domenica 28 agosto 2022

IL DOCUMENTO 70Il Vangelo di Giovanni

 (segue da qui)

III. Il Vangelo di Giovanni.

a) Suo carattere leggendario.

Si sa — e abbiamo avuto l'opportunità di ricordare — che una delle procedure preferite del genere apocalittico era la proiezione di un personaggio fittizio in un contesto storico. Considerata ogni proporzione, era più o meno la procedura letteraria che applica ancor oggi il genere del romanzo storico. Così il libro di Daniele, il più classico delle apocalissi, aveva già proiettato il personaggio fittizio di Daniele nel contesto storico della cattività di Babilonia. Vedremo i pagano-cristiani creare un romanzo storico, il cui eroe sarà questa volta il Messia stesso: il Vangelo di Giovanni.

La tela del romanzo è fornita all'autore dal documento 70: vi si vede già il Messia nato da una donna che simboleggia il «resto messianico» della comunità ebraica; è promesso al Messia che sarà il pastore delle nazioni, e dopo la sua morte  è portato via verso Dio. Il documento 70 gli fornisce ancora, nel periodo di 1200 giorni o tre anni e mezzo, il quadro cronologico nel quale comporrà il ministero di Gesù. In questo embrione di una biografia, gli eventi del 70 avevano intercalato la passione sulla croce. L'idea dell'espiazione sostitutiva per mezzo della passione del Messia, già preannunciata dagli apocalittici, aveva permesso al sincretismo orientale di riversare le sue concezioni fondamentali nello stampo della religione nascente. Gli equivoci che giocavano sui termini di Signore e di Figlio di Dio avevano identificato il Messia con Dio, pur proclamandolo suo figlio. L'idea della preesistenza del Messia era già familiare alle apocalissi. Gli «Atti di Pietro», che sarebbero poi entrati nella composizione degli Atti degli Apostoli, avevano fornito il personaggio di Pietro. In questa tela, l'autore inserirà alcuni miracoli, attinti dall'Antico Testamento come la moltiplicazione dei pani, o dalla tradizione rabbinica, come la guarigione del figlio del centurione, o dagli atti di Paolo e di Pietro, come la resurrezione di un morto.

Ma questi miracoli Giovanni non li dà, come faranno più tardi i sinottici, per storie realmente accadute; egli vuole che li si prendano in un senso puramente simbolico, come del resto tutta la vita del Messia. Servono soprattutto a fornire all'autore l'opportunità di sviluppare le idee che gli stanno a cuore, sotto forma di discorsi posti in bocca al suo eroe.

Per Giovanni, il Messia è soprattutto il Logos divino. Questo termine, Giovanni lo riprende dall'Apocalisse, ma secondo un processo che, andremo a vedere, gli è abituale, egli dà a questo termine un nuovo significato. Introduce la concezione del Logos filoniano, ipostasi intermedia tra Dio e gli uomini, e comincia il suo poema messianico — sua messiade — con le parole: «In principio era il Logos, e il Logos, che era esso stesso di essenza divina, stava di fronte a Dio». Di fronte, perché penso che sia possibile leggere pro tou théou al posto di pros ton théon. Pros c. acc. nel senso di «presso» o «con», mi sembra in effetti molto difficile da giustificare coi testi. Per contro pros c. gen. significa «di fronte a», in particolare nel linguaggio religioso: di fronte a una divinità. Esso corrisponde allora all'ebraico liphenei.

