(segue da qui)
II
I FATTI DELLA STORIA
Vorremmo tentare qui di verificare le nostre conclusioni nello stesso tempo che quelle dei critici estremisti, e quelle in particolare dell'abate Turmel, alla luce dei fatti che ci sono dati dalla storia. L'errore di questi critici, l'abbiamo visto, è di limitarsi alle analisi di laboratorio e di studiare le reazioni chimiche dei testi gli uni sugli altri al di fuori delle circostanze della vita vissuta. Si potrebbe sostenere che le epoche sono rare in cui si sussiste qualche luce sulle circostanze che si riferiscono alla storia dei testi; ragione di più per concentrarci su quelle dove noi possediamo delle informazioni, se non sulla maniera in cui sono stati composti i libri, almeno sulle vicissitudini che hanno subìto prima di trovare la loro forma definitiva.
Si sa che a partire dalla morte di San Paolo le più profonde tenebre circondano la storia delle epistole; e ciò stesso ha fornito al signor Benjamin Smith, specialmente per ciò che concerne l'Epistola ai Romani, un argomento contro l'autenticità. Saeculi silentium, scrive il signor Benjamin Smith... Saeculi è leggermente esagerato; è ottant'anni che si deve dire. Esattamente ottanta, se San Paolo è morto nel 64; perché è nel 144 che le epistole appaiono, per la prima volta, nella piena luce della storia, l'anno della scomunica di Marcione, il quale si trova ad essere il primo punto di riferimento che possa usare la critica paolina.
Fino ad allora, cosa era successo? Si conosce la tesi tradizionale: [1] le comunità avevano conservato gli originali o le copie delle epistole che avevano ricevuto, e spesso se le erano comunicate tra loro. Intorno all'anno 80 o 85, vale a dire una ventina di anni dopo la morte dell'apostolo, diverse collezioni sarebbero state formate simultaneamente in queste comunità, collezioni che non sarebbero state tutte necessariamente complete e non avrebbero necessariamente seguito lo stesso ordine. Come prova (e la critica indipendente sarà obbligata ad accontentarsi di poche): le poche allusioni che si trovano nei Padri Apostolici.
Il signor Goguel ha ripreso lo studio nella sua Introduction au Nouveau Testament. [2] Egli stabilisce che l'esistenza della raccolta non è attestata prima della seconda metà del secondo secolo. Per l'epoca precedente, riconosce che le allusioni dei Padri possono riferirsi ad epistole rimaste isolate, e, pur dichiarando che non sappiamo nulla delle condizioni nelle quali si è costituita la raccolta, propone, ma a titolo di impressione personale, la data del 90.
Nello stesso periodo Harnack, in un opuscolo in cui riproduceva le conferenze tenute a Munster, [3] concludeva per l'esistenza di due raccolte originali: la raccolta breve, comprendente dieci epistole, attestata da Marcione; la raccolta lunga, comprendente le tredici epistole tradizionali, che egli riteneva più antica e che considerava attestata dai Padri Apostolici.
Tutto ciò è peggio che congetturale. In realtà, un solo fatto è attestato e storicamente certo, ed è che tra il 139 e il 144 Marcione compila una raccolta di dieci epistole che chiama l'Apostolicon nello stesso tempo in cui stabilisce sotto il nome di Evangelion un testo del vangelo secondo San Luca e scrive il commentario che intitola le Antitesi.
In queste condizioni, non sembra che vi sia molta imprudenza nel presumere che Marcione abbia compilato per primo una collezione delle epistole dell'apostolo, e nel lasciare all'Apostolicon la qualifica che il signor Couchoud gli ha accordato di «prima edizione di San Paolo». [4] Si tratterà di verificare se ciò che conosciamo della storia della Chiesa e dell'attività del celebre eretico conferma quella presunzione.
Ma la questione importante non è tanto sapere se esistette delle epistole una raccolta breve e una raccolta lunga, neppure se una raccolta qualunque fosse stata compilata prima dell'arrivo di Marcione; è sapere in quali rapporti l'Apostolicon si trovava con le epistole stesse, che queste fossero o non fossero già state riunite precedentemente in una raccolta; vale a dire, determinare non solo se l'Apostolicon sia la prima edizione delle epistole, ma anche se sia più conforme al loro testo primitivo e autentico. Questo è il problema che il signor Couhcoud, nello studio che abbiamo appena menzionato, ha trattato per mezzo della critica dei testi, e che noi tenteremo di riprendere seguendo un altro metodo.
Così arriveremo forse a determinare l'importanza dei frammenti non autentici che può contenere il textus receptus delle epistole.
La somiglianza delle dottrine esposte nelle epistole e delle dottrine professate da Marcione implica tra la mentalità di costui e quella di San Paolo punti di contatto che bastano a spiegare non solo l'attrazione che le epistole avrebbero esercitato sulla mente dell'eretico, ma lo zelo con il quale avrebbe desiderato conoscere e avrebbe ricercato quelle che non possedeva.
Che esistette nella sua città natale, a Sinope, una comunità cristiana intorno all'anno 100, nulla è più probabile; senza dubbio l'evangelizzazione era stata l'opera di un discepolo di San Paolo piuttosto che di un discepolo di San Pietro, essendo Sinope in relazioni marittime costanti con le città evangelizzate da San Paolo e avendo col territorio interno solo comunicazioni difficili. È quindi probabile che il nome di San Paolo vi sia stato conosciuto, ed è possibile che una copia di una o più delle sue epistole vi sia stata recata. Se si ammettesse, al contrario, che le epistole e il paolinismo stesso, e persino il nome di San Paolo, fossero stati sconosciuti a Sinope, non vi sarebbe niente che ci impedisca di concepire come il giovane Marcione avrebbe potuto prenderne conoscenza. Di mestiere, Marcione era navigatore, [5] e questo solo fatto spiegherebbe come gli fosse possibile, nel corso dei suoi viaggi, entrare in relazioni con le comunità che avevano ricevuto le lettere dell'apostolo o ne possedevano delle copie, e che egli trovò stabilite nei porti di Macedonia, di Grecia e di Asia Minore.
Possiamo determinare a quale data? Marcione non è un convertito; è stato allevato nel cristianesimo; i fatti possono datarsi solo dalla sua giovinezza o dall'inizio della sua maturità, diciamo tra gli anni 120 e 130.
