venerdì 11 giugno 2021

IL MITO DI GESÙ (X)

 (segue da qui)


b) Il problema dell'autenticità delle epistole paoline.

Nella critica che abbiamo appena fatto degli Atti degli Apostoli, abbiamo supposto l'autenticità delle epistole paoline, facendo di esse la nostra pietra di paragone per apprezzare il valore storico dei dati degli Atti. Delle tredici epistole attribuite a Paolo, i teologi di Tubinga ne hanno già abbandonate nove come non autentiche. Con una energia tanto più feroce, la cosiddetta teologia storica si aggrappa all'epistola ai Romani, alle due epistole ai Corinzi e all'epistola ai Galati, difendendo la loro autenticità, che non poteva del resto abbandonare senza scuotere le basi del suo sistema di ricostruzione delle origini del cristianesimo. Si può concedere che in un'epoca abbastanza remota, delle epistole circolassero già sotto il nome di Paolo, ma Eusebio dichiara che l'apostolo, benché particolarmente dotato nell'arte epistolare, scrisse egli stesso solo «alcune lettere molto brevi». Si è visto che l'autore degli Atti ha utilizzato perlomeno le due epistole ai Corinzi per il suo racconto della conversione di Paolo, ma è lecito domandarsi se queste missive abbiano avuto fin dall'inizio la forma e il contenuto che le riconosciamo oggi. Il fatto è che la critica ha dimostrato nettamente che anche le epistole principali che abbiamo appena citato sono una compilazione di elementi eterogenei. Le singolarità di ogni tipo e le manifeste esagerazioni che vi si diffondono sono state una delle principali ragioni che hanno condotto già Bruno Bauer nella sua Kritik des paulinischen Briefe (Critica delle epistole paoline 1850-52), e dopo di lui la scuola di teologia olandese detta radicale [1] a vedere addirittura nelle quattro epistole principali attribuite all'apostolo dei prodotti della prima metà del secondo secolo. 

Si è molto seri quando si vuole farci credere a questi pericoli che Paolo nelle sue lettere pretende di aver corso, quando per esempio dice che ad Efeso egli ha combattuto contro le bestie feroci e che è stato salvato solo per la grazia di Dio, o quando in 2 Corinzi 11:23 ss. pretende di avere «passato un giorno e una notte negli abissi marini», ciò che Weizsäcker traduce, per attenuarlo: «Giorno e notte sono stato sballottolato dalle onde...?» (!). Cosa si dirà della pretesa dell'apostolo che dichiara di aver abbondantemente diffuso il Vangelo del Cristo da Gerusalemme e dai paesi vicini fino all'Illiria, cosicché non gli resta più nulla da fare in queste regioni. [2] Noi distinguiamo qui chiaramente la voce di un panegirista dell'apostolo appartenente ad una generazione di epigoni e che, non potendo abbastanza esaltare il proprio eroe, non poteva rinunciare a decorare i testi primitivi con tratti e dichiarazioni di questo genere. È solo così che possono spiegarsi certi passi come quello dell'epistola ai Romani che tratta della diffusione del vangelo: «La loro voce è andata per tutta la terra e le loro parole fino agli estremi confini del mondo». [3] Un tale discorso non ha potuto essere scritto che in un'epoca in cui la nuova religione si era effettivamente già diffusa lontano, e non all'inizio delle sue origini, negli anni cinquanta e sessanta del primo secolo, quando il vangelo non poteva ancora essere penetrato tra tutti gli ebrei della diaspora. Con quale diritto Paolo poteva paragonare gli ebrei ai rami potati dal tronco di un ulivo, o dire che essi erano caduti e che Dio aveva manifestato la sua severità contro di loro? [4] Prima dell'anno 70 non era ancora accaduto nulla che avesse giustificato una simile affermazione e, soprattutto, non si poteva ancora parlare di un indurimento di Israele. [5] O l'insieme dei capitoli 9-11 dell'epistola ai Romani è interpolato, oppure questo frammento denuncia per l'intera epistola una data di origine che perlomeno non può essere anteriore alla distruzione di Gerusalemme, «che era, dopo la presunta morte di Gesù, il primo fatto importante nel quale era possibile ai cristiani vedere un giudizio divino» (van Manen, o. c. 159 ss.).