In Giovanni, l'apparizione del Messia sulla terra è dovuta all'incarnazione del Logos preesistente. Gesù non è quindi il figlio di un uomo, e nemmeno, come pretenderanno più tardi i sinottici, di una vergine. Giovanni tiene a insistere su quella origine soprannaturale fin dal verso 13 del suo prologo: «Lui che, non da sangue, né da volere di carne, ma da Dio è nato». «Essendo figlio di Dio, Gesù non ha più padre e madre in questo mondo (cfr. Ebrei 7:3), lo si vedrà bene nel racconto di Cana (2:4)». (Loisy) A proposito delle nozze di Cana, Loisy dice questo: «La madre a cui il verbo incarnato pronuncia tali parole non è quella che la tradizione sinottica fa conoscere come moglie del carpentiere Giuseppe, è la «donna» dell'Apocalisse (12:1-6, 13-17), che è, almeno per un aspetto del suo personaggio, la comunità di Israele, madre del Messia, la personificazione dell'antica alleanza». (Loisy, 4° Ev., pag. 141). [1] Quella identificazione della madre di Gesù nel Vangelo di Giovanni con la donna, madre del Messia, del documento 70, si impone quindi a Loisy, pur andando diametralmente contro il suo sistema cronologico. Per noi, al contrario, essa si armonizza perfettamente, confermandola, con la nostra tesi generale della successione degli scritti neotestamentari.

L'epoca storica che Giovanni sceglie per punto di partenza del suo romanzo è l'apparizione dell'ultimo e del più grande dei profeti messianici, Giovanni Battista, e questa scelta sembra particolarmente felice. Ci ricordiamo in effetti che, nella linea evolutiva che va dal messianismo nazoreo al messianismo cristiano, i discepoli di Giovanni Battista rappresentano l'ultima tappa che precede immediatamente la nuova fase inaugurata dal documento 70. L'autore dei racconti di Atti 18 e 19 ci è apparso singolarmente imbarazzato nello spiegare la piccola differenza che constatava tra la fede predicata dagli apostoli e quella che, prima di averli conosciuti, già professavano i discepoli di Giovanni Battista, che sembrano compiere quasi senza sospettare il passo che ancora li separa dalla nuova dottrina. Del resto, i casi citati in questi due capitoli non dovevano essere isolati; questi sono piuttosto esempi tipici di ciò che doveva accadere comunemente, in Palestina come nella diaspora, dove gli adepti alla nuova dottrina dovevano reclutarsi soprattutto tra gli ex discepoli di Giovanni Battista. L'idea di quella origine delle comunità cristiane si condensa, nell'anima del poeta dell'autore del 4° vangelo, in una scena simbolica dove si vedono i discepoli di Giovanni Battista lasciare il loro maestro per colui nel quale egli ha riconosciuto il Messia.

L'autore del 4° vangelo collega il suo romanzo del Messia ad un discorso in cui Giovanni il Battista aveva riassunto il suo insegnamento e che aveva dovuto ripetere spesso, perché esso si è inciso profondamente nella mente dei suoi discepoli e figura sia all'inizio di ciascuno dei quattro vangeli che all'inizio degli Atti. Nel cataclisma escatologico, il Messia doveva annientare il mondo con il fuoco, siccome la prima umanità era stata annientata dall'acqua nel diluvio. È a quella idea che Giovanni fa allusione quando contrasta il suo battesimo d'acqua con il battesimo di fuoco del Messia — beninteso del Messia escatologico degli ebrei. Il 4° vangelo che sopprime l'escatologia, taglia il secondo membro della antitesi, e la frase resta troncata. I sinottici, che reintroducono l'escatologia, ripristinano anche questa parte della frase. Tuttavia Giovanni Battista apparendo loro come il precursore del Messia leggendario e non più del Messia escatologico, il senso escatologico del termine «battesimo di fuoco» sfugge loro. Essi danno quindi una nuova interpretazione a questa parola «fuoco» e ne fanno un simbolo dello Spirito Santo. Ecco perché parlano del «battesimo di fuoco e dello spirito», e quella nuova interpretazione permetterà, nel racconto della Pentecoste, di rappresentare lo Spirito Santo sotto forma di lingue di fuoco. Possiamo quindi riconoscere, in quella citazione di un discorso di Giovanni Battista, il punto  di sutura dove la leggenda viene ad innestarsi sulla Storia.

