lunedì 29 agosto 2022

IL DOCUMENTO 70I Sinottici

 (segue da qui)

IV . I Sinottici.

La caratteristica dei sinottici è di materializzare goffamente ciò che, in Giovanni, aveva un senso puramente simbolico e spirituale. Il romanzo storico e filosofico che Giovanni aveva scritto contro la letteratura apocalittica, pur improntandogli le sue procedure letterarie, non era compreso che da un'élite. Per la massa dei fedeli, era una storia accaduta. La teologia emergente avendo dato il significato di «credere» al verbo «pisteuein» (essere fedele), i «fedeli» diventeranno dei «credenti». L'obbligo morale essenziale che la nuova religione impone ai suoi seguaci è di sopprimere, con uno sforzo di autosuggestione, tutte le obiezioni della ragione umana e di persuadersi della verità del racconto evangelico, non malgrado, ma proprio a causa del suo carattere miracoloso.

Abbiamo già citato per anticipazione un esempio di materializzazione del racconto giovanneo nei sinottici: la madre di Gesù, in Giovanni, non è che la donna apocalittica del documento 70, cioè la personificazione della comunità ebraica (Loisy); nei sinottici, lei diventa una donna in carne e ossa, che si ha però cura di mantenere al di sopra delle leggi naturali della generazione. Allo stesso modo, il Messia figlio di Giuseppe, cioè derivato dalla tribù di Giuseppe, per opposizione al Messia figlio di Davide, diventa il figlio di un cittadino di nome Giuseppe; e per un processo analogo a quello che ha fatto attribuire ai discepoli di Betsaida (casa di pesca) la professione di pescatore, Giuseppe diventa un falegname, essendo il titolo di Nazoreo falsamente interpretato in questo senso (Guignebert, la Vita nascosta di Gesù, pag. 80).

Un altro esempio della materializzazione che i sinottici fanno subire alle idee giovannee, è il modo in cui oppongono alla resurrezione di Lazzaro quelle della figlia di Giairo e del figlio della vedova di Nain. Lazzaro, nome che significa «Dio abbia pietà», personificava originariamente la miseria materiale e morale del popolo ebraico. Un'antica leggenda conservata dai sinottici ci mostra, sotto i tratti di Lazzaro, la miseria del popolo ebraico compensata nella vita futura, dopo la resurrezione, dalle gioie dell'altro mondo. È quella soluzione che gli ebrei avevano finito per dare al problema posto da Giobbe. Giovanni, fedele alla sua tendenza, oppone alla concezione materialista della resurrezione il suo racconto puramente simbolico della resurrezione di Lazzaro. [1]

Non desiderando per nulla far credere ai suoi lettori che la storia sia realmente accaduta, Giovanni non esita a far resuscitare un cadavere in putrefazione, proprio come Ezechiele ha fatto resuscitare delle ossa. Per i sinottici, al contrario, le resurrezioni sono storie accadute; pur scrivendo per i poveri di spirito, non osano ancora dare come un fatto reale la resurrezione di un cadavere in putrefazione. Sopprimono quindi la storia fin troppo miracolosa del Lazzaro giovanneo, del resto sostituita in Luca dalla forma primitiva della leggenda, e fanno solo resuscitare con la parola di Gesù dei cadaveri più recenti.

Bisogna esser grati ai sinottici per averci conservato uno dei più importanti documenti della letteratura rabbinica, appartenente al periodo di transizione che viene ad interporsi tra il messianismo ebraico e il messianismo cristiano. Hanno conservato questo documento tagliandolo in frammenti, e collocando i frammenti in bocca a Gesù, sotto forma di discorsi e di sermoni, in particolare sotto la forma del Discorso della Montagna. Questo documento, che i sinottici sono stati i primi a introdurre nel racconto evangelico, è stato battezzato dai teologi «i logia».

I «logia» sono una raccolta di precetti e di parabole che, secondo i teologi, sarebbero stati raccolti dalla bocca di Gesù dai suoi discepoli immediati, in particolare da Matteo che li avrebbe consegnati più tardi per iscritto. Ciò spiegherebbe perché il primo vangelo, che ha attinto maggiormente da quella fonte, ha ricevuto per titolo: secondo San Matteo.

