lunedì 14 giugno 2021

IL MITO DI GESÙ (XIV)

 (segue da qui)


3. GESÙ NEI SINOTTICI.

La nostra affermazione si trova quindi confermata: non esistono affatto fonti che attestino l'esistenza storica di Gesù al di fuori dei vangeli. Questi ultimi sono dunque testimoni isolati, e nulla viene a corroborare la loro testimonianza. Van den Bergh van Eysinga ha ragione: «Se sapessimo di Attila solo quello che si legge nel cantico dei Nibelunghi, dovremmo dire che noi non sappiamo se sia veramente vissuto o se sia una figura mitica come Sigfrido. Le fonti da cui attingere una vita di Gesù non valgono meglio». [1] È vero che si è cercato di dare loro una base storica riesumando una nota di Eusebio (sempre questo sfortunato Eusebio), secondo la quale Papia, il vescovo di Ierapoli già menzionato, riporta che Marco, l'interprete di Pietro, avrebbe annotato dai suoi ricordi, senza ordine preciso, è vero, i discorsi e gli atti di Gesù che avrebbe ricavato dalle comunicazioni occasionali di Pietro, dato a sostegno del quale Papia invoca Giovanni l'«Anziano». [2] Ma in cosa ci aiuta ciò? Eusebio (nel IV° secolo) vuole aver appreso da Papia (intorno al 150!) ciò che costui pretende di ricavare da un «Giovanni l'Anziano» che ci è totalmente sconosciuto, e quest'ultimo da Pietro, infine Pietro da Gesù. Ci vuole molta ingenuità e franchezza per pretendere di fondare su queste informazioni derivanti da un presunto testimone oculare la veridicità dei racconti evangelici. 

Eusebio ci insegna anche, riguardo al nostro primo vangelo, che il suo autore Matteo scrisse i discorsi del Signore in ebraico e che «ciascuno li tradusse come poteva». [3] Sfortunatamente quella nota è senza valore già solo per questo motivo, perché non ci informa di quale natura fossero questi «detti del Signore». Erano parole pronunciate da un Gesù storico, oppure parole attribuite all'ispirazione immediata dello Spirito Santo e pronunciate da personalità eminenti, o erano in fin dei conti parole dell'Antico Testamento, ossia di Jahvé, anch'egli indicato con il titolo di Signore? E chi era questo Matteo? L'autore del primo vangelo? Si presume che fosse il pubblicano chiamato da Gesù, Marco 2:14. Ma in Marco, costui non si chiama Matteo, ma Levi, figlio di Alfeo, e solo più tardi sembra essere stato considerato identico all'apostolo Matteo. In fondo, quella nota ci informa quindi semplicemente che si ebbe nel II° secolo una raccolta di cosiddette parole del Signore, ricche di varianti, e che quella varietà era attribuita alla diversità delle traduzioni, da una fonte comune, a sua volta attribuita ad un certo Matteo il cui nome figurava tra coloro che si chiamavano discepoli di Gesù. Del resto, Papia non è assolutamente un testimone inconfutabile. Eusebio dice che era uno «spirito molto limitato», e ciò che pretende di ricavare dagli «Anziani» in fatto di parabole e di insegnamenti di Gesù così come di atti degli apostoli è talmente assurdo che Eusebio stesso se ne indigna e non esita a relegare queste storie nel dominio della favola.