In seguito alla testimonianza stessa del loro maestro, i discepoli di Giovanni Battista lo lasciano per seguire Gesù. Il primo è senza dubbio il discepolo beneamato, di cui già conosciamo il significato simbolico, [2] ma che più tardi, quando il significato originale sarà perduto e avrà ceduto il posto ad un'interpretazione letterale, sarà identificato con Giovanni. L'altro è Andrea, che incontra suo fratello Simone. L'autore sottolinea che questo è davvero suo fratello, proprio suo fratello. Per due fratelli, è abbastanza sorprendente che uno porta un nome greco, e l'altro un nome ebraico, specialmente se si considerano le circostanze storiche del tempo. L'autore ha semplicemente voluto affermare il senso di fratellanza che deve regnare tra tutti i discepoli, che siano di origine greca oppure ebraica. Sappiamo infatti che, già negli Atti, Pietro è la personificazione della comunità giudeo-cristiana. Ma il nostro autore gli nega categoricamente lo status di primogenito sul quale i giudeo-cristiani hanno insistito così tanto, e che riapparirà più tardi nei sinottici. È Andrea, discepolo dal nome greco, che confessa per primo che Gesù è il Messia. (Giovanni è l'unico dei quattro vangeli che ha mantenuto il termine ebraico «Messia», un indizio in più a favore della sua antichità). Pietro si unisce a Gesù solo in seguito a questa testimonianza di suo fratello Andrea. Allo stesso modo, nel racconto della resurrezione, Pietro si lascerà superare, nella sua corsa alla tomba vuota, dal discepolo amato.

Il nostro autore, che, ripetiamo, approfitta di ogni occasione per negare a Pietro lo status di primogenito, si troverà per forza un po' imbarazzato dall'etimologia di questo nome (Petros, dall'ebraico peter, primogenito). [3] Ecco perché si affretta a immaginare un'altra etimologia: «Sarai chiamato Cefa, che significa Pietro». Questo episodio, in cui Gesù dà la nuova etimologia del nome di Pietro, e quello che incontreremo più tardi (6:68-71) dove Pietro confessa la messianicità di Gesù, si fonderanno in uno solo nei sinottici.

All'indomani, la scena si ripete: è di nuovo un discepolo dal nome greco, Filippo, che si converte prima a Gesù, e che gli porta in seguito un discepolo dal nome ebraico, Natanaele. Costui è di nuovo un tipo: è, come dice Gesù stesso, il «vero Israelita», che attende «sotto il fico» la venuta del Messia. Il nome di Filippo può essere un omaggio all'evangelista Filippo menzionato negli Atti e conosciuto nelle comunità dell'Asia (cfr. Loisy). La conversazione tra Filippo e Natanaele procurerà all'autore l'occasione di un artificio simile a quello che gli è appena riuscito così bene a riguardo dell'etimologia del nome di Pietro. Nel momento in cui si appresta a combattere le idee nazoree, non può lasciare il suo significato proprio al titolo di Nazoreo che porta il Messia. Da un nome di setta fa un nome di origine, e gli dà il significato di «originario della città — immaginaria, naturalmente — di Nazara o Nazaret». È però da notare che nel nostro Vangelo (19:19), la forma primitiva Nazôraios non ha ancora ceduto il posto a Nazarênos.

Pietro, Andrea e Filippo sono di Betsaida, nome che, etimologicamente, può essere interpretato «casa di pesca». Ma nulla nel vangelo di Giovanni, salvo nel capitolo 21 che è un'appendice aggiunta, ci permette di supporre che i primi discepoli fossero già stati a quel tempo considerati pescatori, proprio come, nel ministero di Pietro come raccontato dagli Atti, non abbiamo trovato alcuna allusione a quella professione che sarebbe stata la sua. Si deve quindi vedere senza dubbio, in questo nome di Betsaida introdotto da Giovanni, il germe della leggenda che farà più tardi i discepoli dei pescatori, e più tardi ancora, dei pescatori di uomini.

