Un gran numero di essi hanno i loro paralleli nei nostri Vangeli, ma in un testo lontano dal loro.

Alcuni di questi logia sono enigmatici, altri meno oscuri o facili da decifrare. Vi si scopre il rispetto del sabato (contrariamente ai sinottici) e una ostilità marcata contro i Farisei, colpevoli di aver nascosto «le chiavi della Gnosi».

È proprio, in effetti, con una Gnosi che noi abbiamo a che fare. [109] I discepoli sono incoerenti. Vi sono nominati solo Pietro e «Giacomo il Giusto», per cui «il cielo e la terra sono stati fatti». Il loro ruolo è pressappoco nullo; allo stesso modo quello di Maria Maddalena; lei sarà resa «maschio» al fine di entrare nel Regno da cui le donne sono escluse; logion 114. Idea pagana che ritroviamo nei Misteri d'Eleusi; MAGNIEN, o.c., 269.

Gesù è altrettanto evanescente come il suo seguito. Egli è il «Padre» e «non è stato generato da donna»; logion 15:28. Egli è «la Luce» e il «Tutto da cui il Tutto è uscito»; logion 77:24-25. [110] È quindi un Eone generatore del mondo. 

A questo Essere fittizio i discepoli domandano quando lo vedranno, quantunque ritenuti rivolgersi a lui; logion 37:27-28. Tuttavia egli si è rivelato nella carne in mezzo al mondo, ma non fu affatto riconosciuto; logion 28:20-23.

La lunga e dolorosa sfilza di esortazioni che è il vangelo di Tommaso non lascia alcuno spazio ai sacramenti, alla Passione, alla Redenzione. Impossibile scorgervi la minima situazione vissuta o un personaggio reale nascosto sotto i tratti di un Illuminatore spirituale. Come diceva Dujardin a proposito delle sentenze conosciute prima della scoperta del vangelo di Tommaso,

«Neanche l'ombra di un'azione,

Non un fremito di sensibilità,

Non un soffio di vita». [111]

Insomma, Gesù appare in questo documento come l'Eroe di una setta ebraica eterodossa. Colui che il mondo non ha riconosciuto, non ha ancora avuto affatto una nascita, una vita terrena e non ha affatto dato corso alle speculazioni sulla sua Passione. Ma egli si è manifestato, ha avuto discepoli e ha parlato. Questo è comunque un inizio di storicizzazione.


La lettera di Barnaba 

Se la Lettera di Barnaba fosse del compagno presunto di Paolo, potremmo ricavarne informazioni sulle credenze del I° secolo. Ma essa è un pseudepigrafo tardivo. Alfaric [112] la fa risalire all'inizio del regno di Adriano (117); P. Hamman e André Ragot tra il 120 e il 130. Ci sembra un po' precedente alla guerra dei Romani contro Israele, ossia del 130 circa.

La lettera combatte gli ebrei appropriandosi delle loro Scritture. Le interpreta mediante allegorie che tendono a dimostrare che il cristianesimo fu profetizzato da «figure»: «Il buon Signore», dice Barnaba, «ha tutto annunciato in anticipo»; § 7.

Malgrado quella affermazione e la convinzione «di non aver nulla omesso [...] di ciò che concerne la salvezza» (§ 17), l'autore ignora una gran parte del Vangelo. Il suo Cristo è un dio preesistente. Il buon Barnaba non sembra conoscere né la sua nascita, né il suo insegnamento, né i suoi miracoli, né il suo processo; non parla del «pasto del Signore» né dell'Istituzione dell'eucarestia. Per lui, senza dubbio, la comunione a base d'acqua e di pane è ancora annessa al battesimo. Sa che il Salvatore sale al cielo dopo la sua resurrezione (§ 15), ma non lo invia agli inferi e né lo mostra ai discepoli: nessuna parentesi terrena. 

Come nell'epistola agli Ebrei e in Paolo il Salvatore «doveva manifestarsi nella carne per abolire la morte» e «per compiere le promesse fatte ai patriarchi»; § 5. Egli era della discendenza di Giosuè, non di Davide; § 12. Ebbe 12 discepoli perché vi erano 12 tribù; § 8. La sua morte fu terrena; è dovuta agli ebrei, indegni della sua Alleanza, e che «hanno colmato la misura dei loro peccati»; § 14. I Romani non sono nominati.

