martedì 8 giugno 2021

IL MITO DI GESÙ (VII)

 (segue da qui)


4. GESÙ DI NAZARET E L'IDEA DELLE SOFFERENZE DEL MESSIA.

Nei vangeli, Gesù è indicato come Nazareno, Nazoreo o Nazireo. I suoi seguaci sono chiamati negli Atti [1] setta dei Nazareni. Si spiega questo titolo dai passi Matteo 2:23 e Marco 1:9, che fanno venire Gesù da Nazaret in Galilea. Ma è evidente che il passo di Marco è solo un'estensione della lettura più antica di Matteo 3:13, dove è detto semplicemente che Gesù veniva dalla Galilea; Matteo 4:13 e 21:11 sono interpolazioni evidenti, e quanto a Luca 4:16, è concesso che questo passo sia di origine molto recente, proprio come il racconto dell'infanzia in Matteo. Il nome di Nazaret figura quindi solo nello strato più recente dei vangeli, mentre le parti antiche conoscono solo la patria (patris) di Gesù e il passo Matteo 2:23, che si basa sulla profezia per stabilire una relazione tra i due nomi di Nazoreo e di Nazaret, è più che tirato per i capelli.

Si hanno quindi fin troppi motivi per domandarsi se la setta dei Nazorei, nome che, se si deve credere agli Atti, portarono originariamente i cristiani, possa essere collegato a una località chiamata Nazaret. È a priori improbabile che i seguaci di Gesù abbiano derivato il loro nome dal villaggio insignificante di Nazaret, presumibilmente perché il loro maestro vi sarebbe nato o vi avrebbe passato la sua giovinezza; i Kantiani non sono soliti chiamarsi Konigsberghiani, né Treviresi i discepoli di Karl Mark. È anche più che dubbio che Nazaret sia già esistita prima dell'era cristiana, e quando si vuole derivare secondo le regole della linguistica la parola Nazareno da Nazaret, ci si scontra con difficoltà tali che studiosi rinomati come Wellhausen, Cheyne, Burkitt e altri hanno completamente negato che vi sia qualche relazione tra le due parole. 

Per spiegare la parola Nazoreno, si è pensato ai Nazirei o Naziriti, quei consacrati a Dio nell'Antico Testamento che si astenevano dall'olio, dal vino e dal rasoio, si distinguevano dai loro connazionali per la loro bizzarra santità e ai quali, tra gli altri, Giovanni il Battista sarebbe stato affiliato. Ma Smith ha fatto notare che gli ebrei sapevano distinguere perfettamente tra Nazorei e Nazirei, perché se approvavano i Nazirei, maledicevano i Nazorei, come prova il Talmud, e inoltre nessuno si è mai sognato di prestare a Gesù le pratiche naziree. [2]

Ecco perché, nonostante tutto ciò che gli avversari hanno cercato di obiettargli, non si può definire improbabile l'ipotesi di Smith, che vede in Nazoreo originariamente il nome di una setta precristiana che venerava il suo dio o il suo Messia sotto il nome di nosri (siriano nasarja), ovvero protettore (guardiano) o Dio è Salvatore, allo stesso modo in cui il teologo Volkmar dà al termine Nazorei il senso di Salvatore. [3] Più recentemente, eminenti studiosi tedeschi hanno pensato di trovare nel nome di Nazorei l'idea di custodire, osservare, Lidzbarski, per esempio, che vede nei Nazorei degli osservanti perché osservavano certe pratiche purificatrici come il battesimo, oppure l'assiriologo Zimmern che pensa ai segreti divini custoditi dai Nazorei. Questi sarebbero stati dunque degli iniziati ad una scienza segreta, o degli gnostici. [4] Non importa se si prenda o meno alla lettera la nota di Epifanio nella sua Storia delle Eresie, [5] che dice che esistette al di là del Giordano una setta ebraica dei Nazorei o meglio dei Nasarei anteriore al Cristo e che ignorò il Cristo, cioè il Cristo uomo dei vangeli. In ogni caso, ciò che possiamo sapere sulle sette ebraiche rende molto probabile l'esistenza di una tale setta, ed è possibilissimo che i suoi seguaci si siano anche dati il nome di Iesseni, senza dubbio perché vedevano nel Messia un ramo o germoglio della radice di Iesse o Isai, padre di Davide. [6]