Nel capitolo 2, Gesù inaugura il suo ministero con il miracolo delle nozze di Cana. Sappiamo già che se Gesù mette sua madre rispettosamente al suo posto chiamandola «donna», si tratta della «donna», madre del Messia, di Apocalisse 12 (documento 70), cioè del popolo di Dio. L'evangelista stesso ci avverte che questo racconto deve essere capito come un «segno» (sêmeion), diremmo oggi come un simbolo: in effetti vi vediamo il Messia sostituire l'acqua dell'Antica Alleanza con il vino delizioso della Nuova. Sua madre dice ai servi: «Fate quello che vi dirà». — «Non si deve domandare come Maria avrebbe potuto disporre di questo personale in una casa straniera. Se la raccomandazione pare comportare un significato più assoluto di quanto reclamerebbe la circostanza, è perché ha un significato spirituale e simbolico molto più ampio della sua applicazione letterale. Il servizio in questione non è altro, in fondo, che il ministero apostolico, e i servi (διάκονοι) sono i ministri del Vangelo, i capi delle comunità, coloro che organizzano e presiedono le riunioni eucaristiche (cfr. 1. Corinzi 11:24-25, τούτο ποιείτε).— I primi di questi servi sono stati forniti a Cristo da «sua madre» Israele». (Loisy, 4° Ev.)

Gesù si reca in seguito a Gerusalemme per la festa di Pasqua. Il ministero del Cristo giovanneo avendo esattamente la durata del periodo apocalittico di 3½ anni, il nostro autore avrà tre volte di seguito l'occasione di farlo salire a Gerusalemme per quella festa. Gli ebrei vi si recavano per sacrificare, ma Giovanni non afferma né nega che Gesù ha preso parte a questi sacrifici, e i sinottici sono altrettanto riservati in questo senso. In effetti, la questione di sapere se occorresse lasciare Gesù a prendere parte ai sacrifici del Tempio doveva essere piuttosto imbarazzante. La Legge imponeva agli ebrei un pellegrinaggio annuale a Gerusalemme, per sacrificare lì. Se Gesù si astiene da questi sacrifici, egli si mette in contraddizione con la Legge e rompe il quadro storico in cui i Vangeli si sforzano di farlo tenere. Se egli vi prende parte, egli si mette in contraddizione con i principi eterni che gli stessi Vangeli pongono nella sua bocca.

Nel primo di questi viaggi a Gerusalemme, Giovanni afferma l'autorità di Gesù in materia di culto facendogli espellere i venditori dal Tempio. I sinottici che fanno tenere tutto il ministero di Gesù nell'ambito di un solo anno e che di conseguenza dispongono di un solo viaggio a Gerusalemme che porti alla passione, sono ben obbligati a relegare questo episodio alla fine dell'attività del maestro. Questo è il cambiamento più importante che i sinottici hanno fatto subire all'ordine generale del racconto giovanneo. In essi, l'espulsione dei venditori dal Tempio precede immediatamente la passione, e il legame cronologico assume logicamente — post hoc, ergo propter hoc — un carattere causale: Gesù è messo a morte dagli ebrei perché ha espulso i venditori dal Tempio, ed a causa delle parole che ha pronunciato in quell'occasione.

In Giovanni, la passione è provocata da una causa di ordine molto diverso che prova quanto questo vangelo sia ancora più vicino all'Apocalisse: la persecuzione del Messia, come nel documento 70, è la conseguenza dell'espulsione di Satana dal cielo (12:9). Il nostro vangelo si serve dello stesso termine dell'Apocalisse: ekballein. Questa è la grande crisi cosmica, la krisis tou kosmou, il giudizio del mondo, che sostituisce, in Giovanni, il cataclisma escatologico delle apocalissi. In quella occasione, una voce si fa sentire dal cielo, tratto che diventerà, nei sinottici, l'episodio della trasfigurazione.

Luca, che non comprende più il rapporto di causa ed effetto che ancora esisteva in Giovanni tra l'espulsione di Satana e la passione del Messia, ha trasferito l'espulsione di Satana in un altro punto, dove non ha nulla a che fare (10:18); Marco e Matteo ne hanno completamente perso il ricordo. Tratteniamo quel primo indizio per dopo, quando dovremo occuparci dell'ordine cronologico dei sinottici.