Così si troverebbe prima di tutto attestata l'esistenza delle epistole, tra gli anni 120 e 130, sia in originale sia piuttosto in copia, nelle comunità che le avevano ricevute o che ne avevano ricevuto comunicazione. Senza pretendere che esse vi siano state tenute per «scritture sacre», e anche ammettendo che la gloria dell'apostolo abbia subito un'eclissi, è lecito supporre che fossero state conservate, se non sempre con perfetta cura materiale, almeno con un certo rispetto; senza cui sarebbero ovviamente scomparse. Tutto il problema sarà sapere in cosa consistevano e fino a qual punto potevano differire, tanto per la loro forma che per le loro dimensioni, dal testo più tardi stabilito.
Un'ipotesi resta però possibile. Marcione non avrebbe affatto trovato le epistole nelle comunità, sia perché egli le avrebbe interamente fabbricate (lui stesso o qualcuno dei suoi), cosa che a mia conoscenza non è stata sostenuta da nessuno studioso, sia perché le avrebbe ricevute da eretici, in particolare da Cerdone, nello stesso tempo del vangelo e degli elementi della sua dottrina, fantasia che potrebbe appoggiarsi all'asserzione di certi Padri... Vedremo per il seguito se, in un modo o nell'altro, quella doppia ipotesi può essere mantenuta.
Comunque gli anni passano; Marcione a poco a poco elabora la sua dottrina, e comincia a insegnarla.
Non riesce a convincere né suo padre, né i suoi compatrioti ed è espulso dalla comunità di Sinope. Si rivolge allora alle comunità dell'Asia e non vi ottiene maggior successo.
Dall'Asia Minore viene a Roma, dove arriva il primo anno del regno di Antonino, nel 139. Harnack stima che le condanne pronunciate contro di lui in Asia vi fossero sconosciute; in ogni caso, non impedirono alla comunità romana di accoglierlo e di ricevere dalle sue mani un dono di 200.000 sesterzi.
Non va perso di vista, d'altra parte, che Marcione, come la maggior parte dei grandi riformatori, non ebbe alcuna intenzione di separarsi dalla Chiesa, che sperava di portare alle sue idee. Secondo ogni probabilità, egli dovette prendere a Roma più precauzioni di quante ne avesse prese in Asia per non urtare la comunità.
Harnack ha benissimo spiegato che i cinque anni che passò a Roma prima di esservi scomunicato furono impiegati da lui per il lungo lavoro che forse aveva iniziato prima, ma che poté terminare solo là. Invece di esporre la sua dottrina al capriccio delle discussioni, volle, prima di sottoporla alla Chiesa, coordinarla, giustificarla, legittimarla, stabilendo che fosse quella stessa delle epistole e del vangelo; ed è così che tra il 139 e il 144, compilò o completò di compilare la sua edizione dell'Apostolicon e dell'Evangelion e scrisse le Antitesi. Non dimentichiamo, inoltre, che allorché arrivò a Roma, è già quello che gli antichi chiamavano un vecchio.
Riassumiamo i fatti.
Prima fase. — Prende copie delle epistole dalle comunità che le possiedono, ciò nel corso dei suoi viaggi come navigatore, e prima del suo arrivo a Roma, dove prende una copia dell'epistola ai Romani, se non la possedeva già per allora.
Seconda fase. — Ne compila la raccolta, nello stesso tempo in cui scrive o completa l'Evangelion e le Antitesi, tra il 139 e il 144.
Terza fase. — Nel 144, presenta la sua opera alla comunità: dottrina e giustificazione. La Chiesa condanna la dottrina dichiarando che essa non si deduceva per nulla dai testi che erano invocati, vale a dire condannò Marcione ma intese conservare San Paolo e San Luca.
Abbiamo segnalato poco fa l'ipotesi secondo la quale Marcione non avrebbe affatto trovato le epistole nelle comunità, o perché le aveva falsificate (lui stesso o qualcuno dei suoi) o perché le aveva ricevute da eretici precedenti. Secondo quanto abbiamo appena esposto, egli avrebbe in questo caso presentato alle comunità, e in particolare a quella di Roma, degli scritti di cui queste non avrebbero mai sentito parlare o che ne avrebbero sentito parlare solo attraverso il canale di questi eretici, — e ciò con lo scopo di raccomandarsi presso queste comunità! Quella sola osservazione basterà a farla scartare senza altra discussione. Altrettanto bene, ripetiamo, i critici estremisti si limitano ad asserire che Marcione aveva corretto e interpolato testi già esistenti.
Dai fatti che abbiamo riportato, concludiamo quindi:
1° Che, sotto una forma o sotto un'altra, delle lettere esistevano nelle comunità e vi passavano per essere state scritte da San Paolo;
2° Che, quale che sia la forma sotto la quale esistevano, esse non potevano consistere in fatti insignificanti e non potevano mancare di avere una certa importanza;
E 3° che il nome di San Paolo aveva conservato nella comunità una posizione, se non di primo piano, almeno onorata, e non era caduto nell'oblio o nel discredito che hanno preteso alcuni critici.
Altrimenti, da una parte, Marcione non avrebbe potuto raccomandarsi da sé e domandare alla sua opera la sua giustificazione; e altrimenti, d'altra parte, le epistole, invece di essere trattenute dalla Chiesa, sarebbero cadute nella scomunica pronunciata contro l'eretico.
La domanda si pone ora: fino a qual punto la raccolta compilata da Marcione riproduceva i testi che possedevano le comunità? [6]
Si sa che l'Apostolicon è stato perduto; ma i Padri hanno polemizzato così abbondantemente contro il marcionismo che è stato possibile al signor Zahn, e poi ad Harnack, stabilire, rilevando tutti i passi citati o analizzati da loro, una quasi ricostruzione. [7]
La raccolta di Marcione comprendeva le prime dieci epistole della raccolta attuale ma non comprendeva le Pastorali; inoltre, il testo delle prime dieci presentava notevoli varianti con il nostro ed era sensibilmente più corto. Il problema si precisa dunque così come segue:
1° Marcione ha corretto il testo primitivo, come affermano i Padri, oppure la Chiesa ha corretto il testo presentato da Marcione?
2° Marcione ha eliminato nel testo primitivo oppure la Chiesa ha aggiunto al testo presentato da Marcione?
A queste due questioni si aggiunge necessariamente una terza; benché il testo dell'Apostolicon sia più breve del testo attuale, non è affatto escluso che Marcione, pur sopprimendo certi passi, non ne abbia aggiunti altri, quelli stessi dove l'abate Turmel riconosce la sua mano o la sua influenza; così si pone la terza questione:
3° Marcione ha aggiunto al testo primitivo?