Incarnato per realizzare l'Aspersione cruenta (§ 5), il Cristo subisce però la croce, prefigurata dal gesto di Mosè che combatté gli Amaleciti. Secondo i profeti, egli soffrì «sul legno», la sua carne fu trafitta da chiodi (§ 5), fu abbeverato con aceto e fiele (§ 7); le sue vesti furono tirate a sorte da «scellerati» (§ ). La sua croce eretta lascia stillare sangue (§ 12).

È evidente che lo pseudo-Barnaba combina maldestramente la teologia del sangue con quella della croce. La sua documentazione è attinta dalla Bibbia mediante un'esegesi che Alfaric definisce «sconcertante». [113] Eccone un esempio: il Cristo fu annunciato dal sacrificio del capro espiatorio e della giovenca; § 7-8. La sua redenzione si rivela nella circoncisione che Abramo operò sui 318 membri della sua tribù. Perché? Perché il numero 18, scritto in lettere greche, i, ê, forma Iê—, inizio della parola Iêsous, e perché 300 si rende con una tau, T, che è la croce; § 9.

Queste dotte precisioni non forniscono sulla «vita di Gesù» alcun dettaglio utilizzabile. Tutto si basa su una base scritturale e su un'immaginazione senza freni. Il Cristo non ha nemmeno un'esistenza normale: è «apparso» (§ 14); ma ha vissuto?

Però apprendiamo che Gesù fu crocifisso dai suoi compatrioti; i dettagli concernenti la Passione si moltiplicano. Un tentativo di costruzione sistematica appare.


Clemente di Roma

Clemente Romano è presentato dall'esegesi conservatrice talvolta come un «terzo papa» vissuto alla fine del I° secolo, talvolta come un altro «papa» situato alla metà del secondo. Gli si attribuiscono molte lettere riconosciute non autentiche, ma gli si conserva la paternità di una famosa epistola ai Corinzi.

Turmel e Alfaric hanno mostrato che Clemente non era affatto un pontefice, ma il segretario responsabile della posta, e che fu il contemporaneo di Erma e di Pio. [114] La sua lettera, o meglio quella che scrisse su delega di una comunità romana, aveva per scopo di sopprimere lo scisma che stava lacerando la chiesa di Corinto. Turmel colloca questo messaggio intorno al 150; noi lo collochiamo prima della seconda guerra giudaica, negli anni 130, poiché Gerusalemme non è distrutta (§ 41).

La sostanza della lettera proviene quasi interamente dall'Antico Testamento e dalla epistola agli Ebrei. Abbiamo notato tra le due missive trentacinque corrispondenze molto chiare. [115]

Lo sfruttamento di un materiale antico sarebbe stranissimo se Clemente avesse potuto ricavare dalla predicazione del Cristo direttive capaci di restaurare a Corinto l'unità compromessa. Ma è chiaro che egli ignora tutto di una «vita di Gesù». Il fatto è grave per la Storicità, soprattutto quando essa lo fa vivere nel I° secolo. [116] I Vangeli gli sono totalmente sconosciuti.

Ciò che conosce lo zelante segretario sono le sofferenze, il sangue versato, le ferite, la resurrezione della carne. Ma non parla della crocifissione propriamente detta, o perché respinge questo punto dottrinale, come farà Minucio Felice, oppure per non aggravare il conflitto che era incaricato di sedare.

Alcuni rari passi annunciano il Vangelo in formazione; § 13, 46. Per Clemente, Gesù è un uomo di sofferenza, come mostra il copioso utilizzo di Isaia; § 16. Il Salvatore è nato da Giacobbe «secondo la carne» (§ 32), è risorto (§ 24), ha scelto degli apostoli e ha fondato la gerarchia episcopale (§ 42, 44).

Ma Clemente non conosce la presunta venuta di Pietro a Roma e il primato che gli si attribuirà più tardi. Questo era eppure il momento di parlarne!

Insomma, questo prolisso autore romano ignora, verso il primo terzo del secondo secolo, ciò che potrebbe far ammettere l'esistenza di Gesù; egli non sa nulla di quella «venuta nella carne» che gli sta tanto a cuore; non conosce la fondazione da parte di Pietro della chiesa romana di cui egli è l'illustre segretario. In compenso, egli insegna la dottrina dell'investitura degli apostoli da parte del Cristo.