L'epistola ai Galati è, per i teologi paolini, lo scritto più «sicuramente autentico». È considerata la più antica tra le epistole paoline che ci sono pervenute — sarebbe quindi il più antico documento delle origini del cristianesimo — e anche di tutte le epistole paoline quella che fornisce i dati più certi sulla persona dell'apostolo. Ma per il lettore non prevenuto, è proprio l'epistola ai Galati che dà al minimo un'impressione di autenticità. Mal si capisce perché quella epistola di una natura così dogmatica e di una forma così concisa che perfino i teologi la comprendono appena, sia stata rivolta da Paolo — senza dubbio per farsi comprendere — a una comunità di Celti che era appena stata fondata ed istruita nella fede. È giusto in quella epistola che le singolarità, le contraddizioni e le esagerazioni si accumulano in modo insopportabile. [6]  Paolo si presenta come un apostolo, «non da parte di uomini né per mezzo di un uomo». [7] Egli dichiara nel modo più solenne, perfino sotto giuramento: «davanti a Dio, io non mento», [8] che il Vangelo che annuncia non è dell'uomo, perché non l'ha né ricevuto né lo ha appreso da un uomo, ma per una rivelazione di Gesù Cristo. Ricorda quale fosse una volta la sua condotta nell'ebraismo in passato, come perseguitasse ad oltranza e devastasse la Chiesa di Dio, e come fosse più avanzato nel giudaismo rispetto a molti di quelli della sua età e della sua nazione, essendo animato da uno zelo eccessivo per le tradizioni dei suoi padri. Ma quando piacque a Dio di rivelare in lui suo Figlio, affinché l'annunciasse tra i pagani, egli non consultò né la carne né il sangue, e non salì affatto a Gerusalemme verso coloro che furono apostoli prima di lui, ma partì per l'Arabia, poi ritornò a Damasco. È solo tre anni più tardi che, secondo la nostra epistola, si sarebbe recato a Gerusalemme, per fare la conoscenza di Pietro. Sarebbe restato quindici giorni presso di lui, ma senza vedere nessun altro degli apostoli, se non Giacomo, il fratello del Signore, e poi si sarebbe recato nelle regioni della Siria e della Cilicia. Ma sarebbe rimasto sconosciuto di persona alle comunità della Giudea, quest'ultime avrebbero appreso solo per sentito dire che colui che un tempo li perseguitava annunciava ora la fede. [9]

Tutto ciò è pochissimo verosimile, soprattutto se si ammette con i teologi che Gesù è stato un personaggio storico. In quella ipotesi sarebbe stato del tutto naturale per Paolo — è del resto ciò che ci raccontano di lui gli Atti degli Apostoli — mettersi il più presto possibile in contatto con coloro che avevano conosciuto personalmente Gesù e che potevano informarlo sulla sua persona e sulla sua dottrina. Ma farlo sparire per tre anni in Arabia, senza dubbio per permettergli di prepararsi alla sua carriera di apostolo, equivale ad un po' troppo presumere la credulità del lettore. Tutta quella parte dell'epistola ai Galati è stata chiaramente scritta per fare opposizione al racconto della conversione di Paolo negli Atti, opera che l'autore dell'epistola aveva certamente sotto gli occhi. Questo testo ha per solo scopo di stabilire l'autonomia assoluta di Paolo, la sua completa indipendenza dai giudeo-cristiani di Gerusalemme e l'originalità della sua dottrina. La sua unica tendenza è di glorificare l'apostolo. 

