giovedì 24 marzo 2022

GRANDEZZA E DECADENZA DELLA CRITICALO SPIRITO RAZIONALISTA (INTENDIAMO SEMPRE: PSEUDO-RAZIONALISTA)

 (segue da qui)


IV

LO SPIRITO RAZIONALISTA

(INTENDIAMO SEMPRE: PSEUDO-RAZIONALISTA)

Si racconta che a Sparta, per ispirare ai giovani l'orrore dell'ubriachezza, si faceva loro contemplare lo spettacolo di iloti che si avevano fatto ubriacare. Vorrei, mostrando a quali aberrazioni ha potuto abbassarsi uno studioso la cui erudizione e il talento sono indiscutibili, mostrare ai suoi colleghi dove può condurre un certo metodo ed un certo spirito.

Gli studiosi di cui nei capitoli precedenti ho segnalato gli errori sono (quelli messi a parte) persone la cui cultura e un buon senso naturale dovevano guardarli dalle esagerazioni. Il pericolo resta che altri vi si lasciano trascinare. Nel presente capitolo, non si vedrà più un bravo onest'uomo, come il signor Schmiedel, fare un passo falso; è il critico estremista scatenato, è il razionalista folle che terrà la scena.

Al momento di rimproverarlo così severamente, tengo a ripetere che, sotto la maschera di un Henri Delafosse e di un Louis Coulange, vale a dire sotto il nome dell'abate Turmel, esiste un uomo, evidentemente poco coraggioso, ma la cui vita privata è degna di rispetto. Non ignoro neppure l'immensa erudizione patristica di quest'uomo, e mi piace riconoscergli un talento di scrittore, senza il quale d'altronde i suoi libri sarebbero rimasti inosservati. Anche nelle sue analisi, se una volta e per assurdo se ne ammettesse lo spirito e il metodo, ci sarebbe da lodare una certa penetrazione, a volte felici scoperte... [1] Così la Chiesa concede a Satana il potere di farsi seduttore... Senza arrivare a salutare nell'abate Turmel uno Satana mascherato da angelo di luce, mi piace, prima di ingaggiare un combattimento, salutarlo con la spada.

È beninteso che lascerò fuori dal dibattito la doppia vita che ha condotto fino al giorno in cui la Chiesa lo ha respinto dalla sua comunione; non è l'uomo, è lo studioso ed è il suo metodo e il suo spirito che prendo in causa. Nella sua stessa opera ho detto che considererò solo il suo studio delle epistole di San Paolo, il nostro programma essendo limitato alla critica paolina, e non metterò in alcun modo in discussione i suoi altri lavori, in particolare quelli sulla letteratura patristica dove la sua competenza è grande e alla quale avrebbe forse dovuto attenersi... Quanto alla tesi che ha sostenuto nei suoi Ecrits de Saint Paul e che ho riassunto sommariamente e sufficientemente (inautenticità paolina e origine marcionita delle epistole per le loro parti essenziali), penso che la completa confutazione le sarà stata portata nel corso di questo libro, sia direttamente, sia indirettamente.

Fin qui si è trattato unicamente di ciò che è l'errore comune alla maggior parte dei critici estremisti, e avrei potuto altrettanto bene, aihmè!, prendere i miei esempi da altrove, oltre che dai libri dell'abate Turmel. È con le aberrazioni che sono proprie a costui che avremo a che fare ora, non tanto per sé stesse, quanto come rappresentative dei risultati a cui può portare il ritorno offensivo di uno spirito e di un metodo che si credevano da lungo tempo condannati.


I ragionamenti del signor Schmiedel non reggono, perché presuppongono un postulato razionalista inammissibile; ma, ammesso questo postulato, questi ragionamenti in sé sono giusti, detto altrimenti sono onesti. E tale è l'argomentazione del signor Gordon Rylands; se si ammette la sua tesi delle dottrine contraddittorie che dimostrano diversi scrittori, si sarà spesso obbligati a seguirlo fino alla fine.

Non si può negare che vale talvolta lo stesso dei ragionamenti dell'abate Turmel; sfortunatamente accade frequentemente in lui che i ragionamenti sono falsificati, vale a dire che, indipendentemente dall'errore di principio comune a tutti, essi si basano su premesse peggio che discutibili oppure comportano conclusioni che non vi sono in alcun modo incluse. Non ho bisogno di scegliere i miei esempi; prendo il primo dalla prima questione che studia nel primo dei suoi libri. [2]

L'abate Turmel vuole stabilire che l'epistola ai Romani è indirizzata ai cristiani di origine ebraica e non di origine pagana. Egli adduce il testo, 15:27, dove è scritto che i cristiani di Macedonia e di Acaia «sono i debitori di quelli di Gerusalemme; perché se i pagani hanno ottenuto da costoro parte ai loro beni spirituali, devono per contro assisterli con i loro beni temporali».

Ora, questo intervento, dice l'abate Turmel, se è rivolto ai cristiani di origine pagana, è «umiliante»... Parlare così equivale a dire ai convertiti «cose denigratorie»... Equivale a commettere una «manchevolezza»... Quella manchevolezza, Paolo non avrebbe potuto commetterla; quindi non l'ha commessa. Ha voluto fare un complimento ai cristiani di Roma dicendo loro che i pagani sono debitori degli ebrei, e dal fatto che ha voluto fare loro questo complimento, noi siamo autorizzati a concludere che i cristiani di Roma sono, non ex pagani, ma ebrei di cui vuole guadagnare la simpatia.