Questi sono dunque i «pilastri» sui quali si vuole far portare tutto il peso della storicità dei vangeli! Come possono i teologi parlare di una «buona tradizione» e fondare su di essa la loro famosa ipotesi delle «due fonti» che è alla base della critica moderna dei vangeli? Secondo quella ipotesi il vangelo di Marco, forse in una forma più antica chiamata «Marco primitivo», costituisce una delle due fonti dei vangeli così come sono pervenuti a noi; esso riportava gli atti di Gesù. L'altra fonte sarebbe i discorsi o detti riportati nelle note di Matteo menzionate da Papia, vale a dire nel Matteo primitivo. I nostri Matteo e Luca attuali avrebbero attinto, indipendentemente l'uno dall'altro, il loro racconto degli atti di Gesù dal Marco primitivo, e ciascuno avrebbe incorporato nella sua narrazione i discorsi di Gesù che attingeva dai Detti. Ma inoltre si suppone che ciascuno di loro avrebbe utilizzato una fonte particolare che non esisteva né nei Detti né in Marco primitivo, e che si crede di dover attribuire alla tradizione orale. Ma non appena si tratta di precisare gli elementi di quella ipotesi, l'unanimità delle autorità competenti scompare. Così, alcuni pretendono che il Matteo primitivo comprendesse anche racconti della vita di Gesù, il Marco primitivo anche dei discorsi, e che anche la fonte dei detti non si componesse unicamente di detti. Altri ancora ammettono, oltre ad un Matteo ed un Marco primitivi, un Luca primitivo, più antico forse del nostro Marco e che, oltre alla storia della nascita e dell'infanzia di Gesù, conteneva soprattutto parabole e racconti tendenti all'esaltazione della povertà e alla condanna della ricchezza, sorta di vangelo ebionita, cioè vangelo degli Ebioniti o poveri, come si definiva un certo gruppo di primi cristiani.  In ogni caso, i recenti lavori su questo campo hanno talmente aumentato il numero delle possibilità e talmente complicato il problema che non si può più minimamente parlare di un'ipotesi delle due fonti. Inoltre, i cattolici continuano a considerare Matteo l'evangelista primitivo, non che non ci siano migliori motivi per crederlo, ma a causa del passo 16:18 che pone la Chiesa sulla «roccia di Pietro» e conferisce il potere delle chiavi a questo presunto eminentissimo discepolo. Si vede che il problema delle fonti non ha minimamente rafforzato la credibilità dei vangeli, e sant'Agostino ha perfettamente ragione a dire: «Se non fosse a causa della Chiesa, io non presterei nessuna fede nei vangeli». Bisogna effettivamente essere già credenti per ammettere la storicità dei racconti evangelici. 

Esaminiamo un po' da questo punto di vista il contenuto del Vangelo ritenuto il più antico e il più sicuro, Marco, che si dice porti l'impronta più indiscutibilmente storica. 

