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I
IL CRITERIO ESTETICO E SPIRITUALE
Lo studio dell'autenticità delle epistole, come di ogni opera importante, deve cominciare con una sorta di presa di conoscenza intuitiva, che potrà evidentemente essere utile solo alle persone che possiedono le nozioni necessarie di storia politica, di storia delle religioni e di sociologia, ma che non si eserciterà con i mezzi dell'erudizione.
È beninteso, tuttavia, che vi sarà là solo una sorta di prefazione allo studio accademico. «L'intuizione», ha detto un celebre specialista della psicologia, «è buona solo quando si può mostrare che anticipa i risultati della scienza». [1] Vale a dire che, prima di ricorrere ai mezzi dell'erudizione, lo studioso, se consente ad essere qualcos'altro rispetto ad un uomo sepolto nei libri e chiuso ad ogni vita vivente, dovrà impiegare il criterio stesso che impiega istintivamente ogni persona colta che legge le epistole con tutta la sua attenzione e con tutto il suo fervore; e questo è il doppio criterio estetico e spirituale.
Quando parlo di valore estetico, mi si farà l'onore di credere che non intravedo altro che espressione potente di pensiero profondo; la forma non è nulla senza la sostanza; la sostanza prende una realtà solo in quanto riveste la forma adeguata; entrambi, figli gemelli e inseparabili del genio. Altrettanto evidentemente, quando parlo di valore spirituale, non si può parlare che dell'intensità di vita sublimata che sale dal subconscio delle grandi anime religiose. Tutto consiste nel sapere se si può, senza i soccorsi dello studio scientifico dei testi, distinguere una pagina di Pascal e una pagina di un qualunque Settimanale Religioso.
Tuttavia, dalla prima lettura, un'impressione si delinea dalle epistole, che può rafforzarsi solo ad un esame approfondito. Non si è tanto arrestati dall'esistenza di dottrine diverse le cui contraddizioni si spiegano con la natura stessa del genio dell'autore, quanto colpiti dal vedere succedersi, da una parte, le pagine che rivelano indiscutibilmente il genio di un creatore religioso così come di un possente scrittore (vale a dire un pensiero profondo espresso con un'intensità talvolta fulminea, benché barbara, e nello stesso tempo una ricchezza di vita spirituale che si riscontra solo tra i più grandi mistici) e, d'altra parte, le mediocrità che arrivano talvolta fino alla banalità, talvolta fino ad un rimasticamento di luoghi comuni.
Per rendersi conto della bellezza e della potenza di certe pagine delle epistole, è evidente che uno sforzo è necessario, non solo perché San Paolo scrive in un linguaggio barbaro, il quale non è peraltro di dispiacere alle nostre giovani scuole poetiche (si veda l'esempio citato a pagina 69), ma anche perché il suo vocabolario, essendo stato adottato dalla teologia tradizionale, ha assunto per noi un aspetto ecclesiastico e arcigno ed evoca un'atmosfera la più lontana possibile dalle preoccupazioni contemporanee, infine perché gli studiosi indipendenti, continuando ad usare questo gergo, sembrano compiacersi a scoraggiare la curiosità dei letterati; ma si traducano queste dissertazioni sulla «giustificazione» o sulla «parusia» in linguaggio ordinario, e si vedrà che forse mai delle vedute più profonde sono state espresse su ciò che chiameremmo oggi i problemi vitali dell'uomo, della società e della Rivoluzione. Quanto alle pagine mediocri, le si traducano in lingua moderna o le si lascino tali e quali, rimangono quello che abbiamo appena detto: il perfetto esempio del rimasticamento pseudo-religioso; Lascio ai miei lettori il facile divertimento di leggere ad alta voce in tono predicatorio le esortazioni moralizzanti che costellano la raccolta. Cosicché le epistole appaiono, per una parte, come una delle più grandi cose dell'umanità, e, per un'altra, come la più lamentevole delle elucubrazioni.
Ora, una tale dualità non si troverà né in Pascal, né in alcuna mente superiore, ed è singolarmente più difficile da capire delle variazioni di dottrine. Un Renan può dire bianco oggi e nero domani, egli non è mai un Léo Taxil.
Basterà applicare a San Paolo il bonus dormitat Homerus ? No, la differenza di qualità tra i frammenti è troppo considerevole per credere alle semplici debolezze di un grande uomo. Non si tratta di pagine riuscite e di pagine che lo sono meno; si tratta di pagine che denotano una miserabile mentalità, in mezzo a pagine che portano il marchio di un'anima eccezionale. Tra questi estremi, la presenza di pagine di cui non si può dire né che sono mediocri né che sono geniali non potrà mancare di trovare la sua spiegazione.
Prima di andare più oltre, un esame sommario permette di rendersi conto del modo in cui si ripartiscono questi frammenti così differenti. Alla categoria del «genio» appartengono, da una parte, i passi che trattano di questioni personali e, in particolare, quelli in cui l'apostolo difende la sua opera, e, d'altra parte, quelli che si rapportano a ciò che si è convenuto chiamare il paolinismo e che rappresenta qualcuno dei contributi religiosi più profondi dell'umanità. Così si può immediatamente inferire che i passi dottrinali sono della stessa mano di quelli riguardanti le questioni personali; è lo stesso genio letterario che si esprime; è la stessa anima... La questione sarà, per gli studiosi, di verificare se è lo stesso linguaggio e lo stesso stile.
