sabato 20 agosto 2022

IL DOCUMENTO 70L'Apocalisse

 (segue da qui)



II. L'Apocalisse.

Uno studio metodico delle origini del cristianesimo deve logicamente esordire con l'esame dei documenti cristiani più antichi che sia possibile raggiungere. Se teniamo conto del fatto che il cristianesimo è derivato dal giudaismo — esso si dà lui stesso per «il compimento» del giudaismo — la determinazione del grado di antichità dei testi che ci ha trasmesso la tradizione non può presentare minimamente difficoltà: più sono antichi, più devono avvicinarsi, nel loro spirito e nella loro forma, agli scritti ebraici dell'epoca.

Ora esiste, nel corpo stesso del Nuovo Testamento, uno scritto il cui carattere misto, in parte ebraico ed in parte cristiano, non solleva alcun dubbio: è l'Apocalisse di Giovanni. Gli esegeti discutono solo della proporzione più o meno forte tra questi due elementi, gli uni pretendendo che si tratti di un libro ebraico rimaneggiato da una mano cristiana (Eberhard Vischer), gli altri di un libro cristiano che si sarebbe assimilato da fonti ebraiche (Wellhausen). Niente è più significativo di questo dibattito, che prova l'accordo fondamentale delle due parti sul punto essenziale: il carattere ibrido, in parte ebraico ed in parte cristiano, dell'opera. È dunque studiando e analizzando l'Apocalisse, isolando successivamente gli strati sovrapposti del suo testo per isolarne e ricostruirne infine il nucleo primitivo, che avremo la possibilità di risalire al periodo più antico del cristianesimo, forse anche ad una fase intermedia tra il giudaismo e il cristianesimo.

a) Interpretazione mitologica. I primi tre capitoli dell'Apocalisse, che contengono un primo prologo e le sette lettere alle sette chiese dell'Asia Minore, sono collegate al corpo stesso del libro solo da un legame molto superficiale. In tutta evidenza essi sono stati aggiunti in un'epoca posteriore. La composizione originale doveva cominciare con il capitolo 4, che serve esso stesso da preludio alle visioni che formano la materia del libro. L'autore ha riunito, in questo preludio, tutto ciò che ha potuto trovare nel magazzino di accessori del genere apocalittico, di maestoso e di pomposo: vi si vede un trono eretto nel cielo, e di fronte a questo trono sette lampade di fuoco; tutto attorno, un mare di cristallo; ventiquattro vegliardi e quattro animali si prostrano giorno e notte davanti al trono. I quattro animali hanno insieme ventiquattro ali costellati di occhi.

L'interpretazione di questa immagine è facile, purché si abbia qualche nozione dell'astronomia degli antichi e si sappia che la costellazione che oggi chiamiamo Cassiopea recava nell'antichità il nome di «Trono»; poi, che la mitologia babilonese conosceva 24 spiriti che presiedevano alle 24 ore del giorno (Diodoro 2:31). Le sette lampade di fronte al trono sono le sette stelle dell'Orsa Maggiore, che si trova effettivamente di fronte a Cassiopea. I quattro animali sono quattro segni dello zodiaco che segnano i quattro punti cardinali, le 21 ali costellate di occhi (di stelle) le 24 divisioni della sfera celeste corrispondenti alle 24 ore del giorno. Il mare di cristallo non può essere che il firmamento.

Se fosse ancora possibile dubitare di quell'interpretazione del primo capitolo dell'Apocalisse primitiva, basterebbe riportarsi al primo capitolo di Ezechiele che gli è servito da modello. Il significato mitologico vi è ancora più accentuato: Vi si vedono, oltre agli animali che già conosciamo, ruote concentriche di una grandezza spaventosa, animate, oltre che dalla loro rotazione, da un movimento alternato ascendente e discendente. Esse sono costellate, come le ali degli animali nella nostra visione apocalittica, di occhi che rappresentano le stelle. È una bellissima immagine del sistema cosmologico degli antichi, che credevano le stelle fissate a sfere concentriche e trasparenti, le sfere esterne ruotando ad una velocità superiore a quella delle sfere interne e trascinando queste ultime nel loro movimento di rotazione. Il sistema era molto ingegnoso: il moto proprio delle sfere interne combinato con la spinta che subivano da parte delle sfere esterne dava alle complicazioni dei moti planetari una spiegazione che poteva, all'epoca, sembrare pressappoco soddisfacente.

Il significato mitologico di Apocalisse 4 e di Ezechiele 1 è così ovvio che ci si sorprende che la teologia abbia potuto, per più di un secolo, mostrarsi refrattaria a quella interpretazione data per prima da Dupuis.