Marco inizia con il battesimo di Gesù, quando il cielo si apre e lo Spirito Santo discende sotto forma di colomba per proclamarlo figlio prediletto di Dio. Poi lo Spirito lo conduce nel deserto, Satana lo tenta, gli angeli lo servono, ed egli dimora presso le bestie selvagge, al che si mette ad annunciare l'avvento del Regno di Dio e ad esortare alla penitenza. Al suo semplice richiamo i pescatori Simone e Andrea lasciano le loro reti e lo seguono senza indagare sulla sua origine. Alla sinagoga di Cafarnao impressiona il popolo con la sua predicazione; infatti parla come se ha autorità, libera un posseduto da un demone che lo chiamava Santo di Dio; guarisce inoltre la suocera di Pietro con la semplice imposizione delle mani. Seguono altre guarigioni miracolose, dove vieta ai demoni di dire che lo conoscono. Un lebbroso si vede purificato dalla sua semplice parola. Un paralitico recupera l'uso delle sue gambe, e nella sua veste di «Figlio dell'uomo» o di Messia perdona i suoi peccati. Come prima i due pescatori, il pubblicano Levi non esita a seguirlo al suo semplice richiamo. Si mostra anche amico e il difensore dei peccatori e rivendica il diritto di disporre anche del sabato, guarendo quel giorno una mano inaridita, aizzando così i farisei contro di lui. Nuove guarigioni. Gli spiriti impuri si prostrano di fronte a lui e lo riconoscono come Figlio di Dio, ma egli vieta loro di rivelarlo. Su un monte, designa dodici uomini per accompagnarlo, e per andare a predicare, con il potere di scacciare i demoni. I farisei, che lo dicono posseduto da Belzebù, sono accusati da lui di bestemmiare contro lo Spirito Santo. Sua madre e i suoi fratelli vengono da lui e lo fanno chiamare dal mezzo della folla che preme attorno a lui; ma egli rifiuta di riconoscerli e non vuole sapere di applicare l'espressione madre e fratelli se non a coloro che gli sono veramente devoti e che fanno la volontà di suo Padre celeste. Egli parla del regno di Dio in parabole, ma in modo tale che quelli che non sono suoi non lo comprendano, né si convertano. In una tempesta sul lago placa il vento e le onde, con grande stupore dei suoi discepoli. A Gerasa scaccia persino da un posseduto un'intera legione di spiriti maligni e li manda in un branco di porci, i cui proprietari lo pregano allora di lasciare la regione. Poco dopo resuscita la figlia di Giairo, e mentre si reca da lei, una donna affetta di emorragia è guarita semplicemente toccando il suo vestito. Nella sua città natale, è vero, non può operare miracoli; per contro, sazia due volte di seguito a breve intervallo 5000 persone con pochi pani e pesci, cammina di notte sul lago come un fantasma, guarisce perfino da lontano la figlia della Siro-fenicia, poi un sordomuto con la saliva e l'imposizione delle mani, nonché un cieco, e dopo che Pietro, per rivelazione divina, lo ha riconosciuto il Messia, sale su un monte dove Mosè ed Elia gli appaiono e dove viene trasfigurato sotto agli occhi attoniti dei discepoli. Egli prevede la sua passione. Un ragazzo epilettico che i suoi discepoli si sforzano invano di guarire torna in salute con l'esorcismo dello spirito che abita in lui. Ai discepoli, che litigano tra loro, ciascuno volendo essere il più grande (noi non abbiamo ancora avuto l'occasione di renderci conto che qualcuno di loro fosse grande), fa intravedere la sua dignità messianica presentando loro un bambino. Risolve in un batter d'occhio i gravi problemi della vita religiosa e sociale, benedice i bambini, confonde il giovane ricco che non può decidersi di cedere i suoi beni per amor di lui e di donarli ai poveri, e annuncia ai suoi discepoli che è venuto non per farsi servire, ma per servire e donare la sua vita in riscatto per molti, nel senso di Isaia 53. Poi guarisce ancora un cieco e si dà pubblicamente per il Messia entrando solennemente a Gerusalemme circondato dalla folla e cavalcando un asino di cui ha visto con il pensiero il posto che lo ha indicato ai suoi. In città, maledice un fico perché non porta frutti fuori stagione, rovescia nel Tempio le tavole dei cambiavalute e i banchi dei venditori di colombe e caccia gli indegni dalla soglia del santuario. Alle domande capziose dei suoi avversari sfugge ponendo a sua volta domande abili e dando risposte non meno abili, così bene che nessuno osa più interrogarlo e tutti lo ascoltano volentieri, mentre lui li mette in guardia contro gli scribi. Passando per il Tempio ne annuncia la fine imminente, e si lascia ungere a Betania da una sconosciuta come per il suo funerale. Con una precisione meravigliosa di tutti i dettagli, ordina in seguito il pasto pasquale nel corso del quale predice il tradimento di Giuda e, con parole piene di mistero, si dà per il vero agnello pasquale. Predice anche il rinnegamento di Pietro. Nel Getsemani tradisce una debolezza momentanea. Ma egli è tanto più coraggioso al momento del suo arresto e davanti al Sinedrio, e si dichiara infine categoricamente il Messia davanti a Pilato. Poi sopporta pazientemente lo scherno dei soldati e muore sulla croce, sollevando, è vero, il grido d'angoscia del Salmo 22, ma è riconosciuto e ammirato come figlio di Dio dal centurione romano, mentre il velo del tempio si strappa e un'oscurità di tre ore si estende sulla terra. Il sepolcro nella roccia, dove un ricco sinedrita lo ha sepolto, non può trattenerlo. Ne esce nonostante il pesante masso che ne fermava l'entrata, e quando al mattino le donne vengono per ungere il suo corpo, trovano al suo posto un angelo che annuncia loro che i discepoli lo rivedranno in Galilea, dove li avrà preceduti.