Si osserverà sin da ora che, per attribuire all'Apostolicon un'autenticità superiore al testo ricevuto, abbiamo da fare una campagna su due fronti; abbiamo, in effetti, da confutare: da un parte, le tesi tradizionali che rappresentano Marcione come colui che aveva corretto e abbreviato l'opera primitiva; d'altra parte, la tesi estremista che fa di lui (o uno dei suoi contemporanei) l'autore di una parte di quell'opera.
Per ciò che concerne l'esame filologico e storico dei testi, il quale oltrepasserebbe di molto lo scopo di questo studio, rimandiamo a quello già citato del signor Couhcoud, dove costui ha stabilito, in un modo che sembra generalmente convincente, che in cinquantacinque passi il testo dell'Apostolicon è anteriore al testo attuale; detto altrimenti, che in cinquantacinque passi Marcione non è il falsificatore. Che se dei cinquantacinque casi studiati alcuni possono apparire meno convincenti, ne rimangono abbastanza per fondare una seria presunzione.
Studieremo la questione da un altro punto di vista; e, prima di tutto, da quello delle possibilità storiche.
Nessuno studioso oggi nega che Marcione sia stato uno spirito profondamente religioso, ma nessuno contesterà neppure che i credenti più sinceri non si siano fatti alcun scrupolo nel ritoccare i testi. Si ammetterà dunque che Marcione abbia potuto, con tutta la sua buona fede, ritenere che certe frasi che leggeva nelle epistole fossero interpolazioni ispirate da Satana, che bisognava far sparire, e che altre, semplicemente travisate, dovevano essere corrette o spiegate dalle poche parole che mancavano. Il problema è sapere in quali proporzioni la cosa fosse possibile.
Non abbiamo potuto immaginare precedentemente che Marcione abbia presentato alla Chiesa, come l'opera di San Paolo, una raccolta di epistole di cui nessuno avrebbe mai inteso parlare, e che avrebbe creato lui stesso di sana pianta o ricevuto da eretici come Cerdone. Pretendere che egli abbia presentato loro, per appellarsi ad esso, un testo diverso da quello che essi possedevano è una cosa concepibile, se si trattasse di qualche parola, nonché di qualche frase modificata, soppressa o aggiunta. Che Marcione abbia addirittura ricusato frammenti interi come non provenienti da San Paolo, la cosa si immagina ancora. Ma poteva presentare, come facente parte delle epistole, frammenti considerevoli che non sarebbero esistiti nelle copie che possedevano le comunità, e, seconda questione, se li avesse presentati, le comunità li avrebbero potuto accettare? Ecco ciò che, a prima vista, sembrerà difficilmente ammissibile.
Si vede che se le accuse portate contro Marcione dalla Chiesa sembrano a prima vista ammissibili, ne è difficilmente lo stesso di quelle in cui sarebbe incorso se la tesi dell'abate Turmel corrispondesse a qualche realtà.
Si perde troppo facilmente di vista, in effetti, che l'abate Turmel attribuisce a Marcione (o a uno dei suoi), non alcuni frammenti, ma la maggior parte dell'Apostolicon; il numero di frammenti che lascia a San Paolo è infimo; il numero di quelli che dichiara marcioniti è considerevole. La sua tesi non differisce dunque molto da quelle che vorrebbero che Marcione abbia presentato alle comunità un San Paolo interamente fabbricato. In realtà, portare un libro i cui tre quarti sono nuovi non è più una ricostruzione, è una scoperta.
Bisogna rendersi conto delle cose in un modo concreto. Se si rilevano nei piccoli libri dell'abate Turmel il numero di righe del testo che egli dà come primitivo e il numero di righe dell'insieme del testo che egli dà come quello compilato da Marcione (comprese, beninteso, le parti antiche che egli avrebbe raccolto), si constata, per la prima ai Corinzi, che l'epistola primitiva avrebbe comportato circa quattro delle nostre pagine e l'edizione marcionita diciotto, vale a dire che Marcione avrebbe presentato alle comunità un testo quattro volte e mezzo più lungo di quello che esse possedevano. Per l'Epistola ai Romani, lo scarto è minimo ma ancora enorme: testo antico, tredici pagine; testo marcionita, ventisette.
Immaginiamo la situazione. La comunità possiede un'epistola stabilita su un piccolo rotolo di ottanta centimetri; Marcione, se non la possedeva già, ne prende una copia, e qualche tempo dopo ritorna con la stessa epistola stabilita su un rotolo di due metri; se, possedendo già un esemplare del testo primitivo, non ha avuto bisogno di prendere una copia, porta alla comunità che possiede l'epistola su ottanta centimetri un testo su due metri; e in entrambi i casi fa la stessa dichiarazione:
— Ecco la vera epistola dell'Apostolo!
Questa è davvero una scoperta, qualcosa di analogo a quella del Deuteronomio da parte del sommo sacerdote Hilkia.
Aggiungiamo che il fatto si sarebbe verificato non solo nella comunità di Roma, ma ovunque Marcione avrebbe portato la sua «edizione» delle epistole. Solo può già concepire una tale improbabilità, il critico che nel suo studio gioca con i testi come con i pezzi di un puzzle, senza alcuna cura di ciò che ha potuto accadere nella realtà; ma quella prima improbabilità non è niente in confronto a quelle che seguiranno.
Queste enormi novità che i Marcioniti non avrebbero temuto di presentare come provenienti da San Paolo, la comunità romana e anche tutte le comunità cattoliche le avrebbero accettate, poiché figurano nel textus receptus; l'abate Turmel precisa addirittura: esse le avrebbero accettate, non più tardi, a poco a poco, per infiltrazioni lente, ma immediatamente; sembra dire: nel momento stesso in cui le si sarebbe portate a loro.
E il fatto non si sarebbe verificato unicamente per le epistole. Sappiamo che l'abate Turmel dà come creazione marcionita il passo della prima epistola ai Corinzi, 11:23-25, dove San Paolo racconta come Gesù ha istituito l'Eucarestia. Trovandosi questo passo anche nell'Evangelion, vale a dire nell'edizione marcionita del vangelo secondo San Luca, eccoci obbligati a immaginare i Marcioniti che portarono e la comunità cattolica che ricevette e fece suoi: 1° dei passi sconosciuti di San Paolo e cosiddetti ritrovati, e 2° dei passi egualmente sconosciuti del vangelo ed egualmente ritrovati.
Quanto ai vangeli secondo San Matteo e secondo San Marco, avrebbero dovuto beneficiare dello stesso arricchimento; poiché i testi dell'istituzione eucaristica vi sono attestati pochi anni dopo il 144 da San Giustino. Ma ci atterremo ai testi marcioniti delle epistole e (per ciò che è dell'istituzione eucaristica) a quello di San Luca, che avrebbe benevolmente accettato e fatto suoi la chiesa cattolica.