Questo ragionamento poggia innanzitutto sull'affermazione che ricordare ai convertiti, anche nei termini più moderati, che sono i debitori di coloro dai quali hanno ricevuto la fede è un «intervento umiliante», una «cosa denigratoria», una «manchevolezza». Dovremo credere che l'abate Turmel abbia una tale anima che si sentirebbe umiliato a dovere a qualcuno ciò che considererebbe la verità, la luce e la vita?

Ma se si ammette quella bassezza, si vede l'insolenza della deduzione? Questo intervento umiliante, questo intervento maldestro, Paolo, che era evidentemente un perfetto gentiluomo oltre che un saggio politico, non ha potuto tenerlo: quindi, non lo ha tenuto.

Tutto il procedimento dell'abate Turmel è lì, egli interpreta i testi in uno spirito che è forse il suo, ma che è impossibile attribuire a priori alla prima generazione cristiana; e dal fatto che, secondo lui, San Paolo avrebbe avuto torto a fare una cosa, egli conclude che non l'ha fatta.

E quella prova, arbitrariamente stabilita, gli pare così solida che un po' più oltre (pagina 43) considera il fatto come dimostrato, e non teme di scrivere: «Noi abbiamo acquisito la prova che l'epistola ai Romani è stata scritta per i cristiani di origine ebraica».

Io non contesto che l'epistola sia rivolta a loro; ma non è questo genere di ragionamenti che lo stabilirà.


Si vuole un esempio dei colpi di spugna dati ai testi? Ne scelgo uno che il lettore non specialista possa intendere senza troppe spiegazioni.

L'abate Turmel vuole stabilire che l'autore di certi passi delle epistole professa che le anime dei giusti salgano al cielo immediatamente dopo la loro morte senza attendere il grande giorno (ciò che è diventata la dottrina cristiana ma non lo era nel primo secolo). Cita [3] il testo della prima epistola ai Tessalonicesi 4:17, dove è detto, in effetti, qualcosa di analogo, ma specificando che si tratta di quei cristiani che saranno ancora vivi in quel giorno! La dottrina dell'epistola è, infatti, questa: quando arriverà il grande giorno, coloro che erano morti resusciteranno per salire al cielo, e coloro che erano ancora vivi, non avendo bisogno di resuscitare, dovranno solo salirvi direttamente: il testo non dice altro, — a condizione che il colpo di spugna non ne sopprimi via la metà.

Passiamo ad esempi caratteristici dello spirito allo stesso tempo che del metodo dell'abate Turmel.

L'abate Turmel vuole [4] che il frammento dell'epistola ai Romani 6:25-8:39, sia dovuto ad uno scrittore marcionita. Per sottoporne la prova, egli contrappone la dottrina messianica (promessa della dominazione universale data da Dio), che egli fa risalire al primo secolo, alla cosiddetta dottrina marcionita della redenzione ottenuta tramite la partecipazione alla morte e alla resurrezione del Cristo.

Dottrine inconciliabili, pronuncia l'abate Turmel.

Forse... ma si tratta di provare che la prima sia quella del vero San Paolo e che la seconda provenga da Marcione, — ciò, contro i partigiani dell'autenticità (di cui io sono uno) che professano al contrario che la prima non lo è e che la seconda è paolina.

L'abate Turmel presenta due argomenti.

Si sa che Marcione insegnava l'esistenza di due dèi: il dio cattivo, che era il dio dei giudei, e che aveva creato il mondo e vi aveva introdotto il male; e il dio buono che, per liberare gli uomini dalla morsa del dio cattivo, aveva dovuto venire sulla terra ad offrirsi in sacrificio.

Quella dottrina è perfettamente logica, dice l'abate Turmel. Al contrario, quella che identifica il dio creatore e il dio salvatore non è logicamente ammissibile. Il dio che viene a salvare gli uomini al prezzo del sacrificio della croce è, infatti, un Dio buono, che ama gli uomini. Ora, se gli uomini sono infelici, è perché il dio creatore ha fatto cadere su di loro la colpa del primo uomo, ciò che è l'azione di un dio malvagio. Se il dio buono fosse identico a quello, sarebbe a sua volta un dio cattivo e un dio buono, sarebbe «stravagante», e la dottrina che avrebbe insegnato queste cose sarebbe stata essa stessa stravagante. 

Da cui segue che Marcione era perfettamente logico nell'insegnare la sua dottrina di due dèi, ma che il vero San Paolo (che non conosceva quella dottrina), sarebbe stato lui stesso perfettamente stravagante, poiché avrebbe insegnato l'altra dottrina, la quale è una dottrina stravagante.

Si vede in cosa si riassume l'argomentazione: è impossibile che un uomo, a meno che non fosse stravagante, abbia creduto che lo stesso Dio avrebbe potuto alternativamente opprimere gli uomini sotto i fardelli del peccato di Adamo e venire (o inviare suo figlio) per riscattarli. E dico che eccoci trasportati in pieno Café du Commerce, accanto al tavolo dove il signor Homais sorseggia il suo drink, benché io sappia perfettamente che l'abate Turmel è un uomo che non va al bar. 