Cosa vi è di storico in tutto ciò? Sembra evidente che Marco ci presenta non un uomo, ma un essere divino la cui natura sovrumana e sovra-terrena traspare ancora distintamente attraverso la vernice di realtà storica che la ricopre. [4] Supponendo di leggere queste storie in qualche altro scrittore antico e di non essere abituati, fin dall'infanzia, per l'educazione e l'insegnamento, ad ammetterne la storicità, chi dunque le prenderebbe per qualcosa di diverso da una pia leggenda? Ma se si volesse, come lo si è spesso tentato, sfrondare dal racconto evangelico ogni elemento soprannaturale e inammissibile, non si conserverebbe più nulla, almeno nulla che possa avere ancora per noi il minimo interesse storico o soprattutto religioso. E queste storie, Pietro le avrebbe comunicate al suo interprete Marco attingendole dai suoi ricordi personali? Questo vangelo sarebbe stato scritto, come Wellhausen e Harnack vorrebbero farci credere, da un discepolo di Pietro 20, 30 o 40 anni dopo la morte di Gesù, mentre i testimoni degli eventi riportati vivevano ancora? Credano ciò che vogliano — per noi altri quella opinione è semplicemente ridicola. [5

Oppure sarebbe possibile, per mezzo di un metodo particolare, estrarre la verità storica dal racconto evangelico stesso? I teologi parlano molto di metodo e rimproverano ai negatori della storicità di non averne uno. Ma il teologo Albert Schweitzer è di un altro avviso: «La debolezza della scienza teologica consistette in ogni tempo nel parlare molto di metodo e nel possederne poco». [6] I metodi che i teologi hanno usato finora per motivare le loro affermazioni sono in realtà tutt'altro che convincenti, perché di solito portano semplicemente a considerare fin dall'inizio come reale ciò che appare possibile nella relazione evangelica e a ingannare i dubbi mostrando quanto sia viva, unica nel suo genere impossibile da inventare. E poiché è necessario ciononostante avere un garante, si invoca Rousseau che dice in Emilio che se i vangeli fossero inventati, l'autore di una tale finzione meriterebbe la nostra ammirazione ancor più del suo eroe; si suppone, quindi, che in quanto finzioni i vangeli meritino un elogio tutto particolare. «È impossibile immaginarlo». Tali giudizi sono stati formulati nelle controversie suscitate dal mito di Gesù, e ciò perfino da autorità riconosciute della scienza teologica, che arrivano fino a sospettare la lealtà e la buona fede dei loro avversari, al punto che teologi come Klostermann hanno consigliato ai loro colleghi di abbandonare queste «vecchie armi» che non hanno più alcun valore, e di forgiarne di nuove.  È infatti molto rischioso dichiarare inimmaginabile qualsiasi storia, e fare dell'unicità del Gesù evangelico il criterio della sua verità, quando ogni uomo è unico nel suo genere e quando, inoltre, la storia di Gesù mostra con quelle di altri dèi salvifici dell'antichità, come un Attis, Adone, Dioniso, Osiride, Marduc e altri, analogie così numerose che non si può parlare in lui di alcuna unicità. Un cervello ricco di immaginazione può inventare tutto; la teologia critica non ha forse dimostrato essa stessa che la maggior parte delle storie evangeliche sono inventate? 

Si dice che i vangeli respirino la vita? Ma un'impressione di questo tipo non può provare la verità di un racconto, altrimenti bisognerebbe prestare una realtà storica a tutti i nostri buoni romanzi dove la vita pulsa con molto più realismo che in passato, senza contare che questo elogio non vale nemmeno per i vangeli che lasciano tutto a desiderare in fatto di colore vivido e di precisione. Questo è il caso soprattutto di Gesù come i vangeli lo descrivono. La sua figura non sopporta la luce critica, e più la si è esaminata da vicino nel corso delle ricerche scientifiche, più è diventata vaga e nebulosa. Questo nonostante gli elogi dei teologi, che di solito sono tutti più forti man mano che la figura del Salvatore si affievolisce ulteriormente dietro il velo della tradizione. 

Consideriamo l'entourage di Gesù! Dei suoi discepoli non si apprende quasi nulla, tranne che di Pietro. Il tempo durante il quale compie il suo ministero resta completamente nell'ombra. Perfino Johannes Weiss, che ha creduto di poter provare, per i presunti racconti di Pietro che suppone essere alla base del vangelo di Marco, la loro storicità, si lamenta delle inesattezze cronologiche in questo vangelo. «La cronologia è il suo punto debole... Non ha alcuna visione chiara della durata dell'attività di Gesù» (nel 64, anno in cui secondo Weiss Marco deve aver scritto). Che Marco faccia partecipare il suo Gesù, pio Israelita, per la prima volta alla pasqua di Gerusalemme, è per Weiss stesso un'idea assolutamente puerile. «Nulla è sicuro quanto alla cronologia di questo vangelo. Da nessuna parte vi si trova una indicazione che possa servire da base ad una cronologia reale».