Il problema è spiegare come un tale prodigio ha potuto realizzarsi, perché non si tratta solamente della quantità ma della qualità di queste novità.
Due alternative sono da esaminare: la cosa si sarebbe verificata prima della scomunica, vale a dire tra il 139 e il 144, oppure si sarebbe verificata dopo, vale a dire negli anni che seguirono il 144. Nei suoi Ecrits de Saint Paul e nella Messe, [8] l'abate Turmel dice: prima... In un articolo appena precedente e non corretto da lui, [9] egli dice: dopo... Forse il suo pensiero è: prima e dopo?...
Esaminiamo innanzitutto la prima di queste alternative.
«La redazione marcionita delle epistole paoline e di Luca», scrive l'abate Turmel, [10] «fu composta prima della condanna di Marcione, in un'epoca in cui i discepoli dell'eretico avevano ancora il loro posto nelle comunità cattoliche. Queste ultime l'adottarono con la convinzione che provenisse dagli autori sotto il patrocinio dei quali essa si presentava!»
Si sa (e vi ritorneremo) che i testi nuovi, per quanto siano considerevoli, possono essere accolti da una comunità come l'opera di uno scrittore antico, quando interpretano i suoi nuovi bisogni, quando sono nati secondo il suo cuore, quando sono l'espressione attesa della sua evoluzione. Saranno egualmente accettati, anche se violano il sentimento generale, quando sono portati da un riformatore che riesce a catturare le anime, si impone nel modo in cui si imposero i Savonarola, i Lutero, i Calvino, e conduce vittoriosamente le masse nel cammino che apre loro.
Le innovazioni che Marcione avrebbe portato come provenienti da San Paolo rientrano in uno di questi casi?
L'abate Turmel, per spiegare il marcionismo di questi testi, sostiene che questi 1° attaccarono i fondatori della Chiesa e specialmente i Dodici, che vi sono paragonati a Satana il quale si traveste da apostolo di luce, 2° accusarono il cristianesimo delle comunità di essere un travisamento della dottrina di Gesù, e 3°, cosa che è ancora più grave, attaccarono i capi di queste comunità, «assestando randellate ai vescovi e rimproverando ai fedeli di lasciarsi guidare da questi individui che li sfruttano».
Non si obietti che queste sottigliezze siano in realtà assenti dalle epistole, perché in tal caso queste perderebbero il carattere marcionita che vi scopre il nostro critico e la sua tesi crollerebbe di colpo.
Ben più, non solo queste innovazioni, secondo lui, combattevano nelle comunità vescovi, fedeli e fondatori, ma pretendevano di riformare i loro usi e il loro culto; una di esse, per esempio, aveva per scopo, secondo l'abate Turmel, come abbiamo visto nel capitolo precedente, di sopprimere i pasti collettivi e di sostituirli con una commemorazione, obbligando i fedeli a sostituire la preghiera alla bisboccia.
Infine, spingendo come sempre la sua teoria fino all'assurdo, l'abate Turmel si spinge fino a dichiarare che Marcione, parlando sotto la maschera di San Paolo e presagendo la sua scomunica, avrebbe detto alla comunità romana: — «Io non attribuisco nessuna importanza all'essere condannato da voi... Io ho il più profondo disprezzo per il vostro giudizio». [11]
È vero che altrove l'abate Turmel afferma che i passi così tendenziosi furono scritti in modo da non attirare l'occhio, e da poter essere utilizzati più tardi; ma se la cosa può intendersi a proposito di affermazioni puramente dottrinali, è incomprensibile a proposito delle «randellate» assestate ai vescovi e al loro gregge e perfettamente inconciliabile con la spavalderia: «Io non attribuisco nessuna importanza alla vostra condanna... Io disprezzo il vostro giudizio...».
Riassumiamo la tesi dell'abate Turmel. Marcione porta alle comunità un testo delle epistole tre o quattro volte più lungo di quello che esse possedevano, e le cui novità consistono non solo in affermazioni dottrinali velate e che forse non hanno potuto essere comprese, ma in attacchi veementi contro i fondatori di queste comunità, i loro capi e i loro membri, in uno sconvolgimento dei loro costumi e del loro culto, infine nella dichiarazione che egli si beffa di essere condannato da loro.
Tutto ciò, comprendiamolo, una comunità poteva accettarlo. Si è visto nella storia un tale riformatore compiere la sua opera con una frusta in mano. Ma questo sarebbe stato equivalente ad aderire al marcionismo. Ora, nel luglio 144, la comunità romana condanna le dottrine marcionite e scomunica Marcione, come aveva fatto quella di Sinope, come avevano fatto quelle dell'Asia Minore.
C'è bisogno di aggiungere che, se la comunità avesse potuto per assurdo avere un istante di esitazione, il fatto stesso della condanna finale sarebbe stato decisivo.
Rimane l'alternativa che i testi sarebbero stati accettati solo dopo la scomunica... Alternativa ancora più inconcepibile, poiché a tutte le impossibilità della prima ne aggiunge una più grave, per il fatto stesso della condanna che sarebbe stata già pronunciata.
Lo si giudicherà tentando di realizzare la scena di alta buffoneria tramite la quale l'abate Turmel vorrebbe spiegare l'entrata dei testi marcioniti nella raccolta cattolica. Un marcionita, spiega, [12] avendo abiurato i suoi errori e avendo preso posto tra i membri della grande chiesa, avrebbe conservato tra le sue mani un esemplare dell'edizione eretica delle epistole e avrebbe fatto leggere a questi i passi che mancavano nella loro edizione e si trovavano nella sua (vale a dire le interpolazioni marcionite), e i suoi ascoltatori ne sarebbero stati così «meravigliati» (questa è l'espressione dell'abate Turmel), che, senza preoccuparsi dell'origine eretica di queste innovazioni e nemmeno indagando dove e come fossero state recuperate (e rallegrandosi, forse anche, in cuor loro, delle «randellate» inferte ai loro vescovi), le avrebbero accettate e fatte proprie «senza la minima esitazione», pur rivolgendo ovviamente al compagno i loro più calorosi ringraziamenti e le loro più vive congratulazioni per la bella scoperta di cui si era fatto il messaggero.
