domenica 13 giugno 2021

IL MITO DI GESÙ (XIII)

 (segue da qui)


2. LE TESTIMONIANZE PROFANE.

Ecco innanzitutto Giuseppe, storico ebreo. Nelle sue Antichità redatte tra gli anni novanta e cento della nostra era, scrisse, 18:3:3:

«Ci fu verso questo tempo Gesù, uomo saggio, se pure bisogna chiamarlo uomo: era infatti autore di opere straordinarie, maestro di uomini che accolgono con piacere la verità e attirò a sé molti giudei e anche molti dei greci. Questi era il Cristo. E quando Pilato per denuncia degli uomini notabili fra noi lo condannò alla croce, non cessarono coloro che da principio lo avevano amato. Egli infatti apparve loro al terzo giorno nuovamente vivo, avendo già annunciato i divini profeti queste e migliaia d'altre meraviglie riguardo a lui. Ancora oggi non è venuta meno la tribù di quelli che da costui sono chiamati Cristiani».

Che questo passo sia un falso manifesto, ciò è concesso attualmente persino da un gran numero di cattolici romani, che però non esitano a considerare come fatti storici la resurrezione di Gesù e le «mille altre meraviglie» che gli sono attribuite. Questo passo interrompe il contesto in una maniera insolita in Giuseppe, perché prima e dopo si parla di calamità che hanno colpito gli ebrei sotto Pilato. L'autore prosegue immediatamente: «Nello stesso tempo un'altra terribile disgrazia colpì i Giudei», occorrerebbe dunque che Giuseppe avesse considerato la crocifissione di Gesù una tale calamità, supposizione che sarebbe assolutamente puerile. Un ebreo come Giuseppe non si sarebbe mai sognato di vedere in Gesù il Messia. Origene (nella prima metà del terzo secolo) dichiara espressamente che Giuseppe non aveva visto in Gesù il Cristo, ovvero il Messia atteso. Il passo era sconosciuto prima di Eusebio (320 circa), e nel XVI° secolo Vossio possedeva un manoscritto di Giuseppe che non conteneva una parola di Gesù. Se nondimeno i teologi fanno degli sforzi disperati per ricavare da questo passo un argomento a favore del loro Gesù storico, sia dichiarando il passo rimaneggiato, sia affermando che una mano cristiana l'ha sostituito ad un altro passo riguardante Gesù e i cristiani, ma senza dubbio ostile a loro riguardo, tutto ciò suona vuoto e non è altro che chiacchiera puerile.

È altrettanto puerile, come fanno i teologi, voler spiegare il silenzio di Giuseppe, che non si comprende più non appena si suppone la storicità di Gesù e l'esistenza di un numero apprezzabile di suoi seguaci. Si dice che Giuseppe ha intenzionalmente passato sotto silenzio il movimento messianico che fermentava in seno al suo popolo, al fine di non presentare gli ebrei agli occhi dei suoi lettori romani come una nazione di ribelli. Ma i Romani conoscevano questo movimento certamente altrettanto bene dello storico ebreo; quest'ultimo del resto non esita a menzionare personaggi molto meno significativi di Gesù, come il Samaritano, [1] Giuda il Galileo [2] e Teuda, [3] che tentarono di incitare il popolo ebraico ad una ribellione messianica. Egli non temeva nemmeno di vantare l'eroismo e la fermezza di Giuda! E se la messianicità del Nazareno gli sembra particolarmente compromettente e passibile di ispirare ai Romani della diffidenza contro il suo popolo, perché non insegna allora ai Romani che gli ebrei stessi si sono allontanati da Gesù e lo hanno consegnato alle autorità romane a causa delle sue pretese alla regalità? Perché avvolge di mistero un affare che, sembra, doveva tendere a scagionare il suo popolo piuttosto che ad accusarlo agli occhi dei suoi oppressori? Perché era ostile ai cristiani? Ragione in più per farne menzione, al fine di denigrarli agli occhi dei Romani. Resta il fatto che la risposta più naturale a tutte queste domande è questa: Giuseppe ignorava tutto di Gesù e di una setta messianica di cristiani che al suo tempo avrebbe già svolto un ruolo apprezzabile nella vita degli ebrei, vale a dire che tutto ciò che i cristiani pretendono di sapere su questo punto è fittizio. Se questo silenzio di Giuseppe, come vuole Heitmüller, non deve in alcun modo servire da argomentazione contro la storicità di Gesù, [4] vi è là un mistero di cui lui solo possiede la chiave. 

Esiste in Giuseppe (Antichità 20:9:1) un altro passo dove è detto che al momento in cui il governatore Felice era appena morto e il suo successore Albino non era ancora arrivato, Anano (Anna) il Giovane consegnò alla giustizia Giacomo, «fratello di Gesù detto Cristo», e lo fece lapidare con alcuni altri per infrazione alle leggi (anno 62 della nostra era). Quella nota sul «fratello di Gesù» è comprensibile solo se si suppone autentico il passo citato più sopra, perché i due testi sono uniti: Origene, che perlustrò gli scritti della sua epoca per trovarvi indicazioni su Gesù, non conosce né l'uno né l'altro, ma nella sua opera contro Celso fa menzione di un terzo passo in cui Giuseppe vedeva nella distruzione di Gerusalemme nell'anno 70 un castigo degli ebrei che avevano fatto morire Giacomo. Essendo quella nota assente nei manoscritti di Giuseppe pervenuti fino a noi, essa prova semplicemente lo zelo col quale si è falsificato, di buon'ora, il testo di Giuseppe, per completarlo secondo il gusto dei cristiani. Un tale testo non poteva ispirare alcuna fiducia, ecco perché questa seconda pretesa testimonianza di Giuseppe è stata dichiarata falsa, in tutta franchezza e lealtà, da teologi rinomati come Schürer, [5] Zahn [6] e Niese, l'editore e conoscitore più competente del testo di Giuseppe. [7]

Nella «Storia dei Giudei» di Giuseppe, si legge un passo singolare, troppo poco notato fino a questo giorno; esso tratta della flagellazione, davanti al governatore romano, di un certo Gesù, figlio di Anano. Venendo a Gerusalemme per la festa dei tabernacoli, avrebbe fatto riecheggiare per le strade della città il suo «guai a te!», imprecazione identica a quella che lanciò contro Gerusalemme il Gesù dei vangeli. Arrestato e flagellato fino alle ossa, egli si astenne, proprio come il Gesù dei vangeli, dall'implorare pietà o dal maledire i suoi torturatori, finché alla fine il governatore, vedendo che aveva a che fare con un folle, gli rese la libertà. Subito dopo, durante l'assedio di Gerusalemme, questo pazzo fu ucciso dai Romani.