Se Giovanni avesse seguito i sinottici, sarebbe difficile concepire i motivi che gli avrebbero fatto eliminare completamente dai suoi modelli una fonte di cui certi passi, di un valore reale, si accordavano perfettamente con la sua tendenza. Sarebbe necessario presupporgli non solo un forte pregiudizio contro i «logia», ma anche, per separare nettamente dal loro contesto i passi attinti da quella fonte, i metodi di analisi critica di un filologo moderno. Al contrario, se Giovanni ha preceduto i sinottici, la difficoltà scompare da sé.

Nel primo vangelo, il «Discorso della Montagna» e altri quattro discorsi sono presi dai «logia», e nei cinque casi, lo scrittore segna la fine del prestito che fa da quella fonte con una formula pressappoco identica.

È ovvio che quella formula, così come le parole introduttive che la precedono, sono dovute alla penna dello scrittore, e che non si trovavano nella fonte originale. Sono del resto le sole ad attribuire a Gesù la paternità dei discorsi che inquadrano. Niente nel testo stesso dei «logia» viene a confermare quell'attribuzione. A volte addirittura, per ben afferrare il senso dei «logia», è indispensabile isolarli dal contesto nel quale sono stati collocati arbitrariamente dagli scrittori sinottici. Il passo «Perché mi chiamate Signore! Signore! e poi non fate ciò che dico?» (Luca 6:46; Matteo 7:21) doveva essere, nella forma originale dei «logia», pronunciato da Dio stesso, e non da Gesù, come  vuole il contesto dei vangeli. Infatti, abbiamo già constatato che è solo il paolinismo che, sotto l'influenza del sincretismo orientale, ha dato a Gesù il titolo di kyrios. Prima di esso, questo titolo col quale si traduceva l'ebraico Jahvé, era riservato esclusivamente a Dio. Ora l'origine dei «logia» è chiaramente precristiana, come prova in particolare la loro escatologia.

Nell'escatologia dei «logia», è necessario distinguere due strati sovrapposti, entrambi precedenti al 70. Uno non cessa di esortarci ad osservare i segni dei tempi, precursori del cataclisma finale e dell'avvento del Regno di Dio, l'altro afferma al contrario, con la stessa insistenza, che non esistono segni precursori e che il grande giorno ci sorprenderà al momento in cui meno ce lo aspettiamo. Qui, il giudizio finale sarà preceduto da guerre e da sconvolgimenti politici; là, al contrario, sarà un'interruzione brusca e inattesa del corso normale e regolare della vita civile con le sue molteplici occupazioni che l'autore si accinge a descrivere con minuzia: mangiare, bere, sposarsi, lavorare, dormire. Nel capitolo 24 del primo vangelo, si vedono queste due concezioni costantemente intrecciarsi. Si crederebbe di ascoltare due persone prendere a turno la parola e difendere due opinioni opposte. Queste divergenze si spiegano benissimo con l'ipotesi di due strati successivi nei «logia», ma sarebbe inimmaginabile che parole così contraddittorie fossero state pronunciate dalla stessa persona, e soprattutto nel corso di uno stesso discorso.

Possediamo dei «logia» due versioni: quella di Luca e quella di Matteo. Queste due redazioni differiscono soprattutto nella loro tendenza sociale, e forse è opportuno, prima di andare più oltre, precisare in poche parole l'influenza che potevano esercitare sull'origine e sull'evoluzione dei movimenti religiosi le condizioni economiche e sociali e le trasformazioni che potevano subire.

Senza entrare nelle esagerazioni di Karl Marx e di Engels, che credevano di poter spiegare con delle cause economiche tutti i fenomeni della storia, ivi compresi quelli di ordine spirituale come l'origine e l'evoluzione dei movimenti religiosi, è certo che la struttura economica di un popolo non può modificarsi senza che la sua vita intellettuale ne subisca il contraccolpo. In tempi in cui la vita intellettuale dispone solo delle forme della religione per manifestarsi, si può quindi attendersi di trovare nei testi dove si sono cristallizzate le idee religiose un riflesso dei conflitti economici. È per non tener sufficientemente conto dell'elemento economico e sociale che la teologia e la storia delle religioni, quando tentano di spiegare l'origine e l'evoluzione delle idee religiose, perdono spesso il contatto con le realtà della vita e si perdono nelle nubi della pura ideologia. Il principio economico e sociale ci permetterà di determinare le tendenze opposte delle due versioni dei «logia», quella di Luca e quella di Matteo.