La topografia di Marco è ancora peggiore. Egli nomina, è vero, certi luoghi e situa anche certi eventi, ma generalmente in una maniera così superficiale e così confusa (una casa, un monte, una regione solitaria, ecc.) che lo storico non può ricavarne indizi più di quanto non se ne ricaverebbe dalla scenografia di uno spettacolo teatrale. «Le sue vedute geografiche non oltrepassano certe generalità: Galilea, Perea, Mare di Galilea, ecc. La sua ignoranza topografica risulta chiaramente, per esempio, dai racconti che sono raggruppati attorno alle due moltiplicazioni dei pani. L'andirivieni di Gesù sul lago, la sua apparizione improvvisa nella regione di Tiro e di Sidone, poi di nuovo sulla riva orientale del lago, tutti questi aspetti non hanno potuto essere così sovrapposti se non da un autore completamente ignorante della topografia di queste regioni. «Le indicazioni topografiche del vangelo sono confuse. Queste cose non gli interessano minimamente. Né il luogo né il tempo lo preoccupano». [7] Non sa descrivere i dintorni del lago di Genesaret e non conosce Gerusalemme... Eppure Marco era nato, si dice, a Gerusalemme e vi aveva passato la maggior parte della sua vita. Wellhausen ha sferrato una critica  simile a quella di J. Weiss, forse anche più severa, all'autore del più antico vangelo. [8] Non siamo nemmeno sicuri se Marco non abbia attinto da Giuseppe i suoi nomi di luoghi. Per Cafarnao ciò sembra proprio essere il caso. Tale è infatti il nome dato da Giuseppe ad una rigogliosa sorgente, che fertilizza la regione e si trova presso il lago, [9] e Marco ne fa la città di Gesù, in ricordo di Zaccaria 13:1ss, dove è detto che «in quel giorno», una fonte che laverà le iniquità e le impurità scorrerà per la casa di Davide e gli abitanti di Gerusalemme; ed è anche là che Marco fa fare a Gesù i suoi primi miracoli, l'espulsione dei demoni, perché Zaccaria dice subito dopo: «E anche lo spirito immondo farò sparire dal paese». D'altra parte, come Raschke soprattutto l'ha provato, vediamo i nomi delle città fornire all'evangelista la materia dei racconti che vi localizza; per esempio, è a Betania, che significa «casa dei poveri», che Gesù prende posizione così fermamente per i poveri, ed è a Betfage che maledice un albero di fico, perché questo nome significa «casa del fico».

Se almeno, a questo riguardo, il terreno fosse più solido in Matteo e Luca! Ce lo si potrebbe aspettare soprattutto da Luca, che nel suo prologo si dà espressamente come «storico». Non lo è sfortunatamente per nulla. Le espressioni «in quei giorni, in quel tempo, un giorno di sabato, dopo otto giorni, alla stessa ora» predominano anche da lui, e quando sembrano dare indicazioni cronologiche più precise, si trovano generalmente ad essere false. Egli fa nascere Gesù «al tempo del re Erode», morto da quattro anni, se, secondo il suo stesso dire, Gesù aveva circa 30 anni nel 15° anno di regno di Tiberio. Inventa un censimento di cui si è dimostrato che non ha mai avuto luogo, soprattutto sotto Quirino che fu governatore solo dal 7 all'11 della nostra era. Da lui, Anna e Caifa esercitano assieme il sommo pontificato, mentre non vi si ebbe mai che un solo sommo sacerdote. Il ritratto dei farisei è completamente sfigurato [10] da Luca come dagli altri. Il personaggio di Pilato così come ci viene presentato è assolutamente opposto alla descrizione che ne fanno Giuseppe e Filone. Nessuno storico sa nulla di un'amicizia tra Erode e Pilato, immaginata da Luca (23:12). La procedura giudiziaria che porta alla condanna di Gesù è assolutamente incompatibile con la legge ebraica del tempo. [11] Pilato aveva la sua sede a Cesarea, e se mai venne a Gerusalemme, questo non fu certo giusto alla Pasqua ebraica. Il Talmud elenca i nomi degli uomini che da Antigono (250 A.E.C.) hanno presieduto il Sinedrio fino alla distruzione del tempio: il nome di Caifa non vi figura. La topografia di Luca è totalmente fantasiosa, per esempio quando mette il suo Gesù in pericolo di essere precipitato dagli abitanti di Nazaret [12] dalla cima di una roccia che non esiste nella regione. In queste condizioni, parlare di colore locale, come osano fare i teologi, equivale semplicemente a prendersi gioco di tutti. Il racconto dei vangeli non ha minimamente il carattere di una narrazione degna di fede, e se non ci si ispirasse a motivi tutt'altro che scientifici, nessuno si sognerebbe di prenderla per una testimonianza storica. 