Dupuis fu seguito da Morosow, da Niemojewski, da Drews, e presto non fu più possibile continuare la cospirazione del silenzio. Verso il 1912, il fronte unito che i teologi di ogni sfumatura avevano fino ad allora opposto all'interpretazione mitologica cominciò a sgretolarsi. Oggi la teologia avrebbe piuttosto una tendenza a seguire i mitologi fin nelle esagerazioni indifendibili.

È vero che l'occasione era allettante: il prologo che abbiamo appena interpretato è seguito da un autentico sabba di mostri di ogni specie, di serpenti, di draghi, di cavalieri, di regine o prostitute, di soli, di lune e di stelle. Non era ovviamente molto difficile mettere in relazione queste visioni con le stelle e le costellazioni. Essendo di moda nelle interpretazioni mitologiche, e il capitolo 4 avendo dato a quel metodo una prima conferma eclatante, si comprende che l'Apocalisse, dopo essere stata per secoli la vittima delle interpretazioni più stravaganti da parte di religiosi squilibrati di ogni tipo, sia diventata quella dei mitologi. Essa vi era predestinata più di qualsiasi altro libro del Nuovo Testamento. Se però i mitologi, almeno in certi periodi, ci hanno messo come una sorta di pudore nell'approcciare l'Apocalisse, è senza dubbio perché quella preda era troppo facile. Ogni visione permetteva non solo una, ma diverse interpretazioni mitologiche concorrenti, e niente era più compromettente per il metodo che proprio quella molteplicità di soluzioni possibili.

La visione più popolare dell'Apocalisse è quella dei quattro cavalieri del capitolo 6, in groppa a cavalli di colori diversi. I mitologi vi vedono quattro pianeti. Quella interpretazione potrebbe sedurre a prima vista, gli antichi avendo effettivamente stabilito delle relazioni tra i colori, i metalli e i pianeti; ma per arrestarsi a quella spiegazione, occorrerebbe ignorare il fatto che il brano è imitato da Zaccaria 4, dove senza dubbio nessuno avrebbe l'idea di vedere nei cavalli di colori diversi una raffigurazione dei pianeti.

Ricordiamo, ma solo a titolo di curiosità, le esagerazioni di Morosow che, interpretando le visioni di origine diversa e scritte in epoche diverse, come se fossero state scritte lo stesso giorno e dallo stesso uomo, crede di riconoscervi lo stato del cielo come era il 30 settembre 395. Ne conclude che Giovanni, l'autore dell'Apocalisse, non fosse altri che Giovanni Crisostomo! Per applicare un tale metodo ad un testo apocalittico, occorre ignorare il fatto che l'Apocalisse non è un libro isolato, ma che esiste tutta una letteratura apocalittica di cui la nostra Apocalisse non è che un caso particolare tra molti altri; che la caratteristica del genere apocalittico è di far rientrare in uno stesso quadro materiali di origine diversa; che gli scrittori apocalittici danno prova, da una parte, di un rispetto superstizioso nei riguardi dei vecchi testi che conservano religiosamente anche se non ne comprendono più il senso; e d'altra parte, di una sorprendente mancanza di rispetto nei riguardi di questi stessi testi, che non temono di deformare con le loro proprie aggiunte e interpretazioni.

Siccome mi ero permesso di qualificare di esagerazione l'ipotesi «Crisostomo autore dell'Apocalisse», Drews mi rispose, in data 20 marzo 1912: «...Del resto, io credo che l'ipotesi di Morosow, nei termini della quale Crisostomo sarebbe l'autore o almeno l'editore dell'Apocalisse, possa benissimo essere difesa, e credo che si avvicini di più alla verità rispetto a tutte le altre interpretazioni date fino a questo giorno. La lettura di Wellhausen non ha fatto che confermarmi in quella opinione, che ho esposto nella mia prefazione all'opera di Morosow».

Ciò che Drews dice qui di Wellhausen prova che esistono menti sulle quali una dimostrazione filologica non ha presa, come su altre una dimostrazione matematica. L'ipotesi «Crisostomo come autore dell'Apocalisse», come del resto tutta l'interpretazione mitologica di questo scritto (ad eccezione del capitolo 4), sono state brillantemente confutate da Bousset nella Gazzetta di Francoforte del 20 novembre 1912.