Gli altri dati personali dell'epistola ai Galati concorrono allo stesso scopo. Quattordici anni dopo (dopo cosa?) Paolo afferma di essersi recato, secondo una rivelazione (!), quindi senza alcun obbligo, a Gerusalemme con Barnaba e Tito, per esporvi il suo vangelo ai notabili e per giustificarsi davanti a loro. Vi avrebbe avuto così tanto successo che il suo compagno il greco Tito non fu neppure costretto a farsi circoncidere. «Quelli che godono di particolare stima (quello che possono essere stati, a me non importa; Dio non ha riguardi personali), quelli, dico, che godono di maggiore stima non m'imposero nulla; anzi, quando videro che a me era stato affidato il vangelo per gli incirconcisi, come a Pietro per i circoncisi (perché colui che aveva operato in Pietro per farlo apostolo dei circoncisi aveva anche operato in me per farmi apostolo degli stranieri), riconoscendo la grazia che mi era stata accordata, Giacomo, Cefa e Giovanni, che sono reputati colonne, diedero a me e a Barnaba la mano in segno di comunione perché andassimo noi agli stranieri, ed essi ai circoncisi; soltanto ci raccomandarono di ricordarci dei poveri, come ho sempre cercato di fare». [10]

Si ritiene che questa esposizione sia anch'essa un punto diretto contro gli Atti degli Apostoli, in particolare contro il loro racconto del concilio di Gerusalemme, dove sarebbero state fissate le condizioni della missione tra i pagani. Essa è già condannata dalla sua perfetta implausibilità: le distinzioni che in quella epistola Paolo pretende di fare nella sua attività missionaria erano impraticabili, perché egli è ritenuto aver sempre predicato, come gli Apostoli giudeo-cristiani, nelle sinagoghe. Ancora una volta l'autore dell'epistola vuole esaltare il suo apostolo a spese di quelli di Gerusalemme, i pilastri, che non avevano ordini da dargli. L'autore degli Atti, o del documento a cui si ispira questo scritto, aveva fatto di Pietro l'iniziatore della missione tra i pagani, invocando a sostegno delle sue rivendicazioni l'episodio della conversione del centurione Cornelio, — ma il significato dato a questo episodio è chiaramente contraddetto, perché il dibattito sull'atteggiamento da osservare da parte dei cristiani gentili nei confronti della Legge sarebbe stato inutile se ciò che è riportato di Pietro e del centurione fosse effettivamente avvenuto. Al contrario, l'autore dell'epistola ai Galati inchioda Pietro alla gogna per l'atteggiamento equivoco che avrebbe avuto ad Antiochia durante i pasti che condivideva con i pagani, e fustiga la mancanza di carattere e l'ipocrisia del grande apostolo. [11] Non si potrebbe dire se tutto ciò sia storicamente esatto. Non è impossibile che una vicenda di questo tipo si sia verificata tra i giudeo-cristiani, senza forse che Pietro vi abbia partecipato, e l'autore degli Atti ha potuto organizzare questo episodio per farne la storia del centurione Cornelio, e per farla tornare a gloria del suo apostolo preferito. Il fatto è che l'autore dell'epistola ai Galati ha per solo scopo di elevare Paolo al di sopra di Pietro, e di abbassare Pietro agli occhi del lettore, se possibile tanto quanto l'autore degli Atti aveva elevato Pietro al di sopra di Paolo. L'intera epistola è stata scritta per confutare l'esposizione degli Atti; ma siccome un'epistola paolina non poteva fare a meno di controversie dogmatiche, l'autore ne attinge gli elementi dalle epistole ai Romani e ai Corinzi, ma abbreviandoli e combinandoli in modo così artificiale che è impossibile comprenderli bene senza far ricorso agli originali. 

È quindi certo che l'autore dell'epistola ai Galati ha avuto sotto gli occhi gli Atti degli Apostoli che sono uno scritto molto giovane, o più esattamente una delle loro fonti, allo stesso modo in cui l'autore degli Atti ha conosciuto le due epistole ai Corinzi. In effetti, il passo di Galati 1:13ss., dove Paolo riconduce il suo vangelo ad una rivelazione e si accusa lui stesso di essere stato un fautore fanatico della legge, non è stato scritto che in considerazione degli Atti. L'autore dell'epistola ai Galati non ignora quanto quello degli Atti come il Paolo «storico», l'autore di alcune lettere brevissime menzionate da Eusebio, abbia ricevuto il suo vangelo. In ogni caso, l'autore degli Atti non ha conosciuto l'epistola ai Galati, sennò l'avrebbe certamente utilizzata per descrivere con più precisione i rapporti che legavano l'apostolo alle sue comunità, piuttosto che raccontarci dei miti. È poco probabile, per non dire di più, che l'opposizione del Paolo storico al giudaismo sia stato così radicale come la presentano le epistole, in particolare quella rivolta ai Galati, e che il conflitto tra giudeo-cristiani e cristiani gentili abbia raggiunto una tale gravità già a metà del primo secolo, prima della distruzione di Gerusalemme.