Passiamo oltre sui tre anni di attività di Gesù, e affrontiamo immediatamente il racconto vitale del vangelo, quello della passione. Loisy dimostra che il personaggio di Caifa non è primitivo nel testo giovanneo; egli vi è stato introdotto successivamente, per armonizzalo con i sinottici. Nel Giovanni originale, il sommo sacerdote si chiamava, come in Atti, Anna o Anania, forme greche che corrispondono tutte e due allo stesso nome ebraico Hananiah. L'artificio mediante il quale l'interpolatore fa tenere fianco a fianco i due sommi sacerdoti concorrenti è abbastanza ingegnoso: si esprime come se il pontificato ebraico fosse stato annuale, alla maniera del sacerdozio degli asiarchi, e come se Anna, di cui fa il suocero di Caifa, fosse stato il sommo sacerdote dell'anno precedente. Ma egli si contraddice lasciando sussistere i versi 18:19-22, che attribuiscono proprio ad Anna lo status di sommo sacerdote in carica. L'interrogatorio con tutti i suoi dettagli essendo messo sul conto di Anna, non resta più nulla da dire dell'interrogatorio davanti a Caifa. Così l'interpolatore glissa su questo secondo interrogatorio, che eppure doveva essere il più importante, essendo il solo ufficiale. Non apprendiamo una sola parola di quello che ha potuto verificarsi. 

L'interpolazione si tradisce anche dalla stesura molto imbarazzata del testo attuale: «Lo condussero prima da Anna: infatti egli era suocero di Caifa, che era sommo sacerdote quell'anno». — Loisy fa sottolineare giustamente che «l'espressione infatti è sfacciata, lo status di suocero non giustificando affatto la partecipazione eminente di Anna negli affari del pontificato».

Il personaggio di Caifa è stato quindi attinto dai sinottici, e quando dovremo commentare i testi che vi si correlano, tenteremo di determinare la sua origine.

Come il personaggio di Caifa, l'episodio del rinnegamento di Pietro è ricavato dai sinottici per lo stesso scopo di armonizzazione. Mancava ancora nel Giovanni primitivo (Loisy), ed è stato inserito per la prima volta nel racconto evangelico da Luca, dove è venuto a sostituire l'episodio giovanneo dell'orecchio tagliato, che a sua volta mancava in Luca primitivo (Wautier d’Aygallier).

Tutti sanno che i vangeli sono posteriori alle epistole, ma nessuno, che io sappia, si è ancora domandato se il rinnegamento di Pietro nei vangeli non fosse semplicemente una concretizzazione del rinnegamento dei principi cristiani da parte di Pietro che Paolo gli rimprovera così aspramente negli Atti e nella epistola ai Galati; o, per parlare senza simboli, che i pagano-cristiani rimproverarono ai giudeo-cristiani? Bisognerebbe allora anche domandarsi se l'episodio dell'orecchio tagliato, che tiene in Giovanni primitivo il posto che occuperà più tardi, in Luca primitivo, il rinnegamento, non nasconda un significato simile. Giovanni ha inserito, nel suo racconto, una frase nel suo racconto apposta per insegnarci che il servo del sommo sacerdote a cui fu tagliato l'orecchio si chiamava Malco. Loisy scrive a questo proposito: «Il nome è dei più comuni, e lo scrittore non si è preso la briga di inventarlo; siccome egli presenterà dal sommo sacerdote un discepolo, senza dubbio il beneamato, che dice conosciuto dal pontefice, ha voluto mostrarsi ben informato sulla familiarità di quest'ultimo». Ma quella spiegazione non ci sembra giustificare la frase speciale che il nostro vangelo dedica a questo nome di Malco. A ben riguardare il testo, non è l'orecchio (ous) che Pietro ha tagliato a Malco, ma il «piccolo orecchio» (otarion). Ora per «piccolo orecchio» gli antichi intendevano, come facciamo ancora oggi, il piccolo dito, l'auricolare (dal latino auricula, piccolo orecchio). Questo «piccolo dito» potrebbe proprio essere un eufemismo qui; in effetti, ciò che i pagani-cristiani rimproverarono soprattutto ai giudeo-cristiani, era di voler preservare la circoncisione. Il coltello (machaïra) di Pietro che, per ordine di Gesù, doveva essere rinfoderato, non sarebbe forse il coltello di pietra (il gioco di parole può abbastanza bene essere reso in francese), strumento rituale della circoncisione? (Giosué 5:2, 3).