In totale, tutto ciò che è possibile trattenere dell'interpretazione mitologica dell'Apocalisse si riduce a questi due elementi:

Il capitolo 4 è manifestamente mitologico;

Il carattere mistico attribuito ai numeri 7 e 12 può essere ricondotto, anche se molto indirettamente, attraverso l'intermediazione dell'Antico Testamento, ad un'origine mitologica, corrispondente ai 7 pianeti degli antichi e ai 12 segni dello zodiaco.

Ci resta da esaminare se il metodo di analisi filologica come lo ha applicato Wellhausen dia risultati migliori del metodo mitologico. Per non dilungarci troppo, limiteremo questo esame al solo capitolo 12, di gran lunga il più importante. 

Il capitolo 12 è stato chiamato dalla critica tedesca il «cuore» (das Herzstück) dell'Apocalisse. Il veggente vede, in cielo, una donna vestita di sole, recante una corona di dodici stelle, la luna ai suoi piedi. Qui, più che in qualsiasi altro punto, l'interpretazione mitologica sembrava imporsi. Nel seguito, si parla di un drago e di un serpente. Come non ricordare che esiste una costellazione recante il nome di «drago» e un'altra quello di «serpente»?

Purtroppo per i mitologi, l'analisi filologica che daremo, dopo Wellhausen, di questo testo, stabilirà che il drago e il serpente designano lo stesso oggetto; non possono quindi essere spiegati da due costellazioni diverse. L'analisi rivelerà inoltre che le parole «nel cielo» sono inautentiche, come il sole, la luna e le stelle. Vedremo così svanire a poco a poco tutti gli attributi sui quali l'interpretazione mitologica credeva di potersi basare.

b) Analisi filologica. Nella sua «Analisi dell'Apocalisse di Giovanni», apparsa nel 1907 (Berlino, Weidmannsche Buchhandlung), Wellhausen, affrontando il capitolo 12, contrappone uno all'altro i versi 6 e 14:

Verso 6

Verso 14

 

E le due ali della grande aquila furono date  alla donna,

E la donna

fuggì nel deserto,

dove aveva un luogo preparato da Dio,

affinché se ne volasse nel deserto,

nel suo luogo,

affinché vi fosse nutrita

per milleduecentosessanta giorni.

dov'è nutrita

per un tempo, due tempi [1] e la metà di un tempo,

 

lontana dalla presenza del serpente.

Se i «tempi» del verso 16 sono anni di 360 giorni, il che corrisponde in effetti al modo di calcolare degli antichi, i giorni festivi essendo considerati come giorni intercalari che non contano nella durata regolare dell'anno, troviamo 3½ anni di 360 giorni = 1260 giorni, ossia un periodo di una durata rigorosamente uguale nei due versi. Essendo il testo del verso 14, nel suo insieme, ugualmente conforme al verso 6, ne risulta che i due versi sono doppioni, cioè appartengono a due fonti diverse che sono esse stesse solo due varianti della stessa fonte primitiva.

Essendo attribuiti a due fonti diverse, ognuno di questi due versi porta con sé un certo numero di altri versi, e la fessura così delineata si estende a tutto il capitolo. Non è quindi più molto difficile separare le due fonti:

Versi 1-6

Versi 7-9, 13-16

 

E ci fu guerra nel cielo: Michele e i suoi angeli combatterono contro il dragone. Il dragone e i suoi angeli combatterono, ma non furono i più forti, e il loro posto non fu più trovato nel cielo. Ed egli fu precipitato, il gran dragone, il serpente antico, chiamato il diavolo e Satana, colui che sedusse tutta la terra, fu precipitato sulla terra, e i suoi angeli furono precipitati con lui.

...una donna .... era incinta, e gridava per le doglie e il travaglio del parto....


 

Il dragone si pose davanti alla donna che stava per partorire, per divorarne il figlio, allorché avrebbe partorito.


Quando il dragone si vide precipitato sulla terra, perseguitò la donna che aveva partorito il figlio maschio.

Ed ella partorì un figlio maschio, che reggerà tutte le nazioni con una verga di ferro; e suo figlio fu rapito vicino a Dio e al suo trono.


 

E la donna fuggì nel deserto, dove aveva un luogo preparato da Dio, affinché vi fosse nutrita per milleduecentosessanta giorni.

E le due ali della grande aquila furono date alla donna, affinché se ne volasse nel deserto, nel suo luogo, dov'è nutrita per un tempo, due tempi e la metà di un tempo, lontana dalla presenza del serpente.

Si vede che ciascuna delle due fonti presenta delle lacune. Ma siccome non sono che due varianti dello stesso testo, ci è facile completare l'una con l'altra e ricostruire così il testo della fonte comune con un grado di approssimazione sufficiente.