Per immaginare che un cristiano si rifiuti di conciliare l'idea della bontà di Dio con il peccato originale, bisogna voler ignorare tutto della storia religiosa dell'umanità. Il giudaismo così come il cristianesimo ha riunito sul fronte del suo dio le peggiori incompatibilità. Per parlare solo del cristianesimo, c'è oggi un cattolico credente che non accetti nel contempo che Dio abbia punito l'uomo per il peccato di Adamo e che sia il Dio di misericordia e di bontà? Forse questa è una «stravaganza»? ma che quella «stravaganza» sia ammessa da secoli da milioni e milioni di esseri umani è un fatto, e si rimane confusi dal fatto che una persona, che per mezzo secolo ha esercitato il ministero ecclesiastico, misconosca la materialità di questo fatto.

Ecco il primo argomento, sempre in fondo lo stesso: San Paolo non avrebbe potuto professare una dottrina che l'abate Turmel giudica «stravagante». Ed ecco il secondo, che non è meno degno dell'intellettualità del signor Homais.

È assurdo, dichiara l'abate Turmel (pagina 30), professare che si possa essere salvati partecipando alla morte di qualcuno. La sola spiegazione ragionevole è che quella morte sia stata solo una finta morte, una morte apparente. Al prezzo di continuare ad essere stravagante, l'autore del frammento ha dunque voluto dire che la morte del Cristo era stata una parvenza di morte, ma che in realtà egli non fosse morto... Ora, la dottrina della morte apparente di Cristo è un'eresia doceta, la quale sarebbe stata professata da Marcione. Dunque, il frammento in questione non può essere che l'opera di un marcionita.

La dottrina cristiana insegna, al contrario, che la morte del Cristo sia stata reale, e che sia per ciò stesso che è un sacrificio efficace. E a quella dottrina io spero, nel volume che apparirà presto, di recare l'assoluta conferma sociologica. Se esiste, in effetti, un fatto acquisito nella storia delle religioni, è l'antica credenza, ripresa dal cristianesimo, che il credente muore con il suo dio sacrificato e risorge con il suo dio risorto. Ma questo fatto, il signor Homais non vuole accettarlo. Morire con il proprio dio, quale assurdità! San Paolo non avrebbe potuto scrivere quella stravaganza! Sento risuonare nelle orecchie le forti risate dei clienti del Café du Commerce... Ahimè! signori, quella stravaganza, San Paolo l'ha scritta, e cinquanta generazioni di primitivi altrettanto bene come cinquanta generazioni cristiane l'hanno ripetuta prima e dopo di lui!

Tale è lo spirito nel quale l'abate Turmel studia le origini del cristianesimo.

Tale è la sua ignoranza di tutte le acquisizioni della scienza delle religioni.

Questo esempio mi dispensa dall'esporre gli innumerevoli documenti in cui ho rilevato la stessa incomprensione delle questioni religiose e lo stesso misconoscimento dei metodi moderni.

Gli studiosi cattolici e protestanti pretendono talvolta che non è possibile a chiunque sia ribelle ai sentimenti religiosi di studiare le religioni, e se traggono di là le conseguenze che si intuiscono, resta nondimeno il fatto che è impossibile capire qualcosa delle concezioni religiose se si eliminano i motivi di ordine mistico, e se, in assenza di esperienza personale, non si è almeno ricevuto dalla sociologia qualche nozione sulla cosa religiosa.

Le religioni sono state fondate e si sono sviluppate perché gli uomini sono capaci di conoscenza irrazionale. È la legge che è alla base della storia delle religioni. Il programma di un Turmel è di dimostrare che il cristianesimo si è fondato nell'assenza di ogni sentimento religioso. Forse era quello di Voltaire? ma vi è una distanza da Voltaire all'abate Turmel. E forse era anche il programma di Léo Taxil? Voltaire, coll'affascinante umorismo di uno scrittore di genio, e Léo Taxil con la sua parlantina da canaglia, hanno schernito il sentimento religioso; l'abate Turmel, con l'apparato della sua erudizione, persegue la cosa religiosa con una incomprensione che ha da tempo (vale a dire da molto tempo prima della sua condanna) gli aspetti di una vendetta. Non voglio cercare ciò che possa avervi di secondo fine anticlericale o piuttosto anticristiano nella pubblicazione dei suoi libri, e resterò qui sul terreno degli studi scientifici.  L'abate Turmel non schernisce il cristianesimo, come Voltaire; non lo oltraggia, come Léo Taxil; gli nega la sua spiritualità.

Non vi è là nessuna metafora. Per l'abate Turmel, San Paolo non è un mistico — né San Paolo, né beninteso gli scrittori che hanno scritto sotto il suo nome. Abbiamo considerato l'autore delle epistole come il prototipo del misticismo. Ecco cosa scrive l'abate Turmel per disilluderci:

«Che San Paolo abbia contemplato nella sua immaginazione presunta mistica l'immagine che ...» [5]

E non solo San Paolo non è un mistico, ma i suoi fedeli Corinti non lo sono neppure. Per stabilire la cosa, prende [6] la pagina della prima ai Corinti, 11: 23, dove San Paolo racconta che il Signore gli ha insegnato, evidentemente in una visione, come avesse istituito l'Eucarestia. Questo passo non è autentico, dice l'abate Turmel; non può essere di San Paolo, perché, nel raccontare ai Corinzi come un fatto storico una cosa che aveva appreso in una visione, «egli non poteva nascondersi che gli sarebbe stato obiettato questo: I fatti storici non si provano a colpo di visioni...» 