Tra i metodi cari alla teologia per dimostrare la storicità del racconto evangelico figura la teoria di Schmiedel sui «pilastri fondamentali di una vita di Gesù vista da un punto di vista strettamente scientifico». [13] Questi pilastri sono nove in numero, nove per l'esattezza, come un gioco di birilli. Sono altrettanti tratti della vita di Gesù che, secondo Schmiedel, non avrebbero potuto essere inventati, perché non sono a vantaggio del loro eroe e mal si armonizzano con la sua natura divina; tratti, pensa Schmiedel, che gli evangelisti non avrebbero mai immaginato se non gli avessero trovati storicamente certificati nella tradizione. 

Ecco per esempio Marco 3:21, dove la madre e i fratelli di Gesù dichiarano che questi è fuori di sé. Cos'è che prova ciò? Nel Vangelo di Giovanni dove, si dice, la deificazione di Gesù raggiunge il suo culmine, si trova un tratto che è altrettanto poco a suo favore: che i suoi fratelli non credevano in lui; [14] e lo stesso evangelista fa dire agli ebrei in 10:20: «Ha un demonio ed è fuori di sé». Nel libro della Sapienza, gli empi dicono del giusto: «Giudicammo la sua vita una pazzia». In Zaccaria 13:3 i parenti del profeta attentano persino alla sua vita perché, pretendono, egli dice menzogne nel nome dell'Eterno, e quando si domanda al profeta da dove vengono le sue ferite, egli risponde: «Sono ferite che ho ricevuto nella casa dei miei amici». Il salmo 69:9 esprime la stessa idea: 

«Sono diventato un estraneo ai miei fratelli, 

uno straniero per i figli di mia madre».

Non ci sarebbe qui la fonte da cui si è attinto questo tratto, che Gesù era diventato estraneo ai suoi parenti più stretti, che lo dichiaravano pazzo? Del resto, il fatto che il narratore presenta Gesù come incompreso dalla sua cerchia, ciò non reca nessun danno alla sua grandezza. Il primo dei nove pilastri non sembra solidissimo.

Nella storia del giovane ricco, Marco 10:18, quest'ultimo chiama Gesù: «Maestro buono», e Gesù gli risponde: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo». Schmiedel pensa che nessun adoratore di Gesù ha potuto inventare ciò. In Matteo 19:16, il ricco dice: «Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?». E Gesù gli risponde: «Perché mi interroghi su ciò che è buono? Uno solo è buono». Logicamente, Gesù avrebbe dovuto continuare: Una sola cosa è buona. Schmiedel pensa quindi che Matteo si sia scontrato con il passo marciano in cui Gesù rifiuta l'epiteto di buono, motivo per cui avrebbe ritoccato i termini del suo modello. Sfortunatamente, i più antichi manoscritti di Marco omettono, come Matteo, l'aggettivo «buono» dopo «maestro». In siriaco, nella risposta di Gesù, non c'è alcuna distinzione tra la forma maschile e la forma neutra: uno solo è buono oppure una sola cosa è buona. La risposta di Gesù era quindi perfettamente logica: una sola cosa è buona: osserva i comandamenti. È solo traducendo quella risposta in greco che si è scritto: «Uno solo è buono», pensando che si trattasse di Dio. Di conseguenza, la domanda: Perché mi interroghi su ciò che è buono? dovette essere cambiata in: Perché mi chiami buono?  Essendo la sequenza così interrotta, era necessario, per ristabilirla, inserire: «Se vuoi entrare nella vita, ecc.», riprendendo così la domanda primitiva. [15] Del resto, i cosiddetti scritti ermetici attestano che un'antica usanza gnostica riservava l'epiteto di «buono» esclusivamente al Padre, rifiutandolo ad ogni altro, persino al Logos, il che non vuol per nulla dire che quest'ultimo sia un personaggio storico. Allo stesso modo Giustino vedeva nel passo marciano una prova dell'umiltà e della modestia del Salvatore, [16]  mentre altri padri apostolici interpretavano le parole di Gesù, al contrario di Schmiedel, come una prova della sua divinità, pensando che quando Gesù diceva: «Dio solo è buono» indicasse sé stesso, e che intendesse: Egli ha ragione a chiamarmi buono, perché io sono Dio.