Questa fonte comune comportava due scene: una scena celeste ed una scena terrena, la prima servendo da preludio alla seconda. Questo preludio è anche in qualche sorta una profezia annunciante sulla terra il compimento di un fatto analogo a quello che è appena avvenuto in cielo. «Si conosce dal libro di Daniele quel modo di esprimere simbolicamente l'idea della predestinazione: tutto ciò che accade sulla terra è già stato anticipato nel cielo; è là che sono già state combattute tutte le battaglie terrene, dai rappresentanti celesti delle potenze terrene» (Wellh.).

Scena celeste: L'arcangelo Michele lotta contro Satana, rappresentato dal drago. Il drago è vinto e precipitato sulla terra.

Scena terrena: Sulla terra, il popolo d'Israele rappresentato da una donna, soffre e dà nascita al Messia. Il drago cerca di divorare il bambino, che viene miracolosamente portato via verso Dio. Furioso nel vedere la sua preda sfuggirgli, il drago si accanisce sulla donna, che fugge nel deserto dove è nutrita 1260 giorni.

Il seguito ci informa che il drago lancia contro la donna dell'acqua come un fiume; ma la terra soccorre la donna, e inghiotte il fiume. Il drago se ne va allora a fare la guerra agli «altri» della sua discendenza.

Allo stato attuale del testo, il significato originale è oscurato da un certo numero di interpolazioni che, fino a Wellhausen, hanno sempre ingannato i commentatori. Queste sono soprattutto le parole «nel cielo» nel verso 1. Poiché nei versi 5 e 6 il bambino è portato via verso Dio e la donna fugge nel deserto, è ben evidente che lei non può trovarsi in cielo. Nello stesso tempo delle parole «nel cielo», bisogna anche sopprimere in quanto aggiunte il sole, la luna e le dodici stelle; sarebbe in effetti un po' grottesco vedere una donna partorire in questo scenario. Nel verso 3, le sette teste e le dieci corna del drago sono ispirate al capitolo 17 (nel capitolo 13 sono altrettanto secondarie che nel capitolo 12). Infine i versi da 10 a 12 sono di ispirazione cristiana, contrariamente al contesto che, come vedremo, è di ispirazione ebraica; essi interrompono malissimo il racconto della visione, e lo stile è quello dell'editore.

Le procedure di scrittura ultra-naif degli autori apocalittici possono sembrare molto distanti ad un lettore del 20° secolo. Forse si immagina che, per riconoscerle, bisogna essere specialisti e riportarsi alla mentalità orientale degli ebrei di duemila anni fa. Non è per nulla così. Non c'è affatto bisogno di andare così lontano né di risalire così in alto. Basta guardare attorno a noi. Nelle nostre immediate vicinanze, nelle nostre campagne, nei quartieri popolosi delle nostre grandi città, nelle logge dei nostri inservienti e nelle mansarde degli edifici che occupiamo, si elabora una letteratura mistica le cui procedure sono esattamente le stesse del genere apocalittico: stessa aggregazione di elementi eterogenei, stessa incomprensione degli elementi antichi, stessa deformazione di questi con i rimaneggiamenti ulteriori, le aggiunte e le interpolazioni. Forse un giorno avrò l'opportunità di provare quello che sostengo pubblicando l'analisi di una «lettera celeste» (Himmelsbrief) che un soldato tedesco portava con sé nel 1914 per proteggersi dai proiettili.

La conoscenza di queste procedure avendoci permesso di ristabilire, con un'approssimazione sufficiente, il testo del documento che è alla base di Apocalisse 12, ci resta da interpretarlo.

Il periodo di 1260 giorni del verso 6, identico, come abbiamo visto, ai 3½ anni del verso 14, si trovava già menzionato in Apocalisse 11:3. Un periodo di 42 mesi figura due volte, nei passi di Apocalisse 11:2 e 13:5. Essendo il mese contato in 30 giorni, otteniamo anche 42 x 30 = 1260 giorni = 3½ anni. Più tardi, nel Vangelo di Giovanni, anche la durata del ministero di Gesù sarà esattamente di 3½ anni, come fa sottolineare Loisy.  Cosa può essere questo periodo di 3½ anni che ossessiona così tanto gli animi al punto da figurare cinque volte, sotto tre forme diverse, in tre capitoli successivi dell'Apocalisse, e al punto da essere stato scelto da Giovanni per il contesto nel quale ha composto il suo racconto del ministero di Gesù?