San Paolo, i Corinti preoccupati di «fatti storici»! I Corinti che non vogliono sentire parlare di visioni! Giudichiamolo dalla descrizione che San Paolo fa di questi stessi Corinti. [7]

Tutti hanno la manifestazione dello Spirito;  gli uni ottengono da esso la parola di sapienza (sia!); gli altri la conoscenza; questi il dono delle guarigioni; quelli il dono dei miracoli; gli uni il dono della profezia; gli altri il dono delle lingue, detto altrimenti la glossolalia (che consiste nel proferire, sotto l'influsso dello Spirito, grida, parole svuotate di senso, come la cosa accade ancora a Lourdes). Un altro testo [8] permetterà di apprezzare il grado di razionalismo degli uomini a cui si rivolge San Paolo: «Lo Spirito Santo intercede per voi», dice loro; questo già mostra un reale razionalismo; ma come lo Spirito Santo intercede ? per mezzo di sospiri, di gemiti, di grida inarticolate... Eccolo là il genere di uomini a cui occorrono fatti storici debitamente attestati da testimonianze e a cui San Paolo non avrebbe mai osato parlare di visioni!

Abbiamo detto, nella prefazione, che, lungi dal rappresentare di fronte alla Chiesa la critica indipendente moderna, l'abate Turmel era restato ai peggiori errori di una critica oggi priva di reputazione. Così constateremo nei suoi libri il ritorno alle più basse, alle più piatte, alle più risibili interpretazioni del razionalismo tedesco dell'anno 1800 circa, ciò nel pieno misconoscimento e persino nella assoluta ignoranza delle più elementari acquisizioni della storia comparata delle religioni.

Nel corso dell'esposizione che dà delle origini della Messa, [9] egli espone come essa sia nata da un semplice pasto collettivo. La sostanza della teoria non è nuova; è per ringiovanirla che si è messo alla scuola del vecchio razionalismo tedesco. 

Da quando la scienza delle religioni si è aperta allo studio delle religioni comparate, gli studiosi sono stati colpiti nel ritrovare, nel pasto eucaristico, le caratteristiche, evidentemente modernizzate, evidentemente spiritualizzate, degli antichi pasti di comunione e persino di comunione teofagica. Ma bisognerebbe interessarsi ai metodi comparativi, vale a dire uscire dalla critica interna! E poi, tali usanze presuppongono negli uomini che vi si abbandonano una mentalità mistica e irrazionale che gli studiosi ritrovano in ogni pagina della storia delle religioni, ma di cui il signor Homais non vuole sentir parlare ad alcun prezzo, e che gli è talmente antipatica, o piuttosto talmente estranea, che preferisce ignorarla.

Tale è esattamente il caso dell'abate Turmel: si tratta per lui di spiegare le origini della Messa, e di là quelle dell'Eucarestia, senza far intervenire alcun elemento di ordine religioso; ben più, senza mai ricorrere, nemmeno incidentalmente, ai metodi moderni della storia delle religioni.

Prima di San Paolo, dice, esiste tra i cristiani solo un semplice pasto collettivo, semplicemente «colorato di una tinta religiosa» e che si termina con le cosiddette preghiere eucaristiche. Degli abusi si verificano. Siccome ciascuno porta il proprio cibo, alcuni ne portano più del necessario e fanno gozzoviglie; gli altri (i più poveri) si stringono lo stomaco; certi arrivano a ubriacarsi. Questo è ciò che San Paolo intende riformare. Perciò  comincia col proibire il pasto propriamente detto, e istituisce per rimpiazzarlo una commemorazione della Passione del Cristo.

Sfortunatamente per la tesi dell'abate Turmel, alla difesa del banchetto e all'istituzione del memoriale, i testi aggiungono un'altra cosa; precisano che questo memoriale deve essere celebrato mangiando il pane e bevendo il vino; Gesù comincia con lo spezzare il pane, insegna San Paolo, poi ordina: «Fate questo in memoria di me».

Cosa vengono a fare questo pane e questo vino, esclama l'abate Turmel?  Come può il mangiare un pezzo di pane e il bere un bicchiere di vino commemorare la Passione?

Non importa quale storico delle religioni, si può dire non importa quale uomo istruito, sappia oggi quale valore sacramentale i pasti sacri hanno avuto in tutte le religioni; la scuola antropologica ha stabilito da molto tempo che, partecipando ad uno stesso cibo, gli uomini hanno creduto di creare tra loro un legame, un legame materiale fattore di un legame spirituale. Si sa anche che in un numero grandissimo di casi questi pasti sacri avevano per scopo l'assorbimento stesso della carne del dio. Infine, si tratta di uno dei più antichi costumi della storia religiosa dell'umanità, e si tratta di fatti che i lavori degli studiosi più eminenti, come il signor Salomon Reinach, hanno si può dire popolarizzati. Ma di questi lavori l'abate Turmel non ne ha cura; li conosce almeno? E, se li conosce, quel costume è in linea di principio mistico, e lui non vuole che alcun elemento mistico sia entrato nella formazione del cristianesimo. Non discute l'ipotesi, non la esamina nemmeno; si direbbe che non gli sia neppure venuta in mente.