Come si può immaginare che l'autore che riporta quanto detto di Gesù figlio di Anano, abbia conosciuto l'altro Gesù, figlio di Giuseppe? Se lo ha conosciuto, non doveva essere colpito dalla sconcertante coincidenza della sorte di questi due uomini, e poteva allora passare sotto silenzio il figlio di Giuseppe ? O dobbiamo credere che la stessa storia sia capitata due volte di seguito, in poco tempo, nello stesso luogo, ciascuna volta ad un uomo chiamato Gesù? Questi due racconti possono sussistere l'uno accanto all'altro? No, si deve scegliere tra queste due alternative, o la storia riportata da Giuseppe è imitata dai vangeli, oppure il racconto della passione nei vangeli ha subito l'influenza di Giuseppe. Ora, è impossibile immaginare per quale ragione Giuseppe avrebbe attinto dai vangeli, di cui da nessun'altra parte si preoccupa, proprio quella storia, che non è di alcun interesse per l'insieme della sua opera. Giuseppe si afferma sempre di più come un testimone non solo negativo, ma che reca anche una testimonianza decisamente positiva contro la storicità del racconto evangelico.

Del resto, sarebbe inutile soffermarsi troppo sulla presunta testimonianza di Giuseppe. Harnack ha avuto, come si esprime Heitmüller, «la singolare audacia» di voler difendere con l'inglese Burkitt, contro tutti, il primo dei passi citati di Giuseppe. [8] Il filologo Norden replica: «Si può sperare che d'ora in avanti la testimonianza degli ebrei a favore di Gesù Cristo sparisca definitivamente dalla scena; quantomeno questo sarebbe altamente auspicabile. Deplorerei amaramente se, malgrado tutto, nel nostro secolo di lumi, si formassero di nuovo partiti che risveglierebbero le controversie alle quali questa testimonianza ha dato luogo nel XVII° e XVIII° secolo». [9] A dire il vero è improbabile che questa speranza si realizzi. Gli interessati, per arrivare ai loro scopi, hanno un bisogno troppo pressante del passo di Giuseppe. È quindi improbabile che si lascino influenzare dallo storico berlinese Edouard Meyer che, nonostante le sue opinioni conservatrici e persino retrograde, ha appena abbandonato l'autenticità di questo passo. [10]

Tra le testimonianze ebraiche su Gesù si è soliti contare anche alcuni passi del Talmud, collezione di scritti rabbinici che vanno dal 100 A.E.C. al 600 E.C. Sfortunatamente non hanno il minimo valore storico: in molti casi è addirittura necessario domandarsi se il Talmud, quando parla di Gesù, si riferisca al Gesù dei Vangeli oppure a uno qualunque dei suoi omonimi. Esso parla di un Gesù figlio di Pandira (Panthera), che sarebbe stato lapidato e impiccato a Gerusalemme sotto Alessandro Ianneo (106-79), la vigilia della pasqua, per aver bestemmiato Dio. Ma in un altro passo lo identifica ad un certo Gesù ben Sotada, Stada o Stadta (Satda) che sarebbe vissuto, a quanto sembra, all'epoca del famoso Rabbino Akiba negli anni 130 e successivi della nostra era, e che sarebbe stato anche lapidato e impiccato alla vigilia della pasqua, ma a Lydda in Asia Minore, invece che a Gerusalemme. Egli ignora quale dei due fosse Gesù il «Nazareno», e del resto ciò che dice di Gesù è così ovviamente solo un'eco dell'odio che più tardi gli ebrei nutrirono contro il «fondatore del cristianesimo», e si rivela dipendente così chiaramente dalla tradizione cristiana, che tutto ciò che si potrebbe dirne sarebbe troppo. Il modo in cui i teologi, Jülicher tra gli altri, hanno cercato di sfruttare il Talmud a favore della storicità di Gesù fa un'impressione penosa e che muove a pietà. Lo stesso Heitmüller è costretto a concedere: «Ciò che si trova di Gesù nella letteratura rabbinica e negli scritti che le fanno seguito è soprattutto un'odiosa caricatura di certi elementi della tradizione evangelica; ma questi documenti non offrono alcun dato storico». Motivo per cui occorre che aggiunga: «Comunque, così come sono, per la loro semplice presenza, essi sono una testimonianza eloquente della ripercussione che ha avuto, nel giudaismo, la personalità di Gesù, dunque una testimonianza che attesta il fatto della sua esistenza». [11] Ammirevole logica! Si riscontrano ai nostri giorni, nella letteratura di tutti i popoli civilizzati, allusioni alle divinità olimpiche. C'è quindi una testimonianza eloquente a favore dell'esistenza storica di Giove e di tutta la sua piccola famiglia!

Tutto sommato, non esiste testimonianza ebraica a favore della storicità di Gesù. Passiamo quindi alle testimonianze romane. 

Lo storico Svetonio (77-140), nella sua vita di Claudio (cap. 25), osserva che l'imperatore espulse gli ebrei da Roma perché su istigazione di Cresto provocarono incessanti scontri. È curioso che Giuseppe ignori completamente questo fatto. Al contrario, egli parla di Claudio con benevolenza, e sappiamo che in generale quest'ultimo non era ostile agli ebrei. Egli avrebbe persino promulgato due editti per proteggere gli ebrei di Alessandria contro i Greci, avrebbe arricchito il loro re Agrippa con donazioni importanti, avrebbe ricevuto i loro ambasciatori con benevolenza e avrebbe saputo guadagnare così bene il loro affetto che Petronio, governatore della Siria, dovette persino moderare il loro zelo per l'imperatore. Solo gli Atti degli Apostoli menzionano l'editto che Claudio avrebbe emesso contro gli ebrei per espellerli da Roma (Atti 18:2), e Orosio pretende di aver egualmente letto questo fatto in Giuseppe, mentre esso manca nei testi dello storico ebreo pervenuti fino a noi. Si può quindi sospettare che quella nota sia passata dagli Atti in Svetonio, tanto più che secondo gli Atti, il modo in cui gli ebrei di Roma, al tempo di Nerone, avrebbero ricevuto Paolo e sarebbero stati refrattari alla sua predicazione dell'imminenza del regno di Dio, non permette proprio di concludere per un terreno particolarmente favorevole a questo tipo di utopie sovversive. 

Quel che ne sia, il passo citato non può prestare in alcuna maniera il minimo appoggio all'ipotesi della storicità di Gesù, perché noi ignoriamo assolutamente chi fosse questo Chrestus che si dice abbia incitato gli ebrei a provocare tumulti. Il nome Chrestus era molto diffuso a Roma, soprattutto tra i liberti, e qui può perfettamente designare sia il Cristo dei vangeli che alcuni greci convertiti al  giudaismo. Se invece si vuole leggere Christus per Chrestus, non vi è là che una traduzione latina della parola Messia, e il passo significa tutt'al più che i disturbi fomentati dagli ebrei di Roma avevano per causa la loro attesa del Messia. «Tra gli ebrei dell'epoca, il movimento messianico, cioè ispirato dall'idea del Cristo, era così potente che il grido di raccolta Messia-Cristo poteva difficilmente sfuggire ad un pagano. Era l'idea del Messia che imprimeva a questo movimento il suo carattere distintivo, ed ecco perché questo movimento sembrava così pericoloso alle autorità. Non poteva trattarsi di Gesù, e ciò risulta già dal fatto che gli incessanti tumulti degli ebrei erano solo il seguito dei disordini precedenti e precristiani che si erano verificati sotto Tiberio». [12]