Il terzo pilastro sarebbe l'incapacità di Gesù di compiere miracoli a Nazaret, a causa dell'incredulità dei suoi connazionali. [17] Ma questo racconto non ha chiaramente altro obiettivo se non di illustrare, in senso paolino, la virtù della fede, che ha appena gettato tutta la sua luce sugli episodi immediatamente precedenti della figlia di Giairo e della donna affetta da emorragia, e che ora, per un effetto di contrasto, si illumina di una luce ancor più viva. Vedervi una prova della storicità, ecco la sola cosa «impossibile da immaginare».

Il quarto pilastro sarebbe il grido di disperazione di Gesù sulla croce: «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?» Ma queste parole si leggono all'inizio del salmo 22, che ha anche determinato gli altri dettagli della crocifissione: il Giusto sospeso al legno, le mani e i piedi trafitti, la folla che lo deride, i soldati che tirano a sorte per la sua veste, tutto ciò è imitato dal salmo. E si vuole farci credere che Gesù ha effettivamente pronunciato queste parole? [18]

Passiamo al quinto pilastro. Questo sarebbe il rifiuto di Gesù a dare un'indicazione precisa sul giorno e l'ora del giudizio. [19] In che modo l'evangelista, fortemente imbarazzato lui stesso di dirne qualcosa, poteva mettere in bocca a Gesù una dichiarazione più precisa? Del resto, Smith ha fatto benissimo osservare che, per il fatto che Gesù si classifica lui stesso tra gli angeli e Dio, si dovrebbe concludere per la sua natura divina piuttosto che per la sua natura umana. 

Sarebbe superfluo discutere in dettaglio gli altri «pilastri». Ciò è già stato fatto da Hertlein, [20] Steudel, [21] Lublinski, [22] Robertson, [23] me stesso e soprattutto Smith [24] in un modo così dettagliato e allo stesso tempo così travolgente che sarebbe uno spreco di carta soffermarvisi ancora una volta. In generale, è una sofistica teologica che non ha il buon senso di attribuire la minima importanza al fatto che si trovano sporadicamente, nel Gesù dei vangeli, alcuni tratti che sembrano troppo umani per armonizzarsi perfettamente con la figura del Dio-uomo. Gli antichi, per mettere sulle spalle di Giove, Giunone, Venere e Marte storie abbastanza compromettenti e a volte anche oscene, non li veneravano di meno, e perfino il più virile dei loro eroi, Ercole, non si è mostrato indegno ai loro occhi per aver, nella sua furia, sgozzato i suoi stessi figli, portato vesti femminili e filato la lana per Onfale. Così non c'è più minimamente questione, negli ambienti teologici, dei nove pilastri di Schmiedel, che in passato, nella controversia sul mito di Gesù, risuonavano come i colossi di Memnone. Accade solo, qua e là, che se ne fa ancora una timida menzione da parte di qualche modesto pastore che parla della storicità di Gesù senza aver seguito l'evoluzione della controversia, e che tenta di rinnovare con loro il piccolo gioco di prestidigitazione che si sa.