«Cosa viene a fare il pane», domanda, «cosa viene a fare il calice là dove si tratta di commemorare la morte del Salvatore? Quella augusta commemorazione esige racconti, ringraziamenti, preghiere, canti. Ma non si vede come il pane e il calice possano cooperare in un'azione così santa. In compenso si vede chiaramente come possono ostacolarla. Perché il pane e il calice, cos'altro sono se non la miniatura o, se si preferisce, lo scheletro del pasto che si ha voluto sopprimere? Si dichiara il banchetto incompatibile con la commemorazione della morte del Cristo. [10] La conciliazione sarà più facilitata quando, al posto di un banchetto completo, si avrà il germe di un banchetto?» [11]

Ed ecco l'impressionante ipotesi che propone.

Non osando sopprimere completamente il banchetto, il riformatore «ritenne che l'unico modo fosse di dare ai fedeli l'illusione del pasto di cui soppresse la realtà»... Credette di «dover fare una concessione alle masse popolari» dando loro l'immagine ridotta di un banchetto sotto forma di un pezzo di pane e un bicchiere di vino. Temendo che i fedeli «avrebbero cessato di muoversi quando non avessero avuto più a stimolarli la prospettiva gioiosa di una festa», propose loro un surrogato e disse loro: «Farete un pasto in miniatura, ma non un pasto propriamente detto». I nostri moderni proibizionisti potrebbero ispirarsi a quel metodo, offrendo alle «masse popolari» un piccolo bicchiere d'acqua con aggiunta di succo di limone per sostituirlo al vino bianco.

Credo che nessuno, anche tra gli amici dell'abate Turmel, mi rimprovererà se affermo che una tale inettitudine è paragonabile solo a quella degli studiosi che, cento anni fa, spiegavano il miracolo delle nozze di Cana con una piccola sorpresa che Gesù, da buon umorista, aveva preparato per gli sposi. 


Siamo lontani dall'aver finito con l'interpretazione razionalista che l'abate Turmel propone dell'istituzione eucaristica. Finora ha avuto in mente solo quelle parole prestate a Gesù dall'epistola, dove è dato l'ordine di mangiare il pane e di bere il vino in memoria della Passione.

Ma vi è nel testo qualcosa di cui non ho ancora parlato, e questo qualcosa sono le famose e immense parole, «Questo è il mio corpo», di cui da diciannove secoli vive la pietà cristiana. Come collocare quelle parole incommensurabili nel contesto del «Café du Commerce» in cui si vuole ricondurre l'istituzione eucaristica? [12]

Abbiamo ricordato poco fa che la partecipazione ad uno stesso cibo poteva avvenire nelle antiche religioni sotto forma di partecipazione alla carne del dio stesso. Già San Paolo aveva detto con le sue parole, 10:16, che mangiare il pane spezzato nell'assemblea e bere il calice equivaleva a comunicare con il corpo e il sangue del Cristo, e che altrettanto bene, in 10:20, mangiare le carni consacrate ai demoni equivaleva a comunicare con loro. Egli specifica ora che questo pane rappresenta e misticamente è lo stesso corpo del Cristo spezzato, vale a dire messo a morte. Così l'espressione «Questo è il mio corpo» è l'espressione, tanto chiara quanto patetica, di quella partecipazione dei Fedeli alla morte del loro dio, che è al cuore del pensiero di San Paolo.

Ma il signor Homais ride di queste «stravaganze», o piuttosto vuole ignorarle. Le parole «Questo è il mio corpo» sono interpolate perché non hanno, dice l'abate Turmel, alcun legame con il precetto da cui sono seguite.  

«Si comprenderebbe se il Cristo avesse detto: Questo è il mio corpo per voi: credeteci. Si comprenderebbe ancora la formula che segue: Questo è il mio corpo per voi: ripetetelo quando fate la cena. Ma non esiste alcun rapporto tra le due proposizioni seguenti: Questo è il mio corpo per voi: fate questo in memoria di me». [13]

Fino all'abate Turmel tutti avevano la debolezza di trovare che le parole «Questo è il mio corpo» non solo erano perfettamente legate al precetto che le seguono, ma ne erano la spiegazione... «Questo pane è il mio corpo», disse Gesù; «quindi, mangiando questo pane, voi mangerete il mio corpo». I selvaggi totemisti che praticano la teofagia comprenderebbero: «Questo animale è il vostro totem; quindi, mangiando questo animale, mangerete il vostro totem». Ma l'abate Turmel, invece, non comprende.

La formula «Questo è il mio corpo» è, secondo lui, un'interpolazione cattolica designata non a mostrare che questo pane rappresenta il corpo di Gesù, ma a provare che Gesù avesse un corpo, ciò contro gli eretici doceti che professavano che egli aveva avuto solo l'apparenza di un corpo.

A dire il vero, l'abate Turmel può appellarsi a diversi Padri della Chiesa che hanno tratto dal celebre testo un argomento anti-doceta; ma c'è un mondo tra falsificare un testo con un'intenzione, e ricavarne un argomento. Altrimenti, dal fatto che San Paolo ha potuto ricavare da certi testi della Genesi un argomento a favore del cristianesimo contro il giudaismo, si dovrebbe concludere che questi testi fossero stati scritti con un'intenzione antigiudaica!

Chi è dunque l'autore dell'interpolazione?

Mi scuso per aver trascinato i miei lettori in questa selva di pseudo-logica, e temo di stancarli; ma vi è là un'operazione di salubrità scientifica che conviene portare fino al termine.