La Storia ce lo fa sapere: è la durata della guerra degli ebrei contro i Romani, dal 67 al 70. Subito il senso del documento che abbiamo appena ricostruito si chiarisce. La vittoria dell'arcangelo su Satana è il preludio alla vittoria definitiva degli ebrei sulle armate romane, che i profeti apocalittici annunciano in un futuro molto prossimo. Precipitato sulla terra, Satana si è materializzato nelle armate romane che perseguitano la «donna». Costei dà nascita ad un bambino «che pascerà tutte le nazioni con una verga di ferro». Questi è il Messia degli ebrei, che abbatterà, quando la sua ora sarà venuta, la superbia dei Romani. Nel frattempo, la vita del bambino è minacciata dalle armate romane, ecco perché egli è portato via verso Dio.

«Si obietta», dice Wellhausen, «che l'idea di un rapimento del Messia in cielo immediatamente dopo la sua nascita sia estranea agli ebrei. È vero che è impossibile dimostrarne l'esistenza, ma almeno si spiega tra loro. Ridotta allo stremo dai Romani, la comunità ebraica non aveva, a soccorrerli, un Messia adulto; ma sperava che nascesse nel suo seno durante la crisi e che sfuggisse alle persecuzioni. Queste storie potevano legarsi a quella della donna che, nella più grande angoscia, aveva partorito Immanuele, in Isaia e in Michea. Si trovava a buon diritto in Daniele 7:15 l'idea di un rapimento del Messia in cielo».

«Il verso 17 distingue tra la donna e i λοιποί τού σπέρματος αυτής che non fuggono nel deserto, ma restano a Gerusalemme e che sono attaccati dal nemico. La donna non rappresenta quindi la totalità della comunità, ma solo l'élite che, non soccombendo con i λοιποί, è preservata come seme dell'avvenire. Si sa che molti ebrei riuscirono a lasciare in tempo la città santa, e tra loro persone molto pie, scribi e farisei. Essi non avevano la mentalità degli zeloti che erano allora i padroni di Gerusalemme, e lo spirito della difesa ad oltranza. Erano animati, a dire il vero, dallo stesso odio contro i Romani, ma ritenevano che la loro missione fosse di adempiere la legge, e non di battersi per la libertà. Non volevano realizzare da soli le speranze messianiche, ma si affidavano a Dio e cercavano solo di realizzare le precondizioni per la venuta del Messia: la stretta osservanza dei comandamenti di Dio; essi non rappresentavano il partito politico, attivo, militare e nazionale, ma il partito religioso. Si comportarono all'ultimo assedio di Gerusalemme come avevano fatto nei precedenti. Non consideravano la fuga una diserzione, al contrario, pensavano di salvare così la vera Sion. Possediamo quindi nel capitolo 12 la controparte farisaica del piccolo oracolo zelota 11:1, 2. Questi due documenti segnano bene la condotta opposta dei due partiti ebraici durante la guerra. Per gli zeloti, coloro che difendevano il Tempio erano il resto messianico; per i farisei, erano coloro che erano fuggiti da Gerusalemme, ed è dal loro mezzo che sarebbe uscito il Messia».

«....La fine della visione è troncata. Doveva prevedere la disfatta dei λοιποί a Gerusalemme; in seguito la disfatta della potenza pagana contemporaneamente all'avvento trionfale del bambino portato via nel cielo».

Risulta da quella interpretazione che il documento ebraico che è alla base di Apocalisse 12 è stato scritto in un momento in cui la vittoria definitiva degli ebrei sulle armate romane poteva ancora essere attesa, ma quando si intravedeva già, contrariamente alle speranze e alle profezie precedenti, la presa di Gerusalemme. La guerra durava già da quasi 3½ anni. In tutta evidenza, questo documento è stato scritto quindi nell'anno 70 della nostra era. Ecco perché noi lo chiameremo nel seguito, per semplicità, il documento 70.

Il bambino che, in questo documento 70, rappresenta il Messia degli ebrei, è diventato, allo stato attuale del testo, il Messia dei cristiani, o per sostituire la parola ebraica «Messia» col suo equivalente greco: il Cristo. Nella trasformazione che ha subìto il documento 70 si riflette quindi il processo storico che del Messia degli ebrei ha fatto il Cristo dei cristiani. Questo è ciò che lo rende così importante, e questa constatazione ci porta ad affrontare senza ulteriori indugi il problema della storicità di Gesù.

NOTE

[1] Variante adottata tra altri da Lutero: eine Zeit, und zwo (all'epoca di Lutero si declinavano ancora i nomi dei numeri, come lo si fa ancora ora nella Svizzera tedesca) Zeiten und eine halbe Zeit. — Segond ha adottato la variante: un tempo, dei tempi e la metà di un tempo.

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