Già prima dell'avvento del cristianesimo, alcune sette ebraiche praticavano il comunismo. Le passioni sociali essendo state esasperate soprattutto dal fasto che dispiegavano i Greci e i Romani, si comprende facilmente perché, contrariamente a ciò che accade ai nostri giorni, le idee comuniste si siano più diffuse tra i patrioti ardenti e tra gli zeloti delle credenze nazionali. Nonostante queste differenze tra il comunismo messianico e il comunismo moderno, la «Città Futura» dei socialisti moderni ricorda sotto più di un aspetto la Gerusalemme celeste che i messianisti speravano un giorno di veder discendere sulla terra. La «Grande sera» dei socialisti moderni si ispira a passioni molto simili a quelle che hanno nutrito, nella mente dei messianisti, l'attesa del «gran giorno», del cataclisma escatologico.

Quella tendenza nel contempo comunista e messianica dei «logia» risalta in Luca fin dalla prima frase che attinge da loro: «Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio!» È di poveri tout court che si tratta in Luca, e non dei poveri in spirito, come dirà Matteo. In Luca, questo termine, che corrisponde all'ebraico «anawim», vuol essere preso in senso economico e sociale. Per convincersene, basta tener conto del parallelismo del testo lucano. Infatti Luca ci ha trasmesso i «logia» sotto forma di un poema scritto in stile ritmico e in parallelismi. A ciascuna beatitudine oppone una maledizione. Alla beatitudine dei poveri egli oppone la maledizione dei ricchi, ecc. È ovvio che è solo con un artificio di interpretazione, oppure obbedendo alla propensione ad armonizzare ad ogni costo il testo di Luca con quello di Matteo, che si possono prendere queste beatitudini e queste maledizioni in senso spirituale. Per i «logia» nella loro forma primitiva, la povertà materiale, senza che alcuna qualificazione morale sia espressamente richiesta, dà accesso alla Città futura. Matteo al contrario non si accontenta di sostituire ai poveri tout court i «poveri in spirito», ma sopprime anche l'antitesi del parallelismo, la maledizione dei ricchi,  maledizione che, lo si capisce facilmente, cominciava a divenire disturbante per la Chiesa a partire dal momento in cui, insediandosi in questo mondo, aveva ogni motivo di risparmiare coloro che disponevano delle sue ricchezze. Spiritualizzando così il termine «povero», la Chiesa fece un colpo da maestro: nello stesso tempo in cui si adattava alle concezioni sociali più realistiche di quelle che le avevano dato il primo impulso, forgiò un'arma in più contro la ragione. La povertà in spirito divenne un ideale morale, eminentemente favorevole alla sua disciplina e all'accettazione dei suoi dogmi.

Un altro esempio delle alterazioni subite dai testi comunisti ci è fornito dalla storia del giovane ricco (Luca 18:18-30; Matteo 19:16-26; Marco 10:17-27), testo che afferma che è più facile per un cammello passare per la cruna di un ago che per un ricco entrare nel regno di Dio. I commentatori si affrettano a spiegare che il termine «cruna dell'ago» designava una volta una postierla per la quale era difficile, ma non impossibile, per un cammello passare. Non so se sia possibile provare, basandosi su qualche testo antico, che il termine «cruna dell'ago» avesse effettivamente quel significato. Fino a prova contraria, conviene scartare quella interpretazione come poco verosimile, e più conforme alla tendenza di coloro che hanno rimaneggiato i nostri testi che a quella dei loro primi autori. Per sostituire l'idea assurda del cammello che si sforza di passare per la cruna di un ago con un'immagine più giusta, non c'è affatto bisogno di ricorrere ad un'interpretazione così sospetta: basta ammettere che per un errore del copista, una i lunga si sia sostituita ad una i corta, e leggere κάμιλος (corda) al posto di κάμηλος (cammello), la lettera η essendo allora pronunciata come i lunga. Quella sostituzione ha potuto verificarsi tanto più facilmente perché la parola «cammello» era più frequente e doveva essere più familiare ai copisti della parola «corda». All'origine, quindi, questo testo insegnava che è tanto impossibile ad un ricco entrare nel regno di Dio quanto lo è per una corda passare per la cruna di un ago. I ricchi sono esclusi dal regno di Dio in quanto ricchi, e senza che sia necessario che alcuna depravazione morale venga ad aggiungersi alla loro ricchezza.