L'interpolazione, dichiara l'abate Turmel, è posteriore a Marcione; il che prova il sillogismo seguente:

A — Marcione era doceta;

B — L'espressione «Questo è il mio corpo» è anti-doceta, avendo unicamente per scopo di provare che Gesù ha avuto un corpo;

C — Quindi, un Marcionita non ha scritto l'espressione «Questo è il mio corpo».

SI vede l'impudenza di un ragionamento che suppone acquisita la seconda proposizione. In realtà, un fatto è acquisito, che certi Padri hanno più tardi tratto da «Questo è il mio corpo» un argomento anti-doceta; un colpo di spugna trasforma il fatto in questo: «Questo è il mio corpo» è stato scritto contro il docetismo.

Mi si permetterà un'incursione nel paese di Ucronia. Immagino che dei Padri doceti, se ce ne fossero stati, avrebbero potuto altrettanto bene trarre da «Questo è il mio corpo» un argomento a favore del docetismo, mediante il ragionamento seguente: dicendo di un pezzo di pane che è il suo corpo, Gesù insegna che il suo corpo non ha avuto una realtà propria... Il ragionamento sarebbe pessimo; sarebbe peggiore di quello preso da Tertulliano e da Sant'Ireneo?

Senza arrivare fin là, esiste, come sempre nei cosiddetti dilemmi, una terza possibilità; è che l'espressione «Questo è il mio corpo» sia stata scritta senza preoccupazione doceta né anti-doceta, e io ne fornisco la prova. Il doceta Marcione, scrive l'abate Turmel, non ha potuto scrivere né accettare questo testo, perché credeva che Gesù avesse avuto solo un'apparenza di un corpo; ma l'abate Turmel ammette che Marcione abbia potuto parlare del calice del suo sangue. In cosa dunque il sangue di Gesù ha meno disturbato Marcione del suo corpo? La verità è che l'assimilazione del pane al corpo e del vino al sangue di Gesù poteva altrettanto bene intendersi di un corpo e di un sangue reale oppure di un'apparenza di corpo e di un'apparenza di sangue, e che Marcione poteva perfettamente ammettere che Gesù abbia assimilato il pane del pasto eucaristico a questo corpo ideale, a quella sembianza di corpo... E vedremo più oltre [14] completarsi la rotta del razionalismo con la constatazione che il famoso testo esisteva nell'edizione delle epistole stabilita da Marcione stesso.

Per riposare i miei lettori, rallegrandoli un momento, darò loro il commentario che l'abate Turmel propone infine delle famose parole.

Ecco cosa, secondo lui, l'autore di quelle parole ha voluto far dire al Cristo:

«Questo pane che io vi do si trasformerà nel vostro corpo; da ora si può dire che esso è il vostro corpo, perché il vostro corpo è fatto di pane. Ebbene, è lo stesso per me. Anche il mio corpo è fatto di pane. Questo pane è la materia che costituisce il mio corpo, esso è il mio corpo».

Facevo poco fa allusione ai selvaggi totemisti; si ammetterà che essi avevano trovato di meglio.

Ma non è ancora tutto.

L'autore dell'epistola racconta che ha appreso da Gesù stesso, in una visione, come questi avesse istituita l'Eucarestia, come lui intende che sia celebrata. Perché quella messa in scena? Basterebbe ai razionalisti ragionevoli rispondere: perché non poteva dire che aveva appreso la cosa dalla bocca dei testimoni; la spiegazione sarebbe cattiva (in quanto non terrebbe conto che per San Paolo e per i suoi Corinti una rivelazione ha infinitamente più autorità di una testimonianza), ma sarebbe immaginabile. Essa non è sufficiente per un razionalista estremo, ed ecco la sua trovata:

«La visione cristallizzata nel testo «Io ho ricevuto dal Signore» è una manovra destinata ad elevare Paolo a detrimento dei Dodici». Sotto lo pseudonimo di Louis Colange, l'abate Turmel insiste: «Un puro espediente destinato a screditare i Dodici».

Ma era solo un prestito per un ritorno, poiché, qualche anno più tardi, l'interpolatore cattolico avrebbe fabbricato l'espressione «Questo è il mio corpo», al fine a sua volta di contrastare l'interpolatore marcionita.

...Milioni e milioni di uomini e donne che, da secoli, vi riunite nel tremore e nel giubilo della santa mensa dove farete la comunione con il corpo del vostro dio! Milioni e milioni di uomini e donne che, per secoli, e ancora oggi, malgrado Voltaire e Léo Taxil, sospendete la vostra vita nel conforto del cibo soprannaturale! vi sbagliate... Vi sbagliate anche voi, voi che, non più credenti, cercate di capire come il sacramento eucaristico sia nato dai più remoti bisogni spirituali della società! Non si tratta, in tutto ciò, che di dispute e di inganni. 

Vediamo attorno a noi dei poveri preti stanchi e balbuzienti ripetere meccanicamente le parole della consacrazione; sappiamo di preti volterriani e belli spiriti che le ripetono senza crederci; si dice persino che esistano dei cattivi preti che oltraggiano nel loro cuore il nome del dio che le loro bocche invocano; ma solo un prete satanista ha potuto per quarant'anni pronunciare tutti i giorni le folgoranti parole della Cena con il pensiero che stesse perpetuando, dopo milleottocento anni, la manovra destinata a screditare i fondatori della Chiesa.