Ma la testimonianza di Tacito! Ecco il grande asso nella manica che ci tirano fuori i difensori della storicità di Gesù. Questa sarebbe stata messa al riparo da tutti i dubbi da «un uomo del valore di Tacito, grande storico romano». Nel 15° libro dei suoi Annali, capitolo 44, in occasione dell'incendio di Roma sotto Nerone nell'anno 64, Tacito scrive che l'imperatore, per distogliere i sospetti dalla sua persona, accusò i cristiani e condannò a pene particolari quelle persone che il popolo odiava per le loro infamie. «Prendevano il loro nome da Cristo, che sotto l’imperatore Tiberio era stato condannato al supplizio dal procuratore Ponzio Pilato. Momentaneamente soffocata, questa rovinosa superstizione si diffondeva di nuovo, non solo per la Giudea, origine di quel flagello, ma anche per Roma, dove da ogni parte confluiscono e trovano seguaci ogni sorta di atrocità e cose vergognose. Perciò, inizialmente vennero arrestati coloro che confessavano, quindi, dietro denuncia di questi, fu condannata una grande moltitudine, non tanto per l’accusa dell'incendio, quanto per odio del genere umano. Inoltre, a quelli che andavano a morire si aggiungevano beffe: coperti di pelli ferine, perivano dilaniati dai cani, o venivano crocifissi oppure arsi vivi in guisa di torce, per servire da illuminazione notturna al calare della notte. Nerone aveva offerto i suoi giardini e celebrava giochi circensi, mescolato alla plebe in veste d’auriga o ritto sul cocchio. Perciò, benché si trattasse di rei, meritevoli di pene severissime, nasceva un senso di pietà, in quanto venivano uccisi non per il bene comune, ma per la ferocia di un solo uomo».

Se si volesse riferire questo passo, si dovrebbe dapprima sapere da quale fonte Tiberio ha attinto queste informazioni sul Cristo. Si vorrebbe convincersi che egli abbia ricavato i suoi dati dai verbali del Senato e dagli archivi ufficiali — Mommsen lo ha preteso, e i suoi emulatori lo hanno ripetuto in tutta fiducia. Però anche un avversario del mito di Gesù così implacabile come il teologo Johannes Weiss scrive: «Che lui stesso o qualcun altro abbia esaminato una relazione di Ponzio Pilato nei verbali del senato, ecco un'ipotesi che non vorrei difendere, al fine di non appesantire con una improbabilità quella questione semplicissima». [13] Si legge anche nel Handbuch für klassische Altertumswissenschaft (Manuale della Scienza dell'Antichità classica): «Nella storiografia antica era molto raro attingere dagli archivi; e Tacito ha prestato solo pochissima attenzione agli acta diurna e ai verbali del senato. [14] Hermann Schiller dice addirittura nella sua Geschichte des römischen Kaiserreiches unter der Regierung des Nero (Storia dell'Impero romano sotto il regno di Nerone, 1872): «Si è soliti vedere in Tacito il modello di uno storico; questo elogio può essere giustificato sotto molti aspetti, ma non deve comprendervi la critica delle fonti né il lavoro d'investigazione personale, cose che anche in Tacito si tengono ad un livello sorprendentemente basso. Non si è mai dedicato allo studio degli archivi». [15]  Del resto è alquanto improbabile che un rapporto speciale sia stato inviato a Roma sulla morte di questo marginale ebreo che era Gesù, e che questo rapporto sia stato inserito nel verbale del senato: «Tra le vicende della storia romana dell'epoca, l'esecuzione di un carpentiere di Nazaret, agli occhi dei personaggi ufficiali, era priva di ogni interesse; essa scomparve nel numero incalcolabile dei supplizi decretati dall'amministrazione romana nelle province. Sarebbe la più grande coincidenza del mondo se ne fosse fatta menzione in qualche nota ufficiale». [16] Queste sono le cose che poteva affermare un Tertulliano che, nella sua apologia del cristianesimo (cap. 21), rimanda le persone che dubitavano della storia evangelica agli archivi romani dove sarebbe conservata una relazione speciale di Pilato a Tiberio. Ma quando ai nostri giorni si sostengono e anche si pubblicano affermazioni di questo genere, ciò non manca di un certo sapore. Bruno Bauer ride di questo: «Benché poco versato nello studio degli archivi, egli (Tacito) ha dovuto ricavare il fatto che il fondatore del cristianesimo fu condannato a morte dal governatore Ponzio Pilato dagli stessi archivi ufficiali dove Tertulliano ha scoperto una nota che riportava che, al momento della morte di Gesù, il sole si era oscurato in pieno giorno». [17]

Se Tacito avesse effettivamente attinto dagli archivi ufficiali la sua nota sul fondatore del cristianesimo, è probabile che, data l'accuratezza e la sicurezza tanto vantate delle sue informazioni, avrebbe dato al crocifisso il suo vero nome Gesù, e non l'avrebbe semplicemente designato sotto il nome Cristo, cioè Messia. Oppure la relazione ufficiale avrebbe semplicemente recato che il «Salvatore» fu ucciso da Pilato? Hertlein ha ragione: «Più si vanta, al fine di dare peso alla testimonianza di Tacito, la scrupolosa accuratezza di questo storico, meno si può prendere la sua parte in assenza del vero nome di Gesù». [18] Il fatto che Tacito parli solo del Cristo, cioè che indichi il fondatore del cristianesimo con il suo appellativo cultuale, tradisce chiaramente o che questo passo è stato scritto da un cristiano, oppure che Tacito prende le sue informazioni indirettamente, per sentito dire, dai cristiani. Quando Tacito scrisse i suoi annali intorno all'anno 117, la tradizione cristiana su Gesù era già fissata, perlomeno nelle sue linee generali, ed è possibilissimo, come pensa Ed. Meyer, che Tacito abbia semplicemente attinto le sue informazioni dal credo, di cui ha potuto aver conoscenza dai processi contro i cristiani. [19] Quella considerazione è sufficiente ad annullare la famosa testimonianza di Tacito a favore della storicità di Gesù. Anche Heitmüller, che non può sufficientemente indignarsi del fatto che si osi dubitare della forza conclusiva del passo di Tacito, e che pensa che ogni persona non prevenuta non può che riconoscervi una testimonianza inconfutabile, perde qui tutto il suo aplomb per confessare: «Non si può contestare la possibilità che la nota di Tacito risalga alla tradizione cristiana, cioè che non costituisca un'informazione indipendente». Egli ritiene, è vero, che quella probabilità sia «delle più deboli (?), e che data la maniera generale di Tacito (quale maniera?), l'ipotesi può essere quasi interamente scartata. Ma il problema è di una tale importanza che lo studioso cristiano deve, prima di tutto, applicarsi con una preoccupazione scrupolosa ad evitare di appoggiarsi su qualcosa di incerto (noi lo sappiamo), e di conseguenza tener conto anche di quella possibilità». [20]

Dopo aver preso atto di tutte queste concessioni, potremmo non più preoccuparci di Tacito. Ma l'argomento è troppo attraente per non esaminarlo più da vicino. In effetti, cosa si deve pensare del racconto di Tacito nel suo insieme? 