E viceversa; vedremo che l'abate Turmel è stato costretto, dalle esigenze della sua tesi, ad asserire che i marcioniti stessi avrebbero introdotto, dopo la scomunica, nelle loro proprie edizioni i testi con i quali la Chiesa cattolica li avrebbe combattuti. [13]
Allorché un cattolico si faceva marcionita, spiega in effetti nello stesso articolo, la stessa commedia si svolse, ma nel campo marcionita questa volta. Il cattolico diventato marcionita consegnava ai suoi nuovi correligionari i passi recentemente fabbricati contro di loro dalla Chiesa cattolica, e i suoi ascoltatori ne erano talmente meravigliati... il seguito come sopra, ivi compresi i ringraziamenti e congratulazioni...
Ma i lettori si domanderanno cosa significa questo imbroglio. Precisiamo.
La comunità romana ha goffamente accettato da Marcione come provenienti da San Paolo i testi diretti contro di essa; ma presto essa si accorge, non del suo errore, ma dei pericoli che comportano questi testi, e si impegna ad ammendarli con delle aggiunte...
Si vede che l'abate Turmel non concepisce i cristiani del secondo secolo sotto un aspetto molto lusinghiero. Ma non concede più serietà agli eretici marcioniti che agli ortodossi cattolici. Cosa fanno in effetti i marcioniti? Rivaleggiando in goffaggine (o in cortesia) con i loro avversari, accettano a loro volta queste aggiunte dirette contro di loro, allorché i transfughi del cattolicesimo le portano a loro.
«Le interpolazioni», scrive, [14] «hanno per agenti i transfughi di entrambe le chiese», ciascuno che reca e fa accettare alla chiesa in cui entrava i testi della chiesa nemica.
Un esempio.
Abbiamo spiegato nel capitolo precedente come, secondo l'abate Turmel, le comunità conoscevano, come pasto eucaristico, solo il semplice banchetto diventato pretesto alla bisboccia, e come, per riformare l'istituzione, Marcione (o uno dei suoi) avrebbe falsificato il testo celebre in cui San Paolo è ritenuto raccontare l'istituzione eucaristica, 1 Corinzi 11:23-26, meno le parole «Questo è il mio corpo».
La comunità avrebbe accettato il testo.
Ma, per vendicarsi senza dubbio, e ad ogni caso per contrastare il marcionismo, essa avrebbe in seguito fabbricato a sua volta e interpolato nel testo di Marcione le parole «Questo è il mio corpo» che combattevano il docetismo di Marcione.
Rendendo ai cattolici il loro dovuto, i Marcioniti avrebbero accettato la glossa fabbricata contro di loro, così come i cattolici avevano accettato la glossa che Marcione aveva fabbricato contro loro stessi.
E non dimentichiamo che essi l'avrebbero accettata non solo nella loro edizione delle epistole, ma in quella del vangelo.
Tali sono le belle cose che l'abate Turmel propone agli studiosi. [15]
Un tale scambio di interpolazioni tra avversari appare, dal semplice punto di vista del buon senso, stravagante. Come sarà se si pensa a ciò che era l'odio feroce da cui erano animati, gli uni contro gli altri, cattolici ed eretici, quando bastava che una parola sia stata pronunciata dall'avversario perché apparisse immediatamente come abominevole? Ho citato più su [16] alcune delle espressioni di cui si serviva l'Apocalisse per descrivere i Nicolaiti: «falsi apostoli», «mentitori», «dottrina di Balaam», «Gezabele» (che insulto!), «fornicatori», «profondità di Satana»... Tale è il tipo di «meraviglia» con la quale sarebbero stati accolti i testi che avrebbe presentato il disertore, con grande rischio per costui di essere rimandato alla sua vecchia chiesa e non senza qualche percossa...
Sant'Ireneo racconta [17] che Marcione essendosi avvicinato a San Policarpo e avendogli detto: «Riconoscimi»... ne ricevette quella risposta: «Io riconosco il primogenito di Satana». Immaginare, dopo la scomunica, l'ambiente cattolico che accetta con «meraviglia» una innovazione marcionita, o l'ambiente di Marcione che accoglie allo stesso modo una innovazione cattolica, equivale a non farsi alcuna idea della loro mentalità. Si legga come Tertulliano parla di Marcione! L'accoglienza che i Marcioniti avrebbero potuto dare a «Hoc est corpus meum», se fosse stata la glossa cattolica portata da un disertore, è scritta in ogni pagina della storia di quel tempo; non c'è dubbio che sarebbe stata questa: «Parole di Satana».
...Supponiamo, però, che l'improbabile si sia realizzato... Tutto accade, dice la saggezza delle nazioni... Le cose improbabili accadono una volta, due volte; una sorpresa, dopo tutto, è sempre possibile... un caso...
Ho fatto il conto dei passi indicati dall'abate Turmel come aggiunte cattoliche che sono discusse dai Padri come presenti nell'Apostolicon; ne ho trovati una trentina per l'epistola ai Romani, e quasi un centinaio per la sola prima epistola ai Corinti. [18] Non è dunque una volta, due volte, di sorpresa, per caso, che l'impossibilità si sarebbe verificata, ma A GETTO CONTINUO!
Che la Chiesa abbia introdotto successivamente nell'epistola ai Romani, 16:25-27, una dossologia d'ispirazione marcionita, vi sarebbe là precisamente un fatto non solo tardivo ma anche isolato, se la cosa fosse provata. Che, in modo generale, essa abbia subìto delle penetrazioni marcionite di ordine rituale o dottrinale, la cosa è possibile e perfino probabile, e la storia delle religioni ci mostra molti casi analoghi; ma si tratta allora di lente infiltrazioni, che si fanno a poco a poco, insensibilmente, senza più spesso che nessuno ne abbia coscienza, e non dell'accettazione cosciente e immediata di testi precisi, fino ad allora sconosciuti, presentati come provenienti da un apostolo, mentre questi testi avrebbero avuto per scopo di combattere quella chiesa stessa e, per somma impudenza, vi sarebbero stati portati da un disertore della chiesa nemica, e ciò indefinitamente!
C'è una grande differenza tra subire a propria insaputa un'influenza, e introdurre materialmente e di continuo nelle proprie scritture le scritture venute dal nemico.
Riassumiamo.
Il sistema dell'abate Turmel è basato sull'affermazione che una parte considerevole delle epistole è di composizione marcionita, e che un'altra parte è la replica anti-marcionita della Chiesa. E siccome si può sempre trovare nei testi ciò che si vuole metterci, egli vi ha trovato, per grazia della «critica interna», la conferma del suo sistema. Due fatti, sfortunatamente, lo fermano: uno, che questi testi eretici fanno parte del testo cattolico; l'altro, che un gran numero delle cosiddette correzioni cattoliche sono attestate come aventi fatto parte dei libri marcioniti. Questi sono fatti positivi; ma i fatti non contano; solo contano le deduzioni logiche; i fatti devono cedere il passo ai ragionamenti; non importa quale immaginazione, per quanto inimmaginabile, basterà a spiegare, vale a dire a giudicare i fatti.