Non c'è più senso estetico che senso spirituale. Tra le banalità che alcuni scribi hanno interpolato nelle epistole e nelle formule più possenti, un Turmel non vede alcuna differenza. Ritorneremo su questo argomento esaminando ciò che si può ricavare dal criterio estetico e spirituale; ma per un Turmel, il valore estetico non conta più del valore spirituale.

Una sola volta forse, [15] egli sembra sospettare il valore estetico delle epistole... «In una pagina animata da un respiro potente e che conta tra le più belle del Nuovo Testamento...» leggiamo, ed ecco che fa onore al critico... Proseguiamo... «Se i voli retorici pesassero qualcosa nelle bilance della critica, quello di cui si è appena letto una pallida analisi avrebbe un peso immenso... Tutte le letterature della terra messe insieme contengono, in effetti, pochi accenti di un'eloquenza più avvincente...» Ci si chiede dove andremo a finire... a questo: «Ma quella fanfara sonora...» L'uomo è giudicato; la pagina più potentemente bella del Nuovo Testamento è per lui una «fanfara sonora».

Vorrei che ci si fermasse un istante a meditare sulla miracolosa bellezza letteraria di quella formula «Questo è il mio corpo» e di tutto il racconto stesso... «Il Signore prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò, e disse: Questo è il mio corpo spezzato per voi».

La grande bellezza letteraria si definisce: precisione, profondità, concisione. Ora, qui, è, nel suo plenum di precisione, di profondità, di concisione, il mistero di uno dei più antichi riti umani che è formulato, il corpo del dio divenuto nutrimento sociale. Mai più evidentemente il sacro avrà significato il sociale. E dico che mai nessun grande scrittore ha espresso più potentemente l'atto spirituale che è come la sintesi dei riti e dei misteri innumerevoli per mezzo dei quali la società si è sforzata di legarsi al dio in cui essa si personifica.

Non ci resta che salutare molto in basso nel falsario anonimo uno scrittore di genio, e rimpiangere amaramente che il suo temperamento di grande poeta non lo abbia incitato ad una più ampia produzione, avendo così ben riuscito quella volta.

Secondo l'abate Turmel, [16] la spiritualizzazione dei corpi nella resurrezione è il mezzo impiegato da un interpolatore cattolico per attenuare il conflitto tra la resurrezione dei corpi e la resurrezione spirituale. Per un semplice falsario, ancora un regale successo! Altro esempio: allorché l'autore dell'epistola ai Corinti, capitolo 15, racconta come il Signore sia apparso a un tale, poi a un tale, poi a un tale, egli termina: «E dopo tutti è apparso a me, l'ultimo, come all'aborto». I grandi santi della Chiesa non sono dei nevrotici, genere romanzo russo, che in ogni momento si battono il petto gridando che sono dei miserabili. Ma ci si domanda quale anima possa avere il prete che non ha sentito che l'aborto è una di quelle parole sovrane che salgono a volte dalle viscere del poeta, ed osa immaginare che l'«aggettivo» sminuisca San Paolo.

Ed immediatamente attribuisce agli stessi geniali scrittori qualcuno di quei lamentevoli frammenti senza pensiero e senza stile, la cui mediocrità è tale che tradisce la sua inautenticità.

Spiegherò, nel prossimo capitolo, che le interpolazioni rilevate nelle epistole si riconoscono più spesso dalla povertà dello stile e del pensiero. Tutt'al contrario, gli esempi che ho appena citato (tra molti altri) ci costringerebbero a immaginare alcuni dei falsari che, secondo l'abate Turmel, avrebbero interpolato le epistole come una fioritura di poeti dotati dei più bei doni del genio letterario... — ma anche della più bassa mentalità manipolatrice, — senza dubbio, si dirà, perché il genio è talvolta accordato da una Provvidenza cieca a piuttosto spregevoli canaglie... 

È così che abbiamo visto l'istituzione eucaristica diventare una macchina da guerra a doppio grilletto diretta prima contro i Dodici, poi contro San Paolo. Per l'abate Turmel, si deve sempre scegliere tra due alternative: un testo è contro San Paolo o è contro i Dodici: [17] non è mai semplicemente quello che è.

...Genio letterario, mentalità manipolatrice, — e sconcertante stupidità (al fine senza dubbio di provare questa volta che il genio letterario e l'intelligenza non sono sempre uniti); perché la maggior parte di queste manovre sarebbero stupide.

La manovra che aveva per scopo di screditare il nome di San Paolo trattandolo da «aborto», sarebbe stata una manovra stupida, poiché, lungi dal sminuirlo, l'espressione ha gettato sulla sua testa un'aureola.

Altrove, mettendo egualmente sul conto del marcionismo le epistole di Sant'Ignazio, l'abate Turmel trova la prova della sua tesi nel fatto che l'opera è firmata Ignazio e Teoforo, cosa che spiega dicendo che l'editore, presentandola sotto il nome di Ignazio, avrebbe lasciato sussistere quello del suo vero autore Teoforo, il quale sarebbe stato il vescovo marcionita con questo nome... Si comprende che un critico così equilibrato come il signor Goguel non abbia potuto trattenersi dallo scrivere che, per un falsario, veramente, «sarebbe stato troppo stupido».