Se lo esaminiamo senza preconcetti, si arriva a trovarlo, in tutte le sue parti, inverosimile. È improbabile che Nerone abbia avuto qualcosa a che fare con l'incendio di Roma, oppure che il popolo gli abbia creduto. Tacito stesso non osa incriminarlo, e Svetonio, che gli fa personalmente appiccare il fuoco e, in costume teatrale, gli fa cantare la presa di Troia sulla torre di Mecenate dell'Esquilino, conta nel numero dei benefici dell'imperatore le misure che prese per impedire a Roma gli incendi troppo frequenti, il che mal si addice ai passi in cui incolpa l'imperatore di aver dato fuoco alla capitale. Secondo Tacito, Nerone risiedeva ad Anzio al momento in cui scoppiò l'incendio, a trenta miglia da Roma. Come credere che un collezionista così appassionato, che aveva accumulato nel suo palazzo tesori inestimabili, abbia potuto, a cuor leggero, esporli al rischio di un incendio eclatante nelle sue immediate vicinanze, semplicemente per godersi l'aspetto della città in fiamme? In queste condizioni, come poteva essere sospettato di aver dato fuoco alla capitale? Ogni atteggiamento dell'imperatore durante e dopo la catastrofe, come esso è descritto in Tacito, è assolutamente quello di un monarca saggio e benevolo che cerca di fermare il flagello. Svetonio ignora ogni diceria popolare che avrebbe circolato a questo proposito, e secondo Tacito Nerone non vide affatto diminuire la grande popolarità di cui godeva. Così gli aristocratici congiurati contro di lui non osarono intraprendere nulla, e nel processo intentato contro di loro il popolo non prese per nulla la loro posizione. La nota di Tacito non è confermata né dai poeti né dagli altri autori. Lo accusano, come Giovenale, dei peggiori misfatti. Ma non si sognano nemmeno di vedere in lui un incendiario; non lo si trova indicato come tale negli innumerevoli versi satirici fabbricati contro di lui, e che egli trattava con il più sovrano disprezzo. 

Ecco un imperatore che, si dice, si preoccupava pochissimo di ciò che poteva pensare la folla delle sue malefatte! Quale motivo lo avrebbe dunque spinto a deviare i sospetti sui cristiani? E da dove traeva la sua conoscenza dei cristiani? Il popolo, dice Tacito, li odiava per le loro infamie. Quali erano queste infamie? È un vero rompicapo: è improbabile che i cristiani, che agli occhi dei Romani si confondevano con gli ebrei, fossero stati oggetto, da parte del popolo, di un'animosità eccezionale. Secondo Tacito, sarebbero stati accusati di odio nei confronti del genere umano. Ma questa accusa di «odium humani generis» ricorda in modo sospetto 1 Tessalonicesi 2:15, dove è detto degli ebrei che non piacciono affatto a Dio e che sono nemici di tutti gli uomini; essa sembra essere stata ispirata direttamente a Tertulliano che riporta che i cristiani suoi contemporanei erano stati accusati di essere i «nemici del genere umano», [21] incriminazione che poteva essere creduta all'epoca di Tertulliano verso la fine del secondo secolo, e che è del resto confermata dagli autori di quell'epoca, [22] ma che all'epoca di Nerone sarebbe stata una cosa alquanto inverosimile.  

Del resto, il termine cristiano, di cui si serve Tacito, non era ancora in uso allora, e non si trova in nessun altro autore dell'epoca. Anche Dione Cassio (III secolo) e la sintesi della sua opera dovuta al monaco Xifilino parlano ancora dei cristiani perseguitati sotto Diocleziano come se appartenessero alla religione ebraica. I cristiani stessi si davano il nome di Nazareni, Iesseni, Eletti, Santi, Fedeli, ed erano generalmente considerati ebrei. Osservavano la legge di Mosè, e il popolo non poteva distinguerli dagli altri ebrei. Ma che Tacito, come pensano Voltaire e Gibbon, abbia impiegato il nome diffuso alla sua epoca per designare i settari ebrei sotto Nerone, ciò sembra improbabile per la semplice ragione che il nome Cristo non significa altro che Messia, e tutti gli ebrei senza eccezione speravano nel Messia, per cui erano tutti in un certo senso dei cristiani. Mal si comprende quindi come il fatto di essere un cristiano potesse distinguere, all'epoca di Nerone o di Tacito, i seguaci di Gesù dagli altri che credevano al Cristo. Ciò ha potuto essere il caso solo in un periodo in cui il ricordo degli altri personaggi numerosi che avevano rivendicato la dignità messianica si era svanito, quando la fede nel Messia era diventata la fede in Gesù, considerato non come un Messia ma come il Messia, e quando il Cristo e Gesù erano diventati sinonimi. [23] È così che si spiega il fatto singolare che abbiamo rilevato: che Tacito parla del Cristo e non di Gesù.

Però le implausibilità del racconto di Tacito non si fermano qui. Esso dice che si arrestò dapprima quelli che confessarono. Chi confessarono cosa? Alcuni pensano: la loro fede in Gesù. Ma i cristiani non avevano ancora, in quel periodo, un credo proprio. Sotto Nerone, i cristiani e la loro fede non avevano ancora attirato l'attenzione del popolo, soprattutto il loro credo non li avrebbe resi criminali, agli occhi dei Romani. [24] Altri suppongono: confessarono di aver appiccato l'incendio. In tal caso questa non sarebbe stata una persecuzione dei cristiani come la presenta Tacito, ma una semplice misura di polizia! In quell'occasione una «grande moltitudine» sarebbe stata consegnata alla morte. Esagerazione ridicola, che ricorda troppo chiaramente le esagerazioni dello stesso genere negli Atti e in altri scritti cristiani. Però, nella prima metà del III° secolo, Origene nota espressamente che il numero di coloro che subirono la morte per la loro fede era «allora insignificante e facile da contare!» [25] Infine è difficile vedere una verità storica nel fatto che Nerone, nei suoi giardini,  fece bruciare i cristiani come torce viventi. Infatti secondo Tacito questi giardini servivano da rifugio alle vittime dell'incendio ed erano affollati da tende e da baracche di legno che avrebbero potuto causare facilmente un nuovo incendio, per non parlare dell'idea stravagante che presenta la folla che passava la notte a rallegrarsi attorno a quella carne umana che brucia, e Nerone che si mescola alla plebaglia per gustarsi questo spettacolo allucinante, questo stesso Nerone, secondo quanto dice Tacito nella sua Vita di Agricola, distoglieva lo sguardo dai crimini che aveva lui stesso ordinato.