Il racconto del giovane ricco con la sua tendenza nettamente comunista doveva divenire molto imbarazzante per la Chiesa una volta che avesse abbandonato il comunismo primitivo. Ecco perché esso riceve una nuova veste nel vangelo di Marco, dove i ricchi tout court diventano «quelli che confidano nelle ricchezze». Quell'interpolazione manca ancora in Luca e in Matteo, e persino nei migliori manoscritti di Marco. Ma essa apre ai ricchi la porta del cielo: essi possono d'ora in poi conservare le loro ricchezze, a condizione che non vi si attacchino col loro cuore, e le considerino un deposito affidato da Dio. 

I sinottici hanno anche introdotto nel racconto evangelico il personaggio di Caifa. Il suo nome è sconosciuto alla Storia; lo si trova però, in in Giuseppe, accanto a quello del sommo sacerdote Giuseppe (Giuseppe, Antichità 18:2, 2; 4, 3). Ma quella aggiunta sembra essere posteriore. Era Giuseppe che, al tempo di Gesù, ricoprì le alte funzioni sacerdotali (18-36 della nostra era). Se la storia tace sul personaggio, l'etimologia è altrettanto incapace di informarci sull'origine del suo nome. È impossibile collegare la forma greca Kaïaphas a qualche nome ebraico conosciuto, o anche, con qualche probabilità, a qualche parola o a qualche forma della lingua ebraica. Negli Atti, il sommo sacerdote che giudica gli apostoli si chiama Anania; nel testo iniziale di Giovanni, colui che interroga Gesù si chiama Anna. Senza dubbio, questi due nomi, Anania in Atti e Anna in Giovanni, non sono che due forme diverse, in greco, dello stesso nome ebraico: Hananiah. Caifa, ancora sconosciuto nel più antico vangelo, non figura neppure nei racconti della passione di Luca e di Marco, dove il sommo sacerdote resta anonimo. Il passo più antico dove si fa menzione di Caifa sembra essere Matteo 26:57; il nome vi figura all'accusativo: Kaïaphan ton archierea. È difficile scartare l'idea che quella formula possa essere una corruzione di Atti 4:6, dove si legge: Kai Annan ton archierea. Quella corruzione poteva essere favorita da una sovrapposizione del passo degli Atti, tendente a correggere Anania in Anna. In effetti, doveva esserci originariamente Anania, come altrove negli Atti; poi, dopo la stesura del Giovanni primitivo, per armonizzare i due scritti, si avrà voluto farne Anna. Se la sovrapposizione non era ben leggibile, Matteo ha potuto leggere Kaïaphan al posto di Kaïannan o Kaïananian.

Ci si trova così tutto di colpo in presenza di due sommi sacerdoti, che avevano entrambi istruito il processo di Gesù: Anna in Giovanni e Caifa in Matteo. Abbiamo visto come l'interpolatore di Giovanni si trae d'impaccio, supponendo che il pontificato fosse annuale, che Anna fosse il suocero di Caifa e il sommo sacerdote dell'anno precedente. Abbiamo anche visto che lascia sussistere delle vestigia del testo primitivo che attribuiscono proprio ad Anna lo status di sommo sacerdote in carica.