In una delle sue più divertenti commedie, il signor Tristan Bernard ha messo in scena un personaggio la cui specialità consiste nell'immaginare manovre complicate che, come era prevedibile, falliscono sempre. L'abate Turmel rappresenta gli autori delle epistole sotto le specie di questo fantoccio, con quella sfumatura, che costui avrebbe nello stesso tempo ricevuto dal cielo tutti i doni del genio poetico.

Manovre complicate, manovre stupide, e manovre che falliscono sempre!... che falliscono sempre, perché il nome di San Paolo non è stato sminuito dall'aborto; perché il prestigio dei Dodici non ha sofferto dal racconto dell'istituzione eucaristica; perché, altrettanto bene, il nome di San Pietro è uscito tanto indenne quanto quello di San Paolo dalle trappole che gli si avrebbe teso. E il giudizio della posterità su queste epistole che hanno in parte creato il cristianesimo dovrebbe essere, se l'abate Turmel avesse visto giusto, il tracollo di scelleratezze imbecilli.

Sappiamo quale guerra hanno potuto farsi i primi gruppi cristiani, e le invettive dell'Apocalisse contro i Paolini la testimoniano sufficientemente. Ma quella guerra è quella di profeta contro profeta; essa è terribile e grandiosa; nel passato, è Geremia che grida l'anatema; nell'avvenire, sono i roghi che divampano; da tutte le parti, rimbomba il tuono.

La guerra che suppone un abate Turmel è forse quella che ha visto perpetrarsi nelle sacrestie; ma io sto calunniando le sacrestie; la guerra che un Turmel immagina tra i primi cristiani è una guerra di malefatte imbellettate e di bassezze.

Non è così che si è fondato il cristianesimo. Le anime che vivono nelle epistole, nell'Apocalisse e nei vangeli sono anime segnate dalla furia di Dio e dal genio. Mi si permetterà di concludere dicendo che le epistole non sono state scritte da una banda di cattivi preti che si nascondono sotto un assortimento di falsi nomi.


Quando nuovi metodi sono venuti alla luce, a poco a poco, attraverso un lavoro progressivo e controllato, quando il tempo (più di mezzo secolo!) ha provato che non si tratta di una moda passeggera, ma di un rinnovamento fondato sull'evoluzione stessa dei principi della conoscenza, è terribilmente pericoloso chiudere la propria porta e rinchiudersi, come a piacere, nell'esasperazione di vecchie pratiche che, per il fatto stesso di essere trascurate, arrivano a non più rappresentare che i peggiori errori dell'intelligenza.

Un uomo che le circostanze (e anche forse la sua imprudenza) hanno più o meno legato alla causa dell'abate Turmel, e che nel profondo del suo cuore ha saputo giudicarla, ma che ritiene (e questo lo onora) che sarebbe viltà abbandonarla, domandò un giorno che non si dimenticasse ciò che gli studi paolini gli dovevano.

So perfettamente tutto ciò che si deve all'antica critica testuale stessa, e ai dotti antropologi, etnografi e sociologi che ne hanno rinnovato i metodi; so anche che si deve ad Harnack di aver attirato l'attenzione sul ruolo di Marcione; so quanto si deve ad un Reitzenstein e ad un Loisy, così come ad una serie di studiosi, gli uni celebri, gli altri meno noti, di cui non devo stilare qui la lista; quanto a ciò che gli studi paolini devono all'abate Turmel, lo so perfettamente; egli sarà stato, qualunque fosse peraltro la sua erudizione e qualunque fosse il suo talento, colui che ha fatto vedere agli studiosi dove può condurli, non l'abuso dell'alcol di cui io sono convinto che nessuno ne abusa, ma l'abbandono di sé all'intossicazione della vecchia critica razionalista.

Non è un qualunque bisognoso colui che avrà potuto dare, e con quella grandezza, una tale lezione! 

NOTE

[1] Non solo nelle sue precedenti opere sul cristianesimo primitivo, il Quatrième Evangile et le Lettres d'Ignace d'Antioche, ma nei suoi stessi Ecrits de saint Paul.

[2] Delafosse, Ecrits de Saint Paul, I, pagine 10 e seguenti. 

[3] Delafosse, Ecrits de Saint Paul, IV, pagine 37-38.

[4] Delafosse, Ecrits de Saint Paul, I, pagine 24-37.

[5] Ecrits de Saint Paul, II, pagina 70.

[6] Ibidem, pagine 69 e seguenti.

[7] 1  Corinzi 12:7 e seguenti.

[8] Romani 8:26.

[9] Louis Coulange, Messe, pagina 47.

[10] Sempre il colpo di spugna. Quella «dichiarazione» non si trova da nessuna parte.

[11] Coulange, Messe, pagina 47.

[12] Nello studio citato, le Origines de la Cène, il signor Loisy aveva già concluso contro l'abate Turmel per l'impossibilità di dissociare l'espressione «Questo è il mio corpo» dal contesto. Ricordiamo tuttavia che il nostro scopo qui non è di fare quella dimostrazione contro l'abate Turmel, ma di analizzare il suo metodo e il suo spirito.

[13] Ecrits de Saint Paul, II, pagina 5.

[14] Pagina 159.

[15] Ecrits de Saint Paul, III, pagina 39.

[16] Ibidem, II, pagina 124.

[17] Ibidem, II, pagina 118. 

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