Più si penetra il racconto di Tacito, più sembra enigmatico. H. Schiller vede giusto quando dichiara questo passo «uno dei più difficili in questo autore sentenzioso (!). Si direbbe quasi che abbia voluto, nel suo racconto, proporre ai posteri un enigma che non aveva potuto risolvere da solo». [26] Allo stesso modo, E. Arnold nella sua opera Die neronische Christenverfolgung (La persecuzione dei cristiani sotto Nerone, 1888) fa sottolineare «quanto quella nota, che si era sempre creduta semplicissima e facilmente comprensibile, sia stata effettivamente poco compresa». [27] Bruno Bauer aveva già segnalato le difficoltà del racconto di Tacito. [28] Studiosi stranieri come l'olandese Pierson [29] e l'inglese Edwin Johnson hanno contestato la sua autenticità. Infine la dimostrazione completa della sua non-autenticità è stata data dal francese Hochart, in un libro appositamente dedicato a questo tema, Étude au sujet de la persécution des chrétiens sous Néron (1885). È quindi chiaramente contrario alla verità affermare, come hanno fatto certi teologi, che eccezion fatta per i negatori della storicità di Gesù, nessuno ha mai messo in dubbio l'autenticità del passo 15:44 degli Annali di Tacito. W. B. Smith ha dimostrato che, anche dal punto di vista puramente filologico, le sue fondamenta non sono così solide come si vorrebbe persuadere. Il suo stile, di cui si ama vantare, nei confronti degli scettici, il carattere autenticamente tacitiano, non è privo di critiche, senza contare che un abile interpolatore imita qualsiasi stile, gioco al quale si presta particolarmente uno stile così ricercato e originale come quello dell'autore degli Annali. [30]

Ciò che deve soprattutto rendere sospetto il racconto di Tacito è il silenzio assoluto di altri autori antichi sulla presunta persecuzione dei primi cristiani sotto Nerone, in connessione all'incendio di Roma. Se c'è uno che, più di tutti gli altri, avrebbe dovuto parlarne, questo sarebbe Giuseppe, perché erano degli ebrei, suoi connazionali, che avrebbero dovuto morire in quell'occasione, e se si incriminava i cristiani per aver appiccato l'incendio, ciò doveva essere, ai suoi occhi, un'accusa diretta contro gli ebrei. Giuseppe stesso soggiornava allora a Roma, e frequentava la casa di Poppea e negoziava per il tramite di quest'ultima con Nerone. Come poteva ignorare la persecuzione degli ebrei che credevano in Gesù, e come poteva ancora una volta passarli sotto silenzio? Quale terribile accusa doveva essere per i cristiani aver dato fuoco alla capitale dell'universo! Eppure, non vediamo un solo oppositore pagano del cristianesimo sollevare questa denuncia contro gli ebrei, pure abbastanza detestati, e nessuno scrittore cristiano dei secoli che seguiranno sembra sospettare che un numero significativo di cristiani abbia già sofferto la morte sotto Nerone e, quel che è peggio, che siano stati presi per incendiari. Quando parlano di una persecuzione dei cristiani sotto Nerone, i loro racconti si riferiscono tutt'al più all'esecuzione di Pietro e Paolo. Se i cosiddetti Atti di Paolo sembrano fare un'eccezione attribuendo a Nerone, con la morte degli apostoli, quella di un numero di cristiani così grande che i Romani stesso si indignarono, temendo che la nazione ne fosse indebolita, si sa che questo scritto, originario senza dubbio dell'Asia Minore, non ha alcun valore storico; In particolare, il testo in questione è così confuso e così inverosimile, diremmo persino così assurdo, che possiamo fare a meno di discuterlo, soprattutto perché nessuno può fissare il periodo in cui fu fabbricato questo fatto dedicato alla maggiore gloria dell'apostolo Paolo: L'editore degli Apocrifi del Nuovo Testamento Apocrifo lo crede originario dell'ultimo quarto del secondo (!) secolo; [31] Geiser, nella sua Geschichte Roms und der Päpste im Mittelalter (Storia di Roma e dei papi nel medioevo, volume I), crede che risalga tutt'al più al V° secolo. [32

Dopo l'antichità, anche tutto il Medioevo sembra completamente ignorare la persecuzione dei cristiani sotto Nerone: le innumerevoli leggende dei martiri e dei santi, che pure amavano, con una voluttà perversa, vantarsi nelle torture subite dai cristiani, così come i cronisti dell'epoca, i Freculfo, il Vincenzo de Beauvais, i Giacomo da Varazze. Nessuno di questi autori vi fa la minima allusione, anche quando trattano di Nerone. Nella sua Divina Commedia, Dante assegna un posto nell'inferno a tutti coloro che, nel corso della storia, si sono distinti per i loro crimini: Nerone non è annoverato, mentre se questo poeta attaccatissimo alla Chiesa avesse conosciuto i metodi attribuiti a Nerone contro i cristiani, questo primo persecutore dei cristiani gli sarebbe sembrato particolarmente degno di arrostire nell'inferno. Dante si reca a Roma per il giubileo del 1300 e menziona la processione dei pellegrini che vanno a San Pietro passando il ponte Sant'Angelo. Ha sotto gli occhi gli antichi giardini di Nerone, nel punto in cui si erge attualmente il Vaticano, lo stesso dove si suppone che le torce viventi avevano illuminato la notte, — e non una parola delle persecuzioni! Lo studioso Villani che era a Roma con Dante, nella sua Storia di Firenze 8:36, descrive i ricordi dell'antichità che egli ha evocato in quell'occasione: passa sotto silenzio l'incendio di Roma e la persecuzione dei cristiani che ne sarebbe derivata. [33]

Per la prima volta, si vedono emergere i vaghi contorni di quella storia di briganti nella corrispondenza di Paolo con il filosofo Seneca, ma fin dalla sua pubblicazione nel XV° secolo, quella corrispondenza fu immediatamente riconosciuta per un falso grossolano. Si trova in seguito un quadro più dettagliato della persecuzione nella Chronica o Historia sacra di Sulpicio Severo, dell'inizio del V° secolo, in parte con gli stessi termini di Tacito, il cui stile in generale è stato «abilmente» (!) imitato dall'autore. [34] Ma è fin troppo evidente che questo scritto non è dovuto alla penna del discepolo del vescovo san Martino di Tours. Anch'esso risale al XV° secolo (1420 ss.), epoca alla quale fu riesumato da Poggio Bracciolini, altrettanto famoso per i suoi studi umanistici che per le sue scoperte e le sue vendite di antichi manoscritti. Ma è singolare che esso fu pubblicato solo nel 1556 da Flach Frankowits. È un falso manifesto, dovuto con ogni probabilità allo stesso Poggio. L'autentica Chronica di Sulpicio Severo è stata scoperta dallo spagnolo Henrique Florez verso la metà del XVIII° secolo in un manoscritto del XIII° secolo, e pubblicata nella Espana sagrada. Non c'è una parola sulla persecuzione dei cristiani sotto Nerone. Nel mondo scientifico questo fatto sembra essere passato piuttosto inosservato. Solo Holder-Egger ne ha trattato in una tesi di inaugurazione di Gottinga sotto il titolo Ueber die Weltchronik des sog. Severus Sulpicius und südgallische Annalen des fünften Jahrhunderts (La cronaca universale del presunto Severo Sulpicio e gli Annali della Gallia meridionale del V° secolo, 1875).