La lettera di Policarpo ai Filippesi

La lettera di Policarpo è l'amalgama di due testi, uno di Policarpo, l'altro di un falsario che desiderava porre sotto il patronato del vescovo di Smirne le lettere adulterate di Ignazio di Antiochia. [117]

Turmel la situa nel 166. Non vi troviamo nulla a proposito di una vita di Gesù, ma l'affermazione molto forte degli elementi della fede che si sarebbero imposti:

«Chiunque non confessi che Gesù Cristo è venuto nella carne è un anti-Cristo. Chi non confessa la testimonianza della croce è del diavolo. Chi interpreta le parole del Signore secondo i suoi desideri personali, negando la Resurrezione e il Giudizio, è un anti-Cristo»; § 7.

La lettera dice anche che il Cristo sul patibolo «ha portato lui stesso i nostri peccati nel suo corpo». Contro i doceti essa insegna l'incarnazione e la resurrezione materiale dei morti; ma prova ipso facto che questi dogmi non erano accettati da tutti i cristiani di quell'epoca; cfr. 1 Giovanni 2:19; 4:2-3; 2 Giovanni 7.


Le lettere di Ignazio di Antiochia

Le cosiddette lettere di Ignazio sono attribuite comunemente a un essere fittizio, «Ignazio di Antiochia». [118] Questo personaggio non è mai esistito. Per Turmel egli risulta dalla fusione di Ignazio, martire di Filippi celebrato da Policarpo, e di un certo Teoforo, vescovo marcionita di Antiochia. I due uomini sono stati fusi in uno solo, Ignazio di Antiochia, che sarebbe stato martirizzato a Roma dopo un viaggio improbabile.

Ci restano sotto questo nome sette lettere. La loro prima redazione è marcionita. Essa risale, secondo Turmel, al periodo tra il 135 e il 188. La seconda, destinata a correggere la precedente, si situa tra il 190 e il 211.

Le parti aggiunte combattono Marcione insistendo sulla «carne», sulle sofferenze e sulla morte reale del Cristo. Esse confutano la visione doceta secondo cui i profeti dell'Antico Testamento non lo hanno conosciuto, e il dualismo che oppone il Dio buono al Dio malvagio. Le aggiunte oscurano il testo e provocano talvolta guazzabugli. [119]


Trascurate dalla critica conservatrice, che vuole situare intorno al 110 testi preziosi per sostenere la tradizione monarchica della Chiesa, le conclusioni principali di Turmel sono oggi confermate da Robert Joly. [120] Applicando al dossier d'Ignazio un metodo di analisi filologica e comparativa, egli ritiene che un falsario abbia scritto le lettere intorno al 165-168, che il paragrafo 9 dell'epistola di Policarpo gli abbia fornito il nome di Ignazio e che il suo viaggio a Roma sia un'invenzione.

Quella dimostrazione ci pare di una solidità irrefragabile senza farci dimenticare con ciò la mescolanza degli elementi gnostici e cattolici scoperta da Turmel.

È curioso, però, che l'opinione dei benpensanti sia la più favorevole ai miticisti. Se, infatti, delle lettere autentiche fossero apparse intorno al 110, il loro autore non avrebbe mancato di evocare il gruppo apostolico a sostegno delle sue tesi, poiché appena due generazioni lo separavano dagli «eventi» presunti. Poiché non ne dice nulla, a parte l'aspetto religioso generale, significa che li ignora. Ci troviamo di fronte ad un vuoto di informazioni a proposito di Gesù, dei suoi discepoli e di istruzioni dettagliate date ai loro pretesi successori.


Il Vangelo di Pietro

Il vangelo di Pietro è un apocrifo risalente per l'essenziale al 150. [121] È interessante tra tutti perché segna una transizione tra un credo antico e i racconti canonici. Il  frammento ritrovato nel 1886 racconta la Passione. 

Vi si legge che la condanna di Gesù ricade sugli ebrei, principalmente su Erode; i Romani non ne sono responsabili. Al contrario, è Pilato che interviene presso il re per ottenere il corpo del Cristo.

Questo pseudepigrafo contiene la scena di derisione che racconteranno i Vangeli; ma i soldati, invece di insultare il «re dei Giudei», se la prendono col «Figlio di Dio». Il Signore soffre come un essere divino, non come un agitatore, dettaglio che rivela uno stato più antico della fede; cfr. Matteo 27:29; Marco 15:18.

L'esecuzione di Gesù non è regolare: egli è consegnato al popolo che lo maltratta e lo crocifigge. Si tratta quindi più della Passione di un dio, il cui sostituto era maltrattato dalla folla, che di un castigo politico. In un altro passo, al contrario, la versione canonica appare con il titulus (insegna) recante l'iscrizione: «Ecco il re d'Israele!».