Ecco quindi esaurite le ragioni interne che si fanno avanzare per la storicità dei vangeli. Tutte si sono ridotte in fumo. Senza dubbio i teologi sono occupati a fabbricare nel silenzio le nuove armi reclamate da Klostermann, poiché dal 1910 nessuna argomentazione nuova è stata avanzata contro la tesi dei negatori. A meno che non si consideri una nuova arma la creazione di una nuova scuola detta di «critica delle forme», che pretende di assicurare per via puramente filologica la storicità dei racconti evangelici. Per quella scuola, i più antichi elementi dei vangeli sarebbero stati piccoli racconti aneddotici, in cui avrebbero figurato solo tipi di personaggi puramente allegorici, racconti sprovvisti di ogni carattere individuale e che, dopo diversi rimaneggiamenti, sarebbero stati incorporati nei Vangeli. All'opposto di ciò che si verificava nel vecchio metodo, la certezza storica dei vangeli si basa quindi qui, non sulla colorazione vivida e particolarmente precisa, ma al contrario sulla vaghezza e sulla mancanza di dettagli individuali degli elementi primitivi, che del resto ci sono completamente sconosciuti. Ciò non ci dispone minimamente a prestare una grande fiducia a quella acrobazia teologica.  La maniera con cui i rappresentanti di quella ipotesi cercano di provarla, il tono ultra-prudente, timido, cauto, pieno di riserve con cui parlano di questi racconti isolati, ritenuti i più antichi, non dimostra proprio una fiducia solida nella loro costruzione. [25] Non è impossibile che la scuola filologica abbia ragione nell'affermare che i più antichi elementi dei vangeli fossero dei racconti isolati, ma chi ci garantisce che questi contenessero una storia reale? In fin dei conti, tutto ciò equivale ancora alla vecchia opinione che ciò che è storicamente possibile, per questo solo fatto, debba essere reale, e che si possa ottenere il nucleo storico dei Vangeli con una semplice sottrazione e con una minuziosa pesatura delle sillabe.

Si arriva così a domandarsi: Quale è stata, di fatto, la genesi dei vangeli e della loro figura di Gesù? 

NOTE

[1] Radical views 32.

[2] EUSEBIO, Storia della Chiesa 3:39.

[3] L. c. 

[4] Se ci fosse ancora il minimo dubbio, non sarebbe stato rimosso dal lavoro di RASCHKE, menzionato nella prefazione, che è così ben riuscito a rivelare la natura gnostica o mitica del vangelo di Marco? 

[5] Si veda Mito di Gesù II, 1914 ss.

[6] Geschichte der paulinischen Forschung von der Reformation bis auf die Gegenwart, 1911, 27.

[7] J. WEISS: Das älteste Evangelium, 1903, 136 s., 235.

[8] WELLHAUSEN, Einleitung in die drei ersten Evangelien, 1905, 51 ss.

[9] Guerra Giudaica 3:10, 8.

[10] Si veda Mito di Gesù II 324 ss.

[11] Confronta la mia opera Das Markusevangelium als Zeugnis gegen die Geschichtlichkeit Jesu, 273. 

[12] L. c. 4:29.

[13] SCHMIEDEL, Die Person Jesu im Streite der Meinungen der Gegenwart. Confronta dello stesso autore: Das vierte Evangelium gegenüber den drei ersten, Religionsgeschichtl. Volksbücher 16 ss.

[14] Confronta POTT, Der Text des Neuen Testaments nach seiner geschictlichen Entwickelung. Aus Natur u. Geisteswelt, 1906, 63 s.

[15] Contra Tryph. 150:1.

[16] Marco 6:5.

[17] Per maggiori dettagli, si veda il mio Markusevangelium 299 s.

[18] Marco 13:32.

[19] Prot. Monatschefte, 1906.

[20] Im Kampf um die Christusmythe, 1910, 88 ss.

[21] Das werdende Dogma vom Leben Jesu, 1910, 93 ss.

[22] Evangelienmythen, 228 s.

[23] Mito di Gesù II 212-225.

[24] Ecce Deus 164 ss.

[25] Confronta M. DIBELIUS, Die Formgeschichte der Evangelien (1919) e il mio resoconto del libro nella Piramide della Gazzetta di Carlsruhe (9 aprile 1922); dello stesso BULTMANN: Die Geschichte der synoptischen Tradition, 1921. 

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