Al contrario, le mediocrità si riscontrano in certi sviluppi ispirati da ciò che doveva divenire l'ortodossia corrente, nei luoghi comuni di moralizzazione a tutto campo, in certe glosse esplicative che non possono venire che da un commentatore mediocre, a meno che non siano dei ritocchi intenzionali.
Se una grande mente e uno o più mediocri sembrano così aver collaborato alle epistole, la questione di priorità non può porsi da qualcuno che ha il minimo senso dei valori estetici e spirituali. Non si immagina che un uomo di genio abbia ripreso, per farla sua, un'opera sprovvista di significato e di interesse; non si immagina neppure che un «editore», componendo un tutto con i frammenti provenienti da autori diversi, sia stato a cercare indietro nel tempo alcune pagine insignificanti per incorporarle nel mezzo di pagine ammirevoli che dessero alla nuova religione la sua espressione. Una sola cosa è concepibile, ed è quella che si è vista sempre e dappertutto: la mediocrità che deposita attorno al genio il suo lichene.
Altre considerazioni si aggiungono immediatamente alle precedenti per impedirci di ammettere che il contenuto primitivo e originale delle epistole sia consistito in alcune brevi note insignificanti che l'apostolo avrebbe indirizzato alle comunità che aveva fondato. Senza dubbio San Paolo non aveva da ripetere nelle sue epistole ciò che insegnava verbalmente ai suoi fedeli; ma equivale a ignorare crudelmente la psicologia di un fondatore di comunità supporre che gli sia possibile, scrivendo a quelle, non ritornare senza posa sulle grandi idee da cui è posseduto. Tutto ciò che si può concedere è che l'abbia fatto per capriccio delle circostanze, e questo è più precisamente il caso delle epistole.
Ma vi è di più. Sappiamo oggi che le epistole sono scritte in stile ritmico ed erano destinate ad essere lette solennemente, se non devotamente; e tale è proprio l'impressione che danno oggi a chi lascia la loro voce cantare nel profondo della sua anima. Un tale costume potrebbe comprendersi di comunicazioni dove l'apostolo si sarebbe limitato ad annunciare il suo prossimo arrivo e a regolare, nel frattempo, alcuni dettagli pratici?
Così il criterio estetico e spirituale ci conduce ad accordare la priorità alla «grande mente» e a vedere nelle mediocrità il contributo tardivo di interpolatori. Ma questa «grande mente» non sarebbe, come vorrebbero i critici estremisti, un agglomerato o piuttosto una successione di grandi menti, essendo il nome di San Paolo la firma di una famiglia di scrittori anonimi?
In realtà, l'ipotesi di una serie di uomini di genio che si alternano nel corso di tre generazioni per aggiungere ciascuno alcune pagine all'opera del predecessore e limitando la loro attività a quella sorprendente collaborazione, è una di quelle concezioni che possono solo edificare degli studiosi che perseguono i loro esperimenti nel vuoto, al di fuori di ogni vita vivente. Essa è praticamente così inimmaginabile che occorrerebbero prove infinitamente possenti per prenderla in considerazione; ma le prove che se ne danno, sappiamo in cosa consistono: dottrine contraddittorie che rivelano scrittori diversi! Non vi ritorneremo.
Quella assenza di prove serie, congiunta all'inverosimiglianza della concezione, basta a chiunque si sforzi di realizzare le idee, per scartare la possibilità di scrittori molteplici; il carattere di realtà vissuta che hanno le epistole confermerà la conclusione.
Uno studio speciale sarebbe necessario per studiare come questo carattere di realtà vissuta differenzi la maggior parte delle grandi opere letterarie dalle epistole. La cosa interessando alla comprensione di quelle, noi riassumeremo in poche parole la nostra tesi, riservandoci di trattarla più completamente altrove.
Dal punto di vista estetico e letterario, le figure di Gesù, di Amleto, del Padre Goriot, del signor Bloom, così come si delineano dalle opere in cui sono descritte, sono tanto vere, tanto vive, quanto quelle di San Paolo, di Jean-Jacques, di Luigi XIV, così come quest'ultime si delineano dalle epistole, dalle Confessions (qualunque menzogna Jean-Jacques vi abbia seminato), dalle memorie di Saint-Simon. Queste si distinguono da quelle in quanto le prime danno la sensazione di una realtà creata dallo scrittore, e le seconde di una realtà autenticamente vissuta. Tra loro vi è tutta la differenza che separa le creazioni dell'intelligenza e le creazioni della natura.
L'analisi mostrerebbe che, nelle prime, si riscontrerà sempre una composizione, vale a dire una volontà di ordine, una scelta, una messa in opera, e che nelle seconde è il caso, l'illogicità, la contraddizione che domina; perché più che mai la caratteristica del reale è di contraddire sé stesso. Le prime di queste figure risultano naturalmente dai fatti che sono raccontati e che hanno precisamente per scopo di raffigurarle; le seconde, per un mistero dove l'irrazionale gioca il ruolo principale, sono talvolta in opposizione con loro. Lì, la realtà è addomesticata dallo scrittore; qui, essa sfugge al suo controllo.