Il Vangelo di Pietro parla anche dei ladroni, della spartizione delle vesti e delle tenebre che avvolgono «tutta la Giudea» a mezzogiorno.

Il grido del Signore che muore, «Mia potenza, tu mi hai abbandonato!», appartiene al simonismo, il sigillo e la custodia del sepolcro sono apologetici e tardivi; in compenso, la croce che segue il Risorto e risponde per lui è un tratto d'arcaismo. Allo stesso modo la Predicazione agli inferi seguita dall'ascensione immediata verso i cieli.

Il vangelo di Pietro mischia arcaismi e novità; non fu sufficientemente armonizzato per trovare posto nel canone.


Giustino (103-168 circa)

L'apologeta cristiano Giustino ha scritto in greco diverse opere di cui tre ci sono pervenute: due Apologie, di cui la prima (150-153) presenta un interesse maggiore, e un Dialogo polemico con l'ebreo Trifone (160 circa).

L'esegesi conservatrice pretende che questo teologo conoscesse i nostri vangeli canonici. In realtà egli conosceva una parte delle loro fonti, ma non il testo stesso che possediamo. Questo è ciò che ha mostrato Guy Fau stilando una tabella parallela delle citazioni che troviamo in Giustino e dei versi evangelici che vi corrispondono. [122] Questa tabella e alcune dissonanze tra Giustino e i canonici permettono di affermare che questi ultimi sono apparsi dopo di lui o prima che abbia potuto utilizzarli.

Confrontando, in effetti, le citazioni di Giustino con i versi corrispondenti abbiamo constatato che la serie ricavata dai Vangeli è più lunga di circa un terzo. Ora, una legge messa in luce dalla Critica delle forme vuole che i testi più recenti siano amplificati rispetto a quelli precedenti. Le nostre collezioni sono quindi posteriori a Giustino.

D'altra parte, le differenze permettono di vedere che egli non ha letto Matteo, perché, al momento del battesimo di Gesù, Giustino fa accendere un fuoco sul Giordano; fa nascere Cristo in una grotta e ignora l'Annuncio ai Magi. Egli segue una tradizione pre-lucana facendo discendere da Davide Maria, e non Giuseppe; Dialogo 45:4. [123]

Il punto più grave è che Giustino presenta solo un materiale religioso. Per Goguel, «Giustino non ha avuto altra documentazione se non quella che trovava nei Vangeli»; Jésus, pag. 77. Per noi, a parte i «Memorabilia» che ha consultato, vale a dire a parte una letteratura pre-canonica e apocrifa, egli ignora tutto di Gesù, se non ciò che immagina. I suoi riferimenti a Platone e agli Atti di Pilato non forniscono nulla che assicuri il fatto stesso della Crocifissione.

L'opera di Giustino ci ha condotto alle conclusioni seguenti:

a) Il suo Gesù è molto meno ricco di dettagli rispetto a quello dei Vangeli; è ancora solo il suo abbozzo;

b) La fonte della sua documentazione è soprattutto scritturale;

c) Egli parla della Crocifissione, ma a parte il nome di Pilato sembra non conoscere nulla della Passione;

d) I Memorabilia degli apostoli ai quali fa allusione restano enigmatici; non nomina i loro autori, mentre la sua tesi lo esigeva: «Quando il nostro apologeta», scrive Guignebert, «parla delle Memorie degli apostoli [...] non sappiamo di quali testi dispone»; Jésus, pag. 30.

Concludiamo dicendo con Guy Fau: «Appare dunque certo che, se Giustino conosceva nel 160 circa degli elementi che saranno ripresi nei sinottici, egli non ne conosceva ancora la stesura». [124]


CONCLUSIONE

Nel corso del secondo secolo le credenze continuano la loro evoluzione in una direzione realistica. Senza dubbio il vangelo di Tommaso è di uno gnosticismo ancora primitivo, le lettere dello pseudo-Ignazio sono docete nella loro stesura originale, ma lo sfruttamento delle Scritture si intensifica nelle epistole di Barnaba e di Clemente Romano; il vangelo di Pietro annuncia i canonici.

Intorno al 140-150, la chiesa romana crede in un Gesù apparso «nella carne» e risorto materialmente. Gli attribuisce sentenze, miracoli e discepoli. Considera gli apostoli le prime colonne dell'episcopato; ma ignora la venuta di Pietro a Roma e il suo primato.

Continuando a setacciare le Scritture, e associando alle loro scoperte personaggi del secolo passato, i neocristiani scriveranno vangeli ammessi infine nel canone. Questi libretti daranno alle anime semplici l'illusione della verità.