Se si pensa all'interesse fondamentale che doveva avere per la Chiesa la prima persecuzione dei cristiani sotto Nerone e il martirio di quei miserabili torturati nei giardini di Nerone nel punto stesso dove si ergono oggi la chiesa di San Pietro e il Vaticano, non si comprende perché uno storico come Tacito sia restato ignorato per tutto il medioevo e perché i suoi scritti, soprattutto gli Annali, abbiano attirato così poca attenzione da parte dei monaci che, nei chiostri, passavano il loro tempo a copiare i manoscritti. Infatti, tutto ciò che ci è pervenuto degli Annali di Tacito è un frammento designato sotto il nome di Codex Mediceus I e II e conservato nella biblioteca mediceo-laurenziana di Firenze; tutte le altre edizioni ne sono copie. Di questi due codici, il Codex Mediceus II contiene la fine degli Annali e l'inizio delle Storie, ed è stato scoperto nel 1429 da Poggio Bracciolini, mentre il Codex Mediceus I contiene l'inizio degli Annali ed è stato ritrovato nel 1515 sotto il papa Leone X. Le circostanze nelle quali questi due codici sono stati scoperti sono più singolari e più sospette. Né Poggio né quello che pretende di aver ritrovato il Codex I hanno mai dichiarato in modo netto e perentorio come sono entrati in possesso di questi preziosi manoscritti. I due scritti contengono errori così numerosi e anacronismi così evidenti che è molto difficile attribuirli ad un distinto autore romano. Hochart ha anche dimostrato che essi contengono compilazioni di autori greci che furono introdotti in Italia alla fine del XIV° e all'inizio del XV° secolo, Xifilino, la cronaca di Zonara il bizantino, Plutarco, Giuseppe e Strabone, ai quali vengono ad aggiungersi Svetonio, Paolo Orosio e Ammiano Marcellino, e si vede chiaramente che è Tacito che dipende da questi autori, e non viceversa questi autori che dipendono da Tacito.

Un esame più approfondito delle fonti di Tacito, all'occasione di un concorso aperto nel 1891 dall'Accademia francese d'Iscrizioni e Belle Lettere, intrapreso dal professore di Lione il signor Philippe Fabia, [35] conduce a questo risultato, che lo storico romano non è abituato a utilizzare dei documenti originali: secondo Fabia, le sue fonti sono quasi tutte di seconda mano; al posto dei racconti originali egli riproduce ciò che dicono gli storici suoi predecessori, ed è stato fortemente sopravvalutato perché ci si era sempre attenuto unicamente a lui senza confrontarlo con le sue fonti. [36] Tutti gli autori da cui ha attinto Tacito, che citi o meno i loro nomi, sono perduti, dice Fabia; non si può quindi constatare se li abbia effettivamente seguiti. Se Fabia ha tentato di spiegare in un altro modo le concordanze — che non nega peraltro — del racconto, delle considerazioni, dello stile e persino dei termini con gli autori indicati più sopra, Hochart ha dimostrato con argomentazioni perentorie che questi sforzi sono vani, e ha cercato lui stesso di dimostrare tramite un esame della scrittura, della pergamena, della tecnica dei copisti, ecc., che i due codici risalgono al XV° secolo. Egli vuole così fornire la prova che gli Annali e le Storie di Tacito, sotto la maschera dello storico romano, trattano le questioni politiche, ecclesiastiche, religiose e filosofiche che agitavano allora l'Italia, ed è a quella circostanza che esse devono questo stile vivace e colorato a giusto titolo tanto vantato.

In ogni caso, una supposizione che sembra imporsi è questa: il falso Sulpicio Severo e il passo 15:44 degli Annali sono stati fabbricati unicamente nell'interesse del papato, al fine di procurare al papa dopo il suo ritorno da Avignone una residenza di tutta sicurezza ai piedi del Vaticano, sulla riva destra del Tevere, in prossimità immediata del Castello di Sant'Angelo, in cambio della sua ex residenza del Laterano, sulla riva sinistra e sul limite estremo della città, dove era esposto a frequenti rivolte popolari e alle violenze dei signori. Si trattava allora di immaginare un legame tra la nuova residenza papale e la tradizione ecclesiastica. Si poteva trovare di meglio che affermare che in questo stesso punto, negli antichi giardini di Nerone, presso la Chiesa di San Pietro, i primi cristiani di Roma avevano suggellato la loro fede con il loro sangue? La supremazia della Chiesa romana su quella di Bisanzio poteva essere meglio motivata e garantita rispetto ad un documento che attestava che, dal tempo di Pietro e di Paolo, la Città Santa racchiudeva tra le sue mura una «grande moltitudine» di cristiani? [37

È in ogni caso impossibile accettare semplicemente l'autenticità del racconto 15:44 degli Annali, e fondare su di esso il fatto di una prima persecuzione dei cristiani sotto Nerone. C'è solo un'ipotesi che permetterebbe di supporre autentico il passo: si dovrebbe ammettere che i christiani di Tacito non erano i cristiani, ma gli adepti del Serapide o Osiride egiziano, che recava anche il soprannome Chrestus, vale a dire il benevolo, e che nel 117 Tacito li ha confusi con i cristiani del suo tempo.  Il fatto è che il manoscritto sembra aver recato originariamente chrestianos e che quell'appellativo è stato dopo subito cambiato in christianos. I chrestiani, che appartenevano per la maggior parte alla feccia del popolo ed rappresentavano in qualche modo gli apaches [le canaglie] di Roma, potevano infatti essere «odiati dal popolo per le loro infamie» e formare una «grande moltitudine», tanto che fu facile per Nerone rivolgere su di loro il sospetto di aver provocato l'incendio, e consegnarli alla morte. Sfortunatamente non si può più parlare allora di una persecuzione dei cristiani, e la Chiesa, i teologi e gli storici cristiani insistono giustamente sul fatto che i perseguitati erano stati i cristiani. Tutto sommato, l'opera di Tacito è lontana dal meritare la bella fiducia che, senza più approfondire e lasciandosi sedurre dalle qualità superficiali e dal colore accattivante del suo stile, si continua a concedergli. In particolare il passo 15:44 non è degno di alcun credito. La leggerezza e l'ingenuità di cui si fa prova basandosi sempre su questo racconto per affermare il fatto di una persecuzione dei cristiani sotto Nerone è semplicemente uno scandalo scientifico. Da lungo tempo la scienza vi avrebbe rinunciato se non avesse bisogno di quella persecuzione per fini estranei alla ricerca della verità. [38]

Riassumiamo il risultato della nostra inchiesta: non esiste testimonianza profana a favore della storicità di Gesù. Ciò, del resto, nel corso dei dibattiti suscitati dal mito di Gesù, è stato concesso in linea di principio da autorità come Jülicher, Weiss, Weinel e persino Heitmüller, nonostante tutti i loro eccessi. Weiss riconosce che «manca una testimonianza convincente nella letteratura profana». [39] Non ci si dovrebbe quindi più preoccupare di queste presunte testimonianze. Esse non valgono l'inchiostro che i teologi hanno fatto scolare sul loro conto. Ciò non impedisce che li si citerà sempre di nuovo, più volte, confidando nella stupidità umana, che è eterna, e contando sul fatto che, nonostante tutto, essi impressioneranno una certa categoria di lettori.