L'abate Turmel è il prototipo dell'uomo che non vuole sapere nulla delle realtà della vita, nulla neppure dei nuovi metodi e dell'incessante fatica della mente che attraverso i tempi scruta ciò che San Paolo chiamava le profondità di Dio. Per definizione, egli è l'uomo per il quale il mondo esterno non esiste. Lo si immagina, nel suo studio, davanti alla sua magnifica collezione dei Padri della Chiesa, ignaro di tutto ciò che è l'immenso universo, insensibile a tutto ciò che muove la sensibilità degli uomini, cieco a tutte le luci, sordo a tutte le voci, tranne a quella che nel profondo del suo cuore proclama che 1 Corinzi 11:23 contraddice 1 Corinzi 11:24! E quando, una volta completato il lavoro, qualcuno dei suoi amici di Rennes gli dice, con mille parole gentili, che ci sono fatti di cui forse non ha tenuto conto, e che è ben strano che la Chiesa e gli stessi eretici abbiano accettato così benevolmente questi testi fabbricati contro di loro, lui risponde come certi maestri di scuola rispondono ai bambini che fanno loro delle obiezioni: risponde non importa cosa, per sbarazzarsene, e prosegue i suoi ragionamenti.
Pensiamo di aver stabilito che le falsificazioni che si è accusato Marcione di aver praticato nelle epistole, egli non aveva potuto praticarle, salvo beninteso alcune correzioni di dettagli. In realtà, non le ha praticate perché possedeva un altro metodo per ottenere dalle epistole e dal vangelo le giustificazioni di cui aveva bisogno.
Quando un innovatore voleva in quell'epoca far ammettere una dottrina nuova, diverse procedure erano a sua disposizione. Poteva comporre il libro destinato a imporre quella dottrina e pubblicarlo sotto il nome di uno scrittore antico, procedura spesso impiegata, ma che l'opposizione delle comunità rese impraticabile per Marcione.
Poteva anche pubblicare una edizione nuova di un'opera esistente, cancellandovi ciò che contrariasse e aggiungendovi ciò che favorisse la sua tesi. Questo è ciò che avrebbe fatto Marcione secondo la tradizione e secondo l'abate Turmel; abbiamo appena visto contro quali difficoltà egli si sarebbe scontrato, data l'opposizione che dovette incontrare.
Esisteva infine una terza via, che consisteva nel fornire un commentario e stabilire con un'esegesi appropriata che la dottrina che si proponeva fosse quella di uno scrittore autorevole; e tale era la procedura a lungo tempo in voga, specialmente ad Alessandria, dove Filone l'aveva popolarizzata.
San Paolo stesso l'aveva praticata, chiedendo all'Antico Testamento i testi che legittimavano il cristianesimo. In verità, Marcione doveva solo seguire l'esempio dato dal suo maestro, come lo seguì tutta la tradizione cristiana. Era più difficile trovare nelle epistole la condanna del dio creatore che trovare nell'Antico Testamento la condanna della legge mosaica?
Marcione fece ciò che non poteva mancare di fare. Scrisse le Antitesi. Con le Antitesi in mano, non aveva più bisogno di alterare i testi dell'apostolo di quanto costui avesse avuto bisogno di alterare i testi dell'Antico Testamento.
Né aveva neppure bisogno di alterare i testi del terzo vangelo. Sappiamo che nel corso della famosa sessione in cui sottopose la sua dottrina al presbiterato romano, brandì due testi di San Luca, 6:43, e 5:36-38. Non recò i cosiddetti testi di San Luca che avrebbe scoperto e che nessuno conosceva, o che avrebbe corretto e riportato alla loro purezza originale; recò due testi perfettamente noti, — e li commentò.
Ritengo che quella considerazione sarebbe di per sé sola un argomento decisivo. Marcione non presentò più Pseudo-Paolo che Pseudo-Luca ai presbiteri che lo ascoltarono. [19]
Di tutto questo, i testi stessi forniscono la conferma, direi la prova sovrabbondante. Troviamo, infatti, attestata come avente fatto parte dell'Apostolicon una quantità di frammenti e di tratti il cui spirito è giudaizzante, e che Marcione non avrebbe mai lasciato se avesse voluto sopprimere dalle epistole i passi contrari alle sue dottrine:
In primo luogo, frammenti interi, come quelli delle epistole ai Tessalonicesi, sui quali ritorneremo più oltre. In secondo luogo, un numero di tratti che non dovevano piacergli e alcuni che dovevano dispiacergli nettamente, per esempio il capitolo sulla resurrezione della prima ai Corinzi. Si ripete che in 1 Corinti 15:3 Marcione abbia cancellato le parole «secondo le Scritture», perché non ammetteva l'autorità dell'Antico Testamento; sennonché in quella stessa prima ai Corinti, si possono contare dodici citazioni formali dell'Antico Testamento attestate dai Padri come presenti nell'Apostolicon, di cui otto sono accompagnate dalla menzione esplicita: «infatti è scritto»... [20]
Questo insieme di tratti mi sembra completare la prova che Marcione ha apportato alle epistole solo alterazioni minime.
Mi riassumo precisando la mia tesi: Marcione non è l'uomo che avrebbe scoperto dei testi nuovi; è colui che ha interpretato dei testi esistenti.
Ammettendo, quindi, la possibilità di alcune modifiche di dettaglio, di qualche taglio poco importante, di qualche parola aggiunta forse, concludo che il testo dell'Apostolicon, come Marcione lo pubblicò nel 144, fosse conforme grosso modo allo stato dei testi che le comunità stesse possedevano. L'Apostolicon è l'edizione, appena ritoccata, del testo delle epistole come esisteva alla fine del primo quarto del secondo secolo.
Ma ecco una tutt'altra questione. Questi testi stessi, intendo i testi comunicati a Marcione dalle comunità e che egli aveva riunito in raccolta, erano conformi ai testi originali di San Paolo?
Bisogna rendersi conto innanzitutto che alcuni di loro avevano grandemente sofferto. I rotoli di papiro di cui si erano serviti San Paolo e in seguito i copisti avevano potuto corrompersi rapidamente, a volte rompersi e dividersi in frammenti che erano stati messi insieme più o meno approssimativamente; parole scomparse erano state sostituite, non sempre felicemente; così si spiega, da una parte, che delle trasposizioni si siano verificate tra le diverse parti di un'epistola, e, d'altra parte, che più epistole diverse siano state riunite in una sola, tutte ciò con incastri, a volte con raccordi, che non avevano nulla di autentico. [21]
Ma se sembra certo che i testi abbiano sofferto materialmente, avevano sofferto alterazioni deliberate?