Né gli Atti, né le epistole paoline ci danno dunque dell'apostolo Paolo un ritratto minimamente preciso. Ma si può ammettere che il Paolo storico, se mai è esistito, doveva — è anche ciò che presuppone van Manen — rassomigliare ben più a quello degli Atti che a quello delle epistole, e non può essere stato altro che il fondatore di piccole comunità senza importanza. È ancora possibile, come pensano gli Olandesi, che le epistole siano scritti puramente fittizi, che diversi autori vi abbiano collaborato in tempi successivi, e che il nome di Paolo sia il marchio di una scuola che, dopo la distruzione definitiva di Gerusalemme da parte di Adriano, origine dell'odio irriducibile tra ebrei e cristiani, avrebbe inventato questo personaggio per indurre il cristianesimo ad emanciparsi completamente dal giudaismo e per invocare la sua autorità in favore della dottrina antinomista. [12] Mentre gli altri rappresentanti della giovane religione si appellavano al presunto personaggio storico di Gesù, una dottrina che sembrava così singolare e così sovversiva non poteva ricondurre le sue origini ad un immediato discepolo del Salvatore. Era però indispensabile fare propria la persona di Gesù per combattere con successo contro la vecchia scuola ancora invischiata nel giudaismo sia appoggiandosi ai vangeli, sia per dare all'opposizione contro la tradizione il peso di una rivelazione derivante da Gesù stesso. È così che si disegnò la figura di Paolo, ex fanatico ebreo e discepolo dei farisei, persecutore dei cristiani, poi convertito da una visione, che mostra nel combattere la Legge lo stesso identico zelo col quale l'aveva sostenuta, diventando l'ispiratore di un cristianesimo del tutto spirituale, e facilitando col suo esempio agli altri ebrei la loro emancipazione dalla Legge. 

Del resto, la leggenda che fa di Paolo un ex fariseo sembra particolarmente sospetta. Un discepolo di Gamaliele doveva, sembra, perlomeno conoscere l'ebraico e possedere a fondo le Scritture. Ma non si percepisce che la lingua ebraica sia stata familiare all'autore delle epistole paoline. Egli cita le Scritture secondo la versione greca, (!) e le libertà che si prende con il testo sacro, adattandolo ai bisogni del momento, l'inesattezza delle sue citazioni e gli errori gravi che commette riguardo alla loro forma e al loro contenuto non possono essere attribuite ad un ex discepolo dei farisei e fautore della Legge. [13] Come spiegare peraltro che queste epistole siano rimaste completamente sconosciute fino alla metà del II° secolo e non siano state menzionate da nessun autore, né cristiano né pagano? Secondo Loman non vi sarebbero nemmeno prove certe dell'esistenza delle nostre epistole paoline prima del 180, [14] e il silenzio di un secolo non ha ancora trovato una spiegazione soddisfacente. [15] Si ha un bel dichiarare queste epistole «originali, geniali, uniche nel loro genere», ma questo silenzio diventa ancor più significativo. Già Schopenhauer riteneva che il poco tempo che si suppone trascorso tra la morte di Gesù e la redazione delle epistole paoline potrebbe essere un argomento contro la loro autenticità, e si stupiva molto che «Paolo potesse seriamente presentare come un Dio incarnato, identico al creatore, un uomo morto così poco tempo prima che molti suoi contemporanei erano ancor vivi allora, mentre di solito apoteosi di questo genere e di quella portata, per essere prese sul serio, hanno bisogno di molti secoli per maturare». [16] Se i teologi pensano di poter provare l'autenticità delle epistole paoline coi soli mezzi della critica letteraria, si può rispondere loro che lo stile personale di Paolo si spiega altrettanto bene, e molto meglio, col modo di sentire e di reagire di uno gnostico anonimo della metà del II° secolo, che da quello di un apostolo Paolo che sarebbe vissuto nel primo secolo e che ci è altrettanto sconosciuto, tanto più che non disponiamo di alcun testo standard che ci permetta di controllare l'autenticità dello stile paolino. Argomentazioni di natura sentimentale e affermazioni proferite con un tono di infallibilità scientifica come quelle che i teologi amano per dimostrare l'autenticità delle epistole paoline, varrebbero egualmente per qualunque scritto; è sufficiente avere il sentimento di quella autenticità e sapere esprimerlo in un modo impressionante. [17]