Intanto si cerca conforto nel pensiero che, se è vero che nessun autore profano attesta espressamente la storicità di Gesù, non ne esiste d'altra parte nessuno che la contesti, quando sarebbe stato senza dubbio molto facile attaccare la fede da questo lato. Ci si fa illusione. Da ogni tempo la Chiesa ha fatto ciò che ha potuto per rimuovere ciò che poteva imbarazzarla nelle parole dei suoi avversari, e per distruggere i loro scritti. Essa ha saputo cancellare la memoria dello gnosticismo precristiano, la cui esistenza la disturbava. Essa ha distrutto la letteratura così ricca e così variegata dello gnosticismo cristiano, che giudicava pericolosa perché insegnava un altro Cristo. Essa ha soppresso gli scritti di Porfirio e degli altri suoi avversari, e ciò che ne è rimasto è stato così ben adattato ai suoi propri interessi che attualmente è quasi impossibile ritrovare la linea dell'evoluzione storica. È restato il fatto, però, che nel suo dialogo con l'ebreo Trifone, Giustino fa dire al suo avversario: «Voi seguite una vaga diceria e fabbricate voi stessi un vostro Cristo. Se è mai nato ed esiste da qualche parte, nessuno lo conosce». [40] E in Origene, Celso rimprovera ai cristiani: «Neanche mentendo avete potuto calare un velo di plausibilità sulle vostre finzioni. Alcuni dei fedeli poi, come se in seguito all'ubriachezza arrivassero ad azzuffarsi fra loro, riscrivono tre, quattro, tante volte la primitiva stesura del vangelo e la rimaneggiano al fine di poterla rinnegare di fronte alle confutazioni». [41] Quindi non è nemmeno vero che nessun ebreo o pagano abbia mai dubitato dell'esistenza di Gesù, o della verità dei racconti evangelici. Il fatto è che essi ne hanno dubitato. E anche se fosse vero che nessuno ne ha dubitato, ciò non proverebbe nulla per la storicità di Gesù. Perché all'epoca in cui la controffensiva ebraica e pagana contro il cristianesimo fu scatenata, cioè nel II° secolo, la tradizione cristiana era già stata fissata. Era dunque solo contro quella tradizione che gli avversari diressero i loro attacchi. Non poteva venire in mente a nessuno di loro di applicare alla tradizione i metodi della critica storica. «L'antichità» — dice Hausrath — «non si è mai interessata alla verità storica, ma sempre unicamente alla verità ideale. Si possono contare i casi in cui un autore antico si domanda: «Cosa è effettivamente successo che è storicamente certificato?» [42] Anche se si fosse voluto fare delle ricerche sulla storicità dei racconti evangelici e andare a fondo delle cose, è improbabile che dopo la distruzione di Gerusalemme e la dispersione della sua popolazione ebraica si sarebbe ancora trovato qualcosa. È quindi un chiaro sillogismo, lucus a non lucendo, voler concludere per la storicità di Gesù dal presupposto che nessuno ne ha mai dubitato. 

I credenti prendono la loro parte dicendo che gli autori pagani ed ebrei non avevano alcun interesse a occuparsi della personalità del rabbino di Nazaret. Ammettiamolo. Ma come spiegare che non un solo autore cristiano riporta, sul fondatore della sua religione, qualcosa che vada oltre quanto contengono i vangeli e che sia più degno di fede? 

Per quanto riguarda gli Atti degli Apostoli, si è già visto che tutto ciò che questo scritto riporta su Gesù ha un carattere dogmatico e si basa sui vangeli. Allo stesso modo i cosiddetti vangeli apocrifi, cioè di cui già gli antichi cristiani rifiutavano di riconoscere l'autorità e che escludevano dal canone dei libri sacri, non ci forniscono alcuna informazione utile. Tutto ciò che riportano di Gesù in più dei vangeli sono racconti così fantasiosi, così inverosimili, persino assurdi, che non vi è motivo di soffermarsi. Hausrath stesso concede che non ne si può ricavare nulla di valore per arricchire le nostre conoscenze. Ne è lo stesso vale delle frasi di Gesù conservate dalla tradizione al di fuori dei vangeli, indicate col nome di agrapha. [43] Ciò non impedisce a questo teologo di scrivere: «Ciò che si trova al di fuori del canone è una testimonianza eloquente dell'esistenza e dell'attività di Gesù (!)». [44]

Passiamo ora al secondo periodo della letteratura cristiana, che inizia intorno al II° secolo. È necessario essere un teologo tanto credente quanto il curato Gröber di Costanza [45] per sperare di sfruttarne qualcosa. Di quale utilità ci può essere quella nota di Eusebio, che lui avrebbe preso da Egesippo, che afferma che i discendenti della famiglia di Gesù vivevano ancora al tempo di Domiziano e che erano stati presentati all'imperatore che temeva il ritorno del Cristo (!) ? [46] Egesippo sarebbe vissuto tra il 120 e il 180. Eusebio visse nel IV° secolo (325-395) e lavorò così consapevolmente per la maggior gloria della Chiesa nel creare e nel consolidare la tradizione che non merita alcun credito e al punto che J. Burckhardt lo denuncia come «il primo storico dell'antichità che era in perfetta malafede». [47] Quando scrive: «Quadrato, un discepolo dell'apostolo, testimonia che alcuni di coloro che il Signore aveva guarito dai loro mali o resuscitato dai morti (!) vivevano ancora alla sua epoca»: chi dunque gli crederà? Sempre secondo Eusebio, Policarpo (156) avrebbe parlato ad Ireneo delle sue conversazioni con il discepolo Giovanni e con gli altri apostoli, e gli avrebbe comunicato ciò che seppe da loro a proposito dei miracoli (!) di Gesù, «come avesse ricevuto tutto questo dai testimoni oculari della vita del Signore e lo riferisse in conformità con le Scritture». [48] Che peccato che Ireneo non ce ne abbia trasmesso nulla! Abbiamo quindi ogni motivo di supporre che anche queste informazioni non andavano in nulla al di là del racconto dei vangeli e delle «Scritture». Quando lo stesso Policarpo, nella sua epistola ai Filippesi, maledice coloro che non confessano affatto Gesù venuto nella carne, vi è là un'affermazione puramente dogmatica diretta contro i doceti per cui Gesù non aveva posseduto che un simulacro di corpo. Se infine passiamo al beato Papia, è anche peggio! Secondo Eusebio, egli si sarebbe preso la briga (nel 130 circa) di riunire e di notare le tradizioni orali che aveva ricevuto dai discepoli degli apostoli e dei discepoli immediati di Gesù sulle parole e sugli atti del Signore. Non chiediamo di meglio che credere a questo buon vecchio, ma siamo un po' sorpresi che cento anni dopo la presunta morte di Gesù, alcuni dei suoi discepoli siano stati ancora in vita!

«Se» — dice Gröber — «sono esistiti dei discepoli del Signore che erano in condizione di raccontare non solo quello che avevano sentito dal Signore, ma quello che sapevano dal Signore stesso, questo Signore non poteva essere una finzione, l'ipostasi di un'idea, ma era una personalità storica!» Certo, se — ma con i se e i ma! Possiamo quindi fare a meno di esaminare in dettaglio le altre testimonianze a cui si fa riferimento soprattutto nel campo cattolico: la testimonianza di Ignazio, se si vuole proprio ammettere che la lettera in questione del vescovo di Antiochia sia autentica: [49] essa è puramente dogmatica, nonostante le sue «informazioni dettagliate» (?) vantate da Gröber; la «preziosa» lettera di Clemente Romano: essa è sicuramente non autentica, qualunque cosa ne possa dire Gröber, e per di più senza alcun rapporto con la questione che ci riguarda, perché il presunto martirio degli apostoli Pietro e Paolo menzionato da Clemente non può attestare direttamente o indirettamente la storicità di Gesù; Quanto alle «Parole di Cristo» da lui citate, esse non appartengono necessariamente al Gesù dei vangeli, e il «fatto» che gli apostoli hanno ricevuto il loro vangelo da Gesù stesso e sono stati fortificati dalla risurrezione nella loro fede nella Parola è precisamente contestato in quanto fatto. Deve far pietà vedere i difensori della tradizione ecclesiastica costretti alla necessità di riferire «prove» del tipo di quelle di cui si serve il curato di Costanza, per ingannare sé stesso e gli altri. Essi sperano senza dubbio che nessuno controlli le loro affermazioni, e che in ogni caso i credenti accettino le loro asserzioni per rivelazioni della verità. 