Tuttavia, conviene ricordare che se i testi autentici del I° secolo ignorano completamente la morte profana del Salvatore (Paolo, Apocalisse, Ebrei), quella ignoranza si conferma negli scritti redatti verso l'inizio del secondo secolo e fino alla sua metà. Non parlano dei Romani, dei rapporti di Gesù con i farisei e l'occupante, del suo processo, della sua morte sul calvario dopo la sentenza di Pilato: Odi di Salomone, Didaché, epistole cattoliche, Vangelo di Tommaso, Epistola di Clemente ai Corinzi, Pastore di Ermas, Ascensione di Isaia, lettera di Barnaba... Sono un sacco!

L'introduzione dei Romani nella carriera del Salvatore gnostico è l'invenzione che farà passare il dio dal piano della fede a quello della pseudo-storia. Può risalire alla seconda distruzione di Gerusalemme, sotto il regno di Adriano, negli anni 132-135.

NOTE

[105] BULTMANN li chiama «apoftegmi». Su quella creazione v. la sua Histoire de la tradition synoptique, in particolare pag. 25, 45, 84, 87, 90, 93, 124, 134, 162, 179, 328-335, 348. — Lo studio dell'opera sarà facilitato dalla nostra cronaca apparsa nel B.R. 187, giugno 1975, sotto il titolo: Bultmann et la tradition synoptique

[106] WEILL-RAYNAL, Jésus: du mythe à l'histoire, Riv. Nouveaux-Cahiers, n° 31, pag. 32, 2° col.

[107] STEPHANE, La Passion de Jésus, 51.

[108] L'évangile selon Thomas di GUILLAUMONT, PUECH et alii, Prelim., 6. — WAUTIER, L'évangile selon Thomas, C.R. 79, 1973, pag. 2-3.

[109] Cfr. ROQUES, L'évangile selon Thomas, R.H.R. n° 2, aprile-giugno 1960, pag. 206 s.

[110] Formula vicinissima a quella attribuita a Museo, discepolo di Orfeo: «Tutto, in definitiva, è uscito dall'Uno, e tutto si risolve nell'Uno». Dottrina gnostica che sottintende il paolinismo.

[111] DUJARDIN, o.c., 150. — Ne Les paroles inconnues de Jésus JEREMIAS pensa che dei 114 logia di Tommaso due soltanto hanno possibilità di essere autentici: numero ridicolmente infimo, che mostra il carattere soggettivo di questa selezione; cfr. GUILLAUMONT, R.H.R., aprile 1975, pag. 224-5.

[112] ALFARIC, Origines sociales..., 174.

[113] ALFARIC, Origines..., 175.

[114] DELAFOSSE, La lettre de Clément de Rome aux Corinthiens, R.H.R., gennaio-febbraio 1928: «lettera collettiva»; pag. 54; ALFARIC, Origines..., 297-308 e 315-317. — L'esegesi cristiana fa risalire la lettera al 97 dopo le persecuzioni alle quali può fare allusione, ma esse non sono effettuate da Domiziano; v. PRIGENT, Au temps de l'Apocalypse, R.H.P.R., n° 4, 1974.

[115] Secondo Holtzmann, Clemente ha utilizzato quarantasette volte Ebrei.

[116] Cfr. GOGUEL, Le précatholicisme de Clément Romain in Naissance..., 420 s.

[117] DELAFOSSE, Les lettres d'Ignace d'Antioche, 24 s.

[118] DELAFOSSE, Les lettres d'Ignace d'Antioche, 49 s.

[119] DELAFOSSE, ibid., 66-69.

[120] JOLY, Le dossier d'Ignace d'Antioche. Altra confutazione dell'apologeta RIUS-CAMPS. — V. anche i c. rd. di BODENMANN, R.H.P.R., 1982°, n° 3, pag. 293-295.

[121] P. HAMMAN lo situa tra il 120 e il 130: Littératures chrétiennes, 2, 202: datazione accettabile per il primo stato del testo, che contiene tratti apocalittici e richiama il docetismo; cfr. GRELOT-BIGARE, o.c., 192.

[122] FAU, Justin et les Evangiles, C.R. 91, 1975.

[123] V. di seguito, capitolo 2, «La famiglia di Gesù».

[124] FAU, Le Puzzle..., 136. LENZMANN pensa che Giustino abbia conosciuto del N.T. solo l'Apocalisse, o.c., 200.

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