È vero che la traduzione «coltello di pietra» in Giosuè 5:2, 3 è discussa, ma ciò che importa qui, come per la maggior parte dei testi dell'Antico Testamento citati nel Nuovo, non è il significato primitivo del testo ebraico, è l'interpretazione che gli si dava al momento della scrittura del Nuovo Testamento.

L'espressione «incirconcisi nel cuore e nelle orecchie» (Atti 7:51) ha potuto dare all'autore l'idea di rappresentare la circoncisione simbolicamente tramite la rimozione di un «piccolo orecchio». In yiddish, circoncidere (ebraico moul) si dice ancora oggi: malchen, per esempio: malchen e Zigorre, tagliare l'estremità di un sigaro. È per questo che il nostro vangelo tiene così tanto ad insegnarci che la vittima di Pietro aveva nome Malco?

Per il Luca attuale, il «piccolo orecchio» è ben diventato un orecchio (ous), ed egli approfitta dell'occasione per far operare da Gesù una guarigione miracolosa: ciò che prova che, come altrove, l'implicazione del testo giovanneo gli è completamente sfuggita.

Giovanni fa di Gesù l'agnello pasquale; lo fa quindi morire — abbiamo già avuto l'occasione di ricordarlo — il giorno e l'ora in cui si immolava quella vittima immolata, e l'ultimo pasto di Gesù non poteva essere un pasto pasquale. Ma quella circostanza non è sufficiente a spiegare in Giovanni l'assenza dell'istituzione della Santa Cena. Non era indispensabile presentare la Santa Cena come una forma nuova del pasto pasquale, e farla istituire in occasione di un pasto pasquale. Quella assimilazione dei due riti sarebbe stata persino contraria alla prospettiva giovannea, dove tutti gli elementi dell'Antica Alleanza che sono adempiuti non sussistono nella Nuova Alleanza sotto una forma nuova, ma sono, per il fatto stesso del loro adempimento, definitivamente aboliti. Eppure il rito eucaristico gioca un ruolo di primo piano nella teologia del nostro vangelo. Tutto il capitolo 6 gli è dedicato, con il miracolo della moltiplicazione dei pani e i discorsi che vi sono correlati. Se quindi Giovanni non parla dell'istituzione della Santa Cena, è ovviamente perché al tempo in cui scrisse non aveva ancora avuto l'idea di riportare l'origine di questo rito a Gesù.

Dopo aver dimostrato, con l'aiuto di alcuni esempi, il carattere simbolico e leggendario del racconto giovanneo, proviamo ora a indovinare la tendenza che anima e ispira quest'opera.


b) La tendenza del Vangelo di Giovanni.

Il quarto Vangelo è, nel Nuovo Testamento, il libro anti-escatologico e anti-apocalittico per eccellenza.

Il centro di gravità dell'Apocalisse era l'attesa del Messia, che ritornerà trionfante sulle nubi per presiedere al giudizio finale e instaurare il Regno dei Cieli. Per Giovanni l'evangelista, vi è anche un secondo avvento del Messia, ma solo sotto forma dello Spirito Santo. Egli nega quindi il ritorno del Cristo come l'annuncia il suo omonimo il veggente di Patmos. Allo stesso tempo, l'evangelista sopprime tutto lo scenario apocalittico. Il giudizio? — Consiste nel fatto che «la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce» (Giovanni 3:19). Il Regno di Dio? — È puramente spirituale: perché «se un uomo non nasce di nuovo, egli non può vedere il regno di Dio» (Giovanni 3:3). La vita eterna? — Non l'attendete per il futuro. È uno stato d'animo che si realizza in questa vita. Colui che crede nel Figlio la possiede già (Giovanni 3:36; 5:24). La resurrezione? — Ha luogo in questo stesso momento in coloro «che ascoltano la mia parola» (Giovanni 5:25). [4]