NOTE

[1] Antichità 18:1, 1.

[2] Ibid. 1:6; 20:5, 2. Bell. Jud. 2:18, 1.

[3] Antichità 20:5, 1.

[4] HEITMULLER, Jesus 5.

[5] Geschichte des jüd. Volkes, 1901, I 541.

[6] Forschungen zur Geschichte d. nt. Kritik 6:305.

[7] L. c. 6:5:3 — L'epiteto «fratello di Gesù» non è altro che il titolo consacrato di «fratello del Signore», col quale i cristiani, fin da Paolo, erano soliti indicare questo Giacomo. Il commentatore cristiano ha voluto, per i lettori cristiani, sottolineare l'identità della vittima di Anna, ricordando loro la denominazione che era loro familiare. P.-L. COUCHOUD, l. c. pag. 26.

[8] Internationale Monatsschrift 1913, fascicolo di luglio: «Der jüdische Geschichtsschreiber Josephus und Jesus Christus».

[9] Norden: Josephus und Tacitus. Ueber Jesus Christus und eine messianische Prophetie. Citazione ricavata dal volume 31 del Neue Jahrbücher für das klassische Altertum. Geschichte und deutsche Literatur 1913, 14.

[10] E. MEYER, Ursprung und Anfänge des Christentums I, 1921, 206 ss. Confronta Mito di Gesù II 4-16.

[11] L. c. 5.

[12] FRIEDLAENDER, Der Antichrist in den vorchristlichen jüdischen Quellen 1901, 96.

[13] JOHN. WEISS, l. c. 88.

[14] 8 2° edizione, fasc. 2, Tacitus.

[15] L. c. 7.

[16] WEISS, l. c. 92.

[17] BRUNO BAUER, Christus und die Cäsaren, 1877, 155.

[18] L. c. 14.

[19] E. MEYER, l. c. 209.

[20] L. c. 3.

[21] Apologia 37.

[22] Confronta HAUSRATH, Die Kirchenväter des zweiten Jahrhunderts nelle sue Kleinere Schriften religionsgesch. Inhalts, 1883, 71 ss; ROBERTSON, Geschichte des Christentums, traduzione tedesca, 1910, 152 ss.

[23] Se si deve credere agli Atti 11:26, il nome sarebbe stato impiegato per la prima volta ad Antiochia. Ma quella nota porta fin troppo chiaramente il segno di un'interpolazione, e risale ad un tempo in cui questo nome era già divenuto un onore agli occhi degli uni, agli occhi di altri un insulto (confronta. 1 Pietro 4:16; Atti 26:28). 

[24] Confronta H. SCHILLER, l. c. 435.

[25] ORIGENE, Contra Celsum 3:8.

[26] L. c. 435.

[27] L. c. 6:220.

[28] Christus und die Caesaren 150 ss.

[29] Bergrede, 1878, 87 ss; confronta VAN DEN BERGH VAN EYSINGA, Radical Views 10 ss.

[30] SMITH, l. c., Ecce Deus 242 ss. Che si abbia allora il diritto di scrivere come Heitmüller: «Dichiarare interpolato un passo il cui stile e contenuto hanno un carattere indiscutibilmente tacitiano, non sono gli studiosi esperti nella materia che l'hanno dedotto; per questo ci sono voluti l'audacia e il cattivo gusto dei negatori di Gesù. Non vale la pena discuterne». (l. c. 2.).

[31] L. c. 367.

[32] L. c. 180. Si veda anche H. LIETZMANN, Petrus und Paulus in Rom, 1915, 125.

[33] HOCHART, o. c. 7; dello stesso autore: Nouvelles Considérations au sujet des Annales et des Histoires de Tacite, 1894, 145-153.

[34] TEUFFEL, Gesch. d. Röm. Literatur 5° edizione, 1890, II 1137.

[35] Les sources de Tacite dans les Annales et les Histoires, 1893.

[36] L. c. Introduzione 11, 13.

[37] HOCHART, Nouvelles Considérations, 164 s. 

[38] Si veda, per il problema in generale, il mio Mito di Gesù II 28-75; HOCHART, le opere citate e: De l'Authenticité des Annales et des Histoires de Tacite, 1890. Io mi rendo perfettamente conto di ciò che rischio toccando nella presente opera il problema dell'autenticità di Annali 15:44 e anche dell'insieme degli Annali e delle Storie. Gli avversari cercheranno ancora una volta di approfittarne affermando che io dichiaro falsi o non autentici tutti i passi che non quadrano con la mia negazione della storicità di Gesù. I teologi, e con loro i filologi e gli storici, si indigneranno del dilettantismo di cui faccio prova nel dubitare dell'autenticità di Tacito. Tutto ciò che io posso rispondere è che questa è stata revocata in dubbio non solo da HOCHART, ma anche da altri studiosi come l'inglese Ross in Tacitus and Bracciolini (1878). Più recentemente LÉON WIENER, professore di lingue e letterature slave all'Università di Harvard a Boston, ha anche avanzato argomenti seri contro l'autenticità di «De Germania»; in: Contributions toward a History of Arabico-Gothic Culture, vol. III, Tacitus' Germania and other Forgeries, 1920. Il problema dell'autenticità di Tacito avrebbe, mi sembra, grande bisogno di essere sottoposto ad un nuovo esame da parte di uno specialista. Ma ci vorrebbe uno studioso abbastanza coraggioso per tener testa a tutto il servitorume filologico, e abbastanza indipendente da poter fare a meno di esso e del suo appoggio. Ad ogni modo, non è affatto con affermazioni categoriche né con grida di indignazione morale che ci si sbarazzerà del problema, e non posso che felicitarmi se le osservazioni che ho appena fatto dovessero ispirare ad una persona competente l'idea di sottometterla ad un nuovo esame. Qualunque sia peraltro la soluzione, essa non cambierà nulla per il problema della storicità di Gesù. 

[39] L. c. 92.

[40] L. c. 8:3.

[41] ORIGENE, Contra Celsum 2:26-27.

[42] HAUSRATH, Kl. Schriften religionsgesch. Inhalts, 124.

[43] HEITMULLER, l. c. 7.

[44] Ibid.

[45] Si veda la sua opera: Christus lebte. Eine Kritik der Christusmythe von Arthur Drews, 1923.

[46] Storia della Chiesa 20:1 ss.

[47] H. BURCKHARDT, Leben Constantins, 2° edizione, 1860, 307, 335, 347.

[48] EUSEBIO, Storia della Chiesa 5:20, 6.

[49] Confronta VAN DEN BERGH VAN EYSINGA: Zur Entstehungsfrage der Ignatianischen Briefe, Prot. Monatshefte, 11° anno, 1907, fasc. 7 e 8, 252 ss, 301 ss. 

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