Vedete i vangeli; l'insieme di ciascuno di loro è certamente sprovvisto di composizione; ma ciascun episodio, preso isolatamente, è al contrario eminentemente composto, e una frase non vi si riscontra che non sia asservita alla servitù dello scopo. Siccome l'autore del più antico tra loro è stato un grande poeta, una figura poetica si delinea; ma con tutto il suo pathos quella figura obbedisce ad un programma. Vedete ora San Paolo; lui è la cosa reale e le sue avventure; San Paolo non è un tipo, è un uomo; le epistole non sono un'opera, sono dei momenti della vita di quest'uomo.
Evidentemente si può immaginare uno scrittore abbastanza potentemente dotato da ottenere con l'artificio questo effetto di realtà, e il signor James Joyce ci è pressappoco riuscito. Ma si confesserà che una tale volontà di super-realismo è inconcepibile tra gli scrittori del Nuovo Testamento.
Si potrebbero ancora addurre casi in cui, sotto un nome fittizio e in circostanze concordate, lo scrittore dipinge il ritratto di un modello reale, come M. de Charlus. Ma si converrà, ancora una volta, che noi siamo agli antipodi della letteratura cristiana primitiva.
Da questo punto di vista, il San Paolo delle epistole non sembra poter essere un San Paolo reale, e quella impressione, se confermata, basterà a stabilire l'autenticità dell'opera dove egli dice IO, — intendo sempre: delle parti dell'opera dove veramente egli dice IO.
Il criterio estetico e spirituale permetterà dunque: principalmente, di discernere nelle epistole ciò che appartiene ad un uomo dotato nel contempo del genio letterario e della più elevata spiritualità, nel mezzo delle mediocrità che vi si sono state interpolate; e, secondariamente, di concludere che l'insieme di tutto ciò che è caratterizzato da questo genio e quella spiritualità è l'opera unica di San Paolo stesso.
Le parti dottrinali delle epistole, che espongono ciò che si chiama il paolinismo, e le parti autobiografiche appaiono, in ogni caso, come un blocco, il quale si costruisce, si situa, si autentica esso stesso, e tutte le razionalizzazioni non possono nulla contro il suo diamante. L'errore maggiore, la colpa irremissibile di alcuni degli studiosi che si sono abbandonati alla dissezione delle epistole, il «peccato contro lo spirito», è di non aver visto l'abisso che separa il mondo di bellezza e di grandezza spirituale dove vivono tali passi, e le paludi di volgarità dove tali altri si arenano. Non vi è storia delle origini cristiane possibile per chi non avrà sentito nel suo cuore l'originalità fremente dell'opera di San Paolo. E questa è una cosa, non sorprendente, ma deplorevolmente triste, che si possa leggere la serie di libri dedicati alle epistole da chissà quale dei nostri critici estremisti, senza che una parola (salvo quella, così derisoria, che abbiamo citato) lasci trapelare che egli sia mai stato toccato dalla potenza di una formula, dalla profondità di un pensiero, e che, anche dal suo punto di vista di critico interno, egli non abbia sospettato che il valore estetico e morale di un frammento fosse un elemento di cui occorresse tenere conto. Per costui, evidentemente, il criterio estetico e spirituale non entrerà mai in gioco.
Per quanto potente, per quanto decisiva possa essere l'impressione che ci dà la lettura delle epistole, quella impressione potrà diventare tuttavia una prova formale solo se sia confermata dallo studio erudito e prima di tutto dalla filologia.
In un certo senso, si può dire che il criterio filologico è il seguito necessario del criterio estetico e spirituale; più esattamente, è lo stesso criterio nell'ordine dell'erudizione. Verificare i dati, insomma intuitivi, che ha fornito l'esame estetico e spirituale di un libro, equivarrà dunque a studiarlo dal punto di vista filologico, essendo la prima legge della filologia che ad ogni scrittore e ad ogni epoca corrisponde un certo stile che può analizzarsi con i mezzi tecnici più precisi, oltre che essere percepito dalla semplice intuizione.
Partiti di là, si sa a quali risultati l'esame filologico di un testo può portare i veri studiosi. Studiando le parole e le locuzioni che usa, le frasi che costruisce, è nell'anima stessa di uno scrittore che si penetra. E noi dobbiamo alla verità aggiungere che se studiosi come i signori Whittaker e Rylands sono caduti negli errori della critica interna, essi devono alle loro qualità di filologi e al loro senso del valore dello stile la posizione eminente che, malgrado questi errori, essi mantengono negli studi paolini.
Così concluderemo che un posto può essere accordato alla critica interna tra gli strumenti dell'indagine scientifica solo alla condizione esplicita che essa si appoggi sulla filologia e faccia entrare nei suoi elementi di apprezzamento il valore estetico e spirituale dei testi.
NOTE
[1] E. Claparède, Archives de Psychologie, febbraio 1912, volume 12, pagina 21.
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