A priori, le ragioni che proibiscono di credere che Marcione abbia potuto modificare profondamente i testi non impediscono che le comunità abbiano apportato esse stesse alcuni ritocchi e alcune aggiunte nel corso del mezzo secolo che seguì la morte di San Paolo. Un compilatore che lavora in seno ad una chiesa, in comunione di idee con i suoi correligionari, è un tutt'altro affare rispetto ad un innovatore che deve lottare contro un'opposizione dichiarata.
Nel testo attestato dai Padri come quello dell'Apostolicon, si possono reperire le glosse che spesso sono il goffo commentario che il copista aggiunge al frammento che ha appena trascritto, e che forse si è accontentato di scrivere in margine e che da lì sarà passato nel corpo del libro; come 1 Tessalonicesi 2:15-16, di cui il 15° è attestato come appartenente all'Apostolicon.
Ma il movimento di giudaizzazione che si produsse nel cristianesimo dopo l'anno 70, e al quale si deve la nascita dei vangeli, non poteva mancare di avere alcune ripercussioni nel testo delle epistole dove furono introdotti un certo numero di tratti e di frammenti dalle tendenze giudaizzanti, come il frammento della prima ai Tessalonicesi, 4:13-5:18, dove il signor Loisy ha trovato, non solo le idee, ma anche le espressioni dei Sinottici. [22]
Due epistole sono pressappoco universalmente riconosciute come post-paoline, la seconda ai Tessalonicesi e l'epistola agli Efesini. Dal fatto che fanno parte dell'Apostolicon, dobbiamo concludere che esse sono state scritte nell'ultimo quarto del primo secolo o all'inizio del secondo. E si rappresenta senza difficoltà in quali circostanze queste due epistole hanno potuto nascere in seno alle comunità, dove Marcione le ha trovate allo stesso modo delle epistole autentiche.
Vi sarebbe motivo di esaminare infine quali sono i frammenti interi che, facendo parte dell'Apostolicon, si rilevano «indegni» della grande mente e del possente scrittore che fu San Paolo, e qui entrerebbe in gioco, sotto riserva del controllo filologico, il nostro criterio estetico e spirituale. A titolo di esempio, segnaliamo i frammenti della seconda ai Corinzi, 1-2:13, e 7:8-9, il cui insieme, secondo il signor Loisy [23] dopo Johannes Weiss, costituirebbe una terza epistola indirizzata dall'apostolo alla stessa comunità, ma in cui vediamo piuttosto un'epistola interamente apocrifa, una «terza ai Corinzi» scritta nell'ultima parte del primo secolo e corrispondente alla «seconda ai Tessalonicesi», con quella differenza, che non avrebbe conservato un'esistenza a parte.
È impossibile non menzionare egualmente i capitoli 12-15:7, dell'epistola ai Romani, luoghi comuni di moralizzazione a tutto tondo, tanto piatti nella forma quanto nel pensiero, e, nella stessa epistola, i versi 1:18 e 2:2-3:20. [24]
Ma i critici estremisti non si fermano là. Mentre l'abate Turmel vede nelle epistole un'opera in gran parte marcionita, il signor Gordon Rylands vi vede in esse una serie di scritti che situa nei tre quarti di secolo che hanno preceduto Marcione. Che il signor Gordon Rylands abbia individuato un certo numero di interpolazioni anteriori a Marcione è giusto riconoscerlo. Ma non si tratta, nella sua ipotesi, di semplici interpolazioni, bensì di opere originali e di edizioni successive che si sarebbero succedute durante questi tre quarti di secolo.
Un intero volume sarebbe necessario per esaminare gli argomenti che con un virtuosismo di erudizione notevole il signor Gordon Rylands presenta a sostegno della sua tesi ; alcuni di essi sono di ordine filologico e degni della più scrupolosa attenzione; ma un gran numero rientrano nel famoso postulato delle dottrine diverse che denotano autori diversi, e, anche se avessimo lo spazio necessario, rifiuteremmo comunque di prenderli in considerazione; ci siamo spiegati su questo punto. Ci basterà trattenere del suo lavoro quelle analisi che sono basate sullo studio scientifico dei testi per ricavarne tutto il profitto che conviene quanto alle parti dell'Apostolicon che non possono risalire fino a San Paolo.
Se chiamiamo primo strato delle epistole il testo autentico delle epistole come San Paolo le indirizzò alle comunità, diremo quindi che, durante gli anni che hanno preceduto e quelli che hanno immediatamente seguito la morte dell'apostolo, «questo primo strato» non ha potuto subire che delle alterazioni minime, salvo quelle risultanti dal deterioramento dei manoscritti.
Un po' più tardi, probabilmente nel corso degli ultimi vent'anni del primo secolo, il cristianesimo subì il grande movimento di giudaizzazione che si prolungò nei primi anni del secondo secolo e al quale si deve l'inserimento nelle epistole delle glosse e frammenti diversi di cui abbiamo appena citato degli esempi. Dopo di ciò, si produsse una sorta di stabilizzazione del testo, che può datarsi intorno all'anno 120, e tramite la quale si costituisce ciò che chiameremo il secondo strato delle epistole, stabilizzazione che si mantiene durante il secondo quarto del secondo secolo.
Questo «secondo strato» era quello nel quale Marcione trovò le epistole, e di cui tentò di correggere le parti giudaizzanti con la sua esegesi ancor più che con dei ritocchi. È quindi, salvo questi ritocchi, quello dell'Apostolicon.
Ma è curioso osservare che, se Marcione ha fatto subire alcuni minimi ritocchi anti-giudaizzanti ai testi che ha trovato, forse questi ritocchi hanno avuto per risultato di riportare questi testi alla loro purezza primitiva... Pura ipotesi, beninteso... ma abbiamo spiegato perché riteniamo che questi ritocchi non hanno potuto essere che minimi; d'altra parte, troviamo, in ogni caso, certi frammenti giudaizzanti del tipo di quelli della prima ai Tessalonicesi attestati dai Padri come figuranti nell'Apostolicon; il che ci conduce a quella seconda e molto più curiosa conclusione che il testo marcionita era senza dubbio più giudaizzante del testo originale... Si vede quanto siamo lontani dall'abate Turmel...