Anna e Caifa sono anche introdotti fianco a fianco nel testo attuale di Luca, ma indipendentemente dal racconto della passione (3:1). Qui l'imbarazzo si tradisce da un'espressione vaga che sembra supporre che entrambi fossero contemporaneamente in carica lo stesso anno: «Il quindicesimo anno del regno di Tiberio Cesare... sotto il sommo pontificato di Anna e di Caifa ....». Se, secondo Matteo, Caifa era sommo sacerdote in carica, non poteva minimamente essere stato assente dal consiglio che aveva deciso la morte di Gesù. Lo si introdurrà quindi, in Matteo 26:3 e in Giovanni 11:49. Soprattutto in quest'ultimo passo, si sente bene che l'introduzione di Caifa è dovuta ad un'interpolazione. L'autore che aveva cominciato la frase: «Ma uno di loro» (heis de tis ex autôn) non aveva certamente l'intenzione di parlare del sommo sacerdote. Infine, Caifa è anche introdotto in Atti 4:6: «E Anna il sommo sacerdote, e Caifa, e Giovanni, e Alessandro e quanti erano delle famiglie di sommi sacerdoti». Tuttavia quella interpolazione del nome di Caifa in questo passo raggiunge solo imperfettamente lo scopo di armonizzarlo con i Vangeli; perché, contrariamente a Matteo e a Giovanni attuale, Anna resta il sommo sacerdote in carica. Caifa è soltanto presentato come apparentato al sommo sacerdote, allo stesso titolo di Giovanni e Alessandro.

Prima di lasciare i sinottici, dedichiamo ancora una parola al racconto dell'Ascensione di Gesù, o piuttosto all'assenza di questo racconto nei sinottici, omissione che deve suscitarci una viva sorpresa. Non si concepisce proprio, attualmente, un libro di edificazione riguardante la vita di Gesù che non faccia dell'Ascensione il coronamento, la chiave di volta, l'apice trionfale dell'opera di Gesù. Al tempo in cui scrivevano gli evangelisti, questo apice doveva sembrare ben più indispensabile ancora. Infatti il ritorno di Gesù era atteso con più impazienza, e perché Gesù potesse ridiscendere dal cielo, era necessario che vi fosse prima salito. Inoltre, l'Ascensione del Messia era già uno dei tratti essenziali del documento 70, doveva quindi essere facile riprenderlo, e non è concepibile in primo luogo che abbiano potuto sopprimerla.

Ora, Marco e Matteo non hanno traccia del racconto dell'Ascensione, e in Luca esso è contenuto tutto in queste poche parole: «e fu portato verso il cielo». Ma queste parole, che mancano in una parte dei manoscritti, sembrano aggiunte.

In Giovanni, al contrario, che sostituisce la parusia con l'avvento dello Spirito Santo, il racconto dell'Ascensione non sarebbe al suo posto. Non dovendo Gesù ridiscendere dal cielo, ma continuare ad agire sulla terra dopo la sua morte, sarebbe non solo superfluo, ma contrario allo spirito generale di questo Vangelo, farlo ascendere al cielo. Questo motivo di scartare il racconto dell'Ascensione non esiste più per i sinottici, dove la sua omissione si spiega solo con la loro dipendenza dal vangelo di Giovanni.

NOTE

[1Maria e Marta, nella narrazione giovannea, personificano i due poli attorno ai quali gravitava la vita religiosa degli ebrei: Maria rappresenta il mosaismo e Marta il messianismo. Infatti, è Marta che dice: «Il maestro è qui», ho didaskalos parestin, in aramaico: Mar'tha. Marta dice Mar'tha. Quella coincidenza non può essere fortuita. Ricorda troppo il motto messianico citato da 1 Corinzi 16:22: Maranatha. Maranatha significa «nostro Signore viene» e Mar'tha «il Signore viene». Questa qui è tutta la differenza.Chateph-Patach essendo solo una semivocale, la si può rendere, nella nostra scrittura, con un apostrofo. La formaper «Signore» si trova nei Targum. Le parole«Signore» e «Maestro», didaskalos, si confondono facilmente, come lo prova Giobbe 36:22, dove la Septuaginta traduce dunastês, e le altre versioni greche didaskalos, termine impiegato da Marta nel nostro testo.

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