La parusia, il giudizio, il Regno di Dio, la vita eterna e la resurrezione, ecco gli elementi essenziali dello scenario apocalittico. È soprattutto questi che l'evangelista si sforza di spiritualizzare, di denazionalizzare, di svuotare del loro significato escatologico, di renderli insignificanti agli occhi delle autorità romane. Ma non si arresta lì. Si impossessa anche degli attributi con cui l'Apocalisse amava adornare il Messia, e li fa subire la stessa procedura.

Nel capitolo 12 dell'Apocalisse (documento 70), e lo stesso nel capitolo 19, il Messia è rappresentato come un pastore che deve pascere le nazioni con una verga di ferro. Il quarto vangelo prende posizione contro, dando a Gesù il titolo, ispirato ai culti orfici, di «buon pastore». Lo stesso capitolo 19 mostra il Messia da trionfatore assiso su un cavallo bianco. L'evangelista, ispirandosi ad un testo messianico dell'Antico Testamento, gli contrappone l'entrata trionfale a Gerusalemme — su un asino. Abbiamo visto che, nell'Apocalisse di Giovanni, l'impiego del termine Logos si spiega perfettamente con il pensiero messianico ebraico, e che non ha ancora nulla del Logos filoniano. Ma il quarto Vangelo ha preso pretesto dell'impiego di questo titolo in Apocalisse 19 per introdurre nel suo prologo il Logos filoniano e le speculazioni della gnosi alessandrina, che faranno sentire la loro influenza in tutto il suo vangelo.

È possibilissimo, del resto, che nel suo tentativo di amalgamare la gnosi alessandrina con il messianismo, il quarto evangelista abbia avuto dei predecessori. Come Apollo (Atti 18) che, in qualità di erudito e di alessandrino, non poteva minimamente ignorare la dottrina del suo compatriota Filone. L'attributo di logios che gli conferiscono gli Atti può essere un'allusione alla sua dottrina del Logos. Secondo la testimonianza degli Atti, Apollo era anche un zelante seguace di Giovanni Battista, quindi messianista, e doveva naturalmente essere incline a fondere in una sintesi nuova l'idea messianica e la gnosi alessandrina. Inoltre, nel suo status di colto ellenista, l'angusto nazionalismo e il rozzo materialismo dell'escatologia apocalittica dovevano ripugnargli. L'epistola ai Corinzi cita, oltre ai due grandi partiti che dividevano la Chiesa, il giudeo-cristianesimo rappresentato da Pietro e il pagano-cristianesimo rappresentato da Paolo, un terzo partito, quello di Apollo. Le idee che difendeva questo terzo dovevano essere più o meno le stesse di quelle che sviluppa il quarto vangelo, e ci si può chiedere se non si debba arrivare fino ad attribuire, come del resto è già stato fatto, ad Apollo stesso la scrittura di quest'opera. [5

Di tutti i termini che il quarto vangelo riprende dall'Apocalisse per svuotarli del loro significato escatologico e dare loro un nuovo significato, il termine Logos è certamente il più interessante. Ma sarebbe facile allungare la lista citando tra gli altri, i termini di doxa (gloria), zoê (vita), alêtheïa (verità), martys (testimone), sphragis (sigillo), aiôn (secolo), hôra (tempo o ora), kosmos (mondo). Vi passa tutto il vocabolario dell'Apocalisse, e finanche il nome del visionario stesso che è ritenuto averla scritta. Sospettiamo infatti che non sia per caso che il quarto vangelo porti lo stesso nome dell'opera che combatte. È una finzione abituale nella letteratura dell'epoca, con la quale si intende invocare, per l'antitesi, la stessa autorità della tesi, al fine di mettersi al suo livello e di combatterla più efficacemente.