Resta da renderci conto, e questo sarà cosa facile, di come si è costituito il terzo strato delle epistole, il quale rappresenta il textus receptus, vale a dire il testo cattolico ufficiale.
Nel 144, la Chiesa di Roma condanna e scomunica Marcione; conserva le epistole in cui Marcione intendeva trovare la sua giustificazione; ma l'attenzione è stata suscitata.
Si afferma che l'eretico ha orribilmente travisato le parole dell'apostolo; ma non si è potuto mancare di esserne turbati. Non si è dei «critici», ma si è acerrimi polemisti. E non si può negare tra sé che ci sia, in effetti, nell'apostolo, ciò che non si voleva confessare: cose che possono prestarsi ad equivoco e che restano dopo tutte pericolose...
È a quella situazione che importa porre rimedio. Non si tratta di elaborare una dottrina nuova, ma di eliminare la possibilità di interpretazioni pericolose, e su questo si è tutti d'accordo; non vi sono opposizioni da temere.
E il lavoro comincia.
Si correggeranno dapprima i passi dell'apostolo che possono dar luogo ad equivoco o sostenere troppo apertamente le tesi condannate.
Ma una volta entrati in quella via, fin dove si può arrivare?
Non contenti di correggere, si spiega, si commenta, in modo tale da togliere al testo ogni accenno eretico — ciò, evidentemente, nell'interesse della verità.
E, mentre si è in procinto di far così bene, si aggiungono frammenti che rispondono ai nuovi bisogni della comunità, e si inserisce per esempio nell'epistola ai Romani il miserabile frammento di retorica di 1:19-2:1, che non sembra essersi trovato nell'Apostolicon... Perché la nostra tesi non ci obbliga, grazie al cielo, a esigere che i Marcioniti abbiano inserito nell'Apostolicon le aggiunte e correzioni fabbricate dai loro avversari...
Un quarto di secolo dopo la pubblicazione dell'Apostolicon, il testo cattolico delle epistole sarà costituito. E il battaglione serrato dei Padri della Chiesa rimprovererà Marcione per avervi tagliato, sforbiciato, raschiato, ritagliato, accorciato, scavato buchi, aperto brecce...
Ma, dopo averlo scagionato da quella accusa, noi non porteremo contro di lui l'accusa opposta, infinitamente più grave, di aver fabbricato la metà o i quattro quinti del testo.
NOTE
[1] Si veda, tra i cattolici, l'abate Jacquier, e, tra i protestanti, il signor Zahn.
[2] Volume 4, parte 1, pagine 49 e seguenti.
[3] Die Briefsammlung des Apostels Paulus, 1926.
[4] Premiers écrits du christianisme, 1931; studio già pubblicato in Revue de l'Histoire des Religions, 93, pagine 242 e seguenti.
[5] Nauclerus e ναύτης, come lo chiamano i Padri, non significa «armatore» né «noleggiatore», ma «navigatore».
[6] Noi abbiamo, in tutto questo, supposto il caso (che ci pare di gran lunga il più probabile) che le epistole non sarebbero state riunite in raccolta prima di Marcione. La nostra argomentazione sussisterebbe, con una sfumatura, nel caso in cui la raccolta sarebbe stata costituita precedentemente. La questione essenziale è sapere fino a qual punto il testo dell'Apostolicon ha potuto differire dal testo delle epistole come esisteva nel 144, che quest'ultime siano rimaste allo stato isolato, o che siano state già riunite.
[7] Harnack: opera citata. Diremo qualche parola più oltre sui dubbi che sono stati espressi sul valore di quella ricostruzione; segnaliamo solo che, a parte «gli interessati», il lavoro di Harnack ha incontrato l'assenso unanime degli studiosi, sia cattolici che indipendenti, e che il signor Couchoud l'ha preso come base dell'importante studio che abbiamo appena menzionato.
[8] Passim, e in particolare Ecrits de Saint Paul, 2, pagina 74, e Messe, pagina 51.
[9] Revue de l'Histoire des religions, volume 92, pagina 178.
[10] Messe, passo citato.
[11] Ecrits de Saint Paul, 2, pagina 20.
[12] Revue de l'Histoire des Religions, articolo citato, si veda anche Messe, 69.
[13] Per spiegare, come vedremo più avanti, come questi testi cosiddetti anti-marcioniti figurano nell'Apostolicon.
[14] Revue de l'Histoire des Religions, articolo citato, pagina 178.
[15] L'unico argomento che reca (Ecrits de Saint Paul, 2, pagina 87) è una citazione di Harnack che dice che l'Evangelion è stato interpolato dai discepoli di Marcione. Che questi ultimi abbiano introdotto certe aggiunte nel testo del maestro, sia! Ma mai Harnack ha parlato del passo in questione, né si è sognato di dire che le aggiunte introdotte dai marcioniti fossero proprio i testi che i loro nemici fabbricarono contro di loro!
[16] Pagine 35 e seguenti.
[17] Eusebio, Storia Ecclesiastica, 4, 14, 7.
[18] Le cifre approssimative sono sufficienti, allorché si raggiungono tali proporzioni.
[19] «Marcione», scrive Eugene de Faye (Gnostiques, 2° edizione, pagina 163), «ha fatto come i grandi esegeti dell'epoca, come Filone, come più tardi Origene. Pretendeva di ricavare la sua dottrina dalle Scritture. È spiegandole che dimostrava le sue tesi», — e non falsificandone il testo, o interpolandolo.
So che, secondo i Padri, egli avrebbe dichiarato che l'insegnamento di Cristo era stato falsificato; ma è probabile che volesse parlare del significato delle parole di Cristo, e non di queste parole stesse. Esempio: i due testi qui sopra di San Luca.
[20] Si veda nella ricostruzione di Harnack: 1 Corinzi 1:19 e 31; 2:16; 3:19; 6:16; 9:9; 10:7 e 25; 14:21; 15:32, 45 e 54.
[21] Si veda sopra, pagina 59.
[22] Livres de Nouveau Testament, 136-137. Il seguito, 1 Tessalonicesi 5, 1-2, non è attestato nell'Apostolicon e sembra far parte delle interpolazioni cattoliche successive di cui parleremo più avanti.
[23] Opera citata, pagine 79 e seguenti. C'è un dubbio però quanto al capitolo 9.
[24] Noi isoliamo il frammento 1:19-2:1, che, come diremo più avanti, non sembra aver fatto parte dell'Apostolicon, e di cui, in ogni caso, il carattere vilmente e stupidamente ingiurioso avrebbe dovuto avvertire chiunque abbia rispetto del nome di San Paolo che esso non poteva essere autentico.
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