Di solito i teologi stabiliscono una correlazione stretta tra l'autenticità delle epistole e quella del  Gesù storico, pensando che se si ammette l'autenticità di queste epistole, si dovrebbe concludere per la storicità di Gesù. Si sbagliano di grosso. Van Manen, che dubitava all'inizio dell'esistenza storica di Gesù, respinse questi dubbi solo quando riconobbe le epistole per non autentiche, e Robertson confessa che è proprio la sua convinzione dell'autenticità delle principali epistole paoline che lo ha confermato nella sua opinione della natura leggendaria del racconto evangelico, allo stesso modo in cui lo studio della situazione storica del libro dei Giudici ha dato corpo ai suoi dubbi relativi alla storicità del racconto dell'esateuco. [18]  Il problema dell'interpretazione data da Paolo al Gesù storico è assolutamente indipendente dal problema dell'autenticità delle sue epistole, e tutto ciò che si può dire è che se queste epistole non sono autentiche, l'ipotesi della storicità di Gesù perde il suo principale e anche, come vedremo, il suo solo sostegno; il dubbio quindi non può più essere rimosso. 

NOTE

[1] Su quella scuola, si veda l'opera molto istruttiva di VAN DEN BERGH VAN EYSINGA, Die holländische radikale Kritik ecc.; poi: Radical Views about the New Testament; WHITTAKER, The origins of Christianity; VAN MANEN, Die Unechtheit des Römerbriefes, traduzione tedesca di SCHLAGER (1906) e STECK, Der Galaterbrief nach seiner Echtheit untersucht.

[2] Romani 15:19.

[3] 10:18. In ogni caso, sembra che il nome dell'apostolo non era penetrato fino a Roma, infatti, quando vi arriva, gli ebrei di quella città dichiarano di non aver sentito parlare di lui (Atti 28:21).

[4] Romani 11:16 ss.

[5] L. c. 25.

[6] VAN DEN BERGH VAN EYSINGA, opera citata. Si veda anche il suo articolo, Pro Domo, diretto contro il teologo cattolico Valentin Weber in Niew Theologisch Tydschrift, 1923, fasc. 5.

[7] Galati 1:1.

[8] 1:20.

[9] 1:11-24.

[10] Galati 2.

[11] L. c. 2:11 ss. 

[12] VAN DEN BERGH VAN EYSINGA, opera citata.

[13] Confronta VAN MANEN, opera citata, 172 ss.; ESCHELBACHER, Zur Geschichte und Charakteristik der paulinischen Briefe in Monatschrift f. Geschichte und Wissenschaft d. Judentums, 51° anno; nuova serie, 15° anno, 411 ss, 542 ss. 546 s.; 550, 668; STECK, opera citata, 212 ss. Lo stesso DEISSMANN nel suo Paulus (1911) stima che si «è sopravvalutata molto la dialettica rabbinica di Paolo, e la sua dialettica in generale» (74).

[14] VAN DEN BERGH VAN EYSINGA, opera citata, 39.

[15] SMITH, Der vorchristliche Jesus, 136 ss.

[16] Parerga e Paralipomena, 2° edizione, Frauenstädt 41.

[17] Confronta il mio Mito di Gesù, volume 2, 148-172.

[18] ROBERTSON, The Jesus Problem, 147.

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