Il punto culminante del quarto vangelo è il momento in cui l'idea messianica, rompendo l'involucro del giudaismo, entra in contatto con il mondo pagano e assume un carattere universale. Questo momento è simboleggiato dall'iniziativa dei Greci che domandano di vedere Gesù. È allora che Gesù riconosce che è giunta l'ora in cui il Messia «deve essere glorificato», è allora che si compie la grande crisi cosmica, la krisis tou kosmou, trasposizione spiritualista del cataclisma escatologico delle apocalissi: Satana è espulso dal cielo.  Gesù morente, vedendo che «tutto era già (èdè) consumato», può esclamare: «Tutto è compiuto», vale a dire tutte le profezie, tutta l'escatologia messianica e apocalittica. È inutile attendere ancora la vittoria degli ebrei sulle armate romane, o la grande catastrofe cosmica, o il ritorno del Messia sulle nubi del cielo: tutto è compiuto.

Così, a partire dal documento 70 e dall'ipotesi della priorità di Giovanni che ne è la conseguenza, abbiamo visto il Vangelo di Giovanni collocarsi esso stesso nel suo quadro storico nel punto preciso in cui diventa un anello nella successione logica dei fatti, conforme all'evoluzione naturale delle idee. Non si potrebbe meglio esprimere la prospettiva storica così acquisita che tramite lo schema caro alla filosofia hegeliana: l'Apocalisse è la tesi, il Vangelo di Giovanni è l'antitesi; la sintesi sarà rappresentata da tutta la letteratura che seguirà, dai sinottici fino ai giorni nostri.

NOTE

[1] Le parole di Gesù sulla croce: «Donna, ecco tuo figlio!» forniscono a Loisy l'occasione di sviluppare la sua idea in merito: La madre è la tipica “donna”, il vero Israele, la comunità giudeo-cristiana, il giudaismo in quanto ha prodotto il Cristo e la Chiesa apostolica; e a quella donna, Gesù designa come suo protettore, guida e custode della sua vecchiaia, il discepolo amato, tipo del perfetto credente, del cristiano giovanneo, della Chiesa elleno-cristiana. Il giudaismo convertito deve considerare come figlio legittimo dell'antica alleanza il cristianesimo ellenico, e questo deve raccogliere come sua madre sia la Chiesa giudeo-cristiana sia la tradizione dell'Antico Testamento; ma la madre deve risiedere con il figlio, e non il figlio con la madre, il Cristianesimo deve i suoi riguardi al giudeo-cristianesimo, ma non ha da farsi ebraico.  È a causa di questo simbolismo che la madre del Cristo non è indicata per nome, e che Gesù la chiama «donna» (Loisy, 4° Ev.).

[2] Pagina 44, nota 1.

[3] Esodo 13:2. Confronta 1 Corinzi 15:5-8.

[4Conviene, naturalmente, trascurare alcune interpolazioni nettamente escatologiche, e riconosciute come tali dai teologi, per esempio la formula: «Ma io lo resusciterò nell'ultimo giorno» interpolata tre volte nel capitolo 6, o il passo di Giovanni 5:27-29.

[5Già Tobler (Die Evangelienfrage, 1858; Zeitschrift für wiss. Theologie, 1860) aveva già previsto le relazioni che devono esistere tra il personaggio di Apollo e la stesura del quarto vangelo, poiché supponeva uno scritto aramaico di Giovanni, tradotto e ampliato da Apollo, poi pubblicato, con nuovi sviluppi, da un altro editore. In ogni caso, di tutti gli autori del Nuovo Testamento, è il quarto evangelista che merita a più giusto titolo le qualifiche che gli Atti conferiscono ad Apollo: quella di logios, erudito, eloquente, e quella di «versato nelle Scritture». Egli è in effetti il solo che traduce correttamente, secondo l'originale ebraico, i testi che cita dall'Antico Testamento, mentre il Deutero-Paolo delle epistole, come abbiamo già fatto sottolineare, li cita secondo la versione della Septuaginta con tutti i suoi errori.

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