Il passo del profeta che fa allusione a questo ramo è il solo che, in Matteo 2:23, getta un ponte tra i due termini Nazaret e Nazorei. Ma in ebraico, il ramo si dice nazar o neser, dalla stessa radice di Nazaret. Quella etimologia fornisce così ai Nazorei, che si erano originariamente definiti guardiani o osservanti di pratiche religiose, una buona occasione per dare una base storica a quella funzione di guardiani o di osservanti, a partire dal momento in cui l'idea del Messia cominciò a prendere un aspetto storico. Lo fecero basandosi, tramite l'espediente della profezia che abbiamo appena citato, sul nome geografico di Nazaret, forse immaginato appositamente per questo scopo. [7] Poi Gesù fu chiamato il Nazareno per allusione al germoglio di Isai, e perché era considerato il guardiano e il salvatore di Israele. [8]

L'opposizione veemente che hanno suscitato i lavori di John M. Robertson [9] e di Smith [10] i quali, con una perspicacia notevole, hanno riunito queste testimonianze a favore di un culto precristiano di Gesù, e il disprezzo che li riservano i teologi, provano solo una cosa: lo sgomento che questi lavori hanno gettato negli ambienti teologici. [11] Infatti, come potrebbero gli avversari spiegare quella formula che ricorre frequentemente nei vangeli e negli Atti: Ta peri tou Jêsou (le cose riguardanti il Gesù), [12] formula che ovviamente non si riferisce alla vita di Gesù, ma ad una dottrina avente per oggetto il Gesù? Come spiegare il passo di Atti 18:25, che presenta ad Efeso un ebreo di Alessandria di nome Apollo, uomo erudito, versato nelle scritture, istruito nella dottrina del Signore, che parlava con uno spirito ardente e insegnava fedelmente «le cose riguardanti il Gesù», ma che conosceva solo il battesimo di Giovanni, e che infine Aquila e Priscilla prendono tra loro per esporgli più esattamente la dottrina?

I primi tre vangeli riportano che Gesù riunì i suoi dodici apostoli e li inviò in qualità di messaggeri e di esorcisti di spiriti impuri. [13] Quale doveva essere il loro messaggio? Il regno dei cieli è arrivato. [14] Questo sì che è singolare. Gesù stesso annuncia sempre questo messaggio sotto forma di parabole, al fine di non essere compreso dal popolo. Oppure dovevano predicare la fede nella persona di Gesù? Il testo di Matteo potrebbe farlo supporre, perché nei discorsi che pronuncia Gesù in occasione di quella missione, parla molto di sé e promette a coloro che lo confesseranno la grazia di suo padre che è in cielo. [15] Ma gli apostoli stessi ignoravano che lui fosse il Messia. E quale impressione avrebbe potuto fare agli ascoltatori un messaggio che annunciasse loro che da qualche parte in Galilea vi era un uomo, un guaritore, che compiva miracoli, parlava al popolo in parabole e prediceva l'avvento del regno di Dio? Una certa impressione avrebbe potuto essere ottenuta al massimo da un predicatore come Giovanni il Battista o Gesù stesso, ma difficilmente dai suoi discepoli, che sono presentati come così gretti che non compresero nemmeno le più semplici parabole del loro maestro. L'oggetto della missione dei discepoli sarebbe stato dunque «di scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie e di infermità, e anche di resuscitare i morti»? [16] Ma come immaginarlo? Per caso Gesù iniziava i suoi discepoli ai misteri dell'ipnotismo? O come immaginare la trasmissione di questo «potere»? Tutta quella storia della missione dei discepoli non ha né capo né coda.

È riportato in Atti 19:1 ss. che Paolo trovò a Efeso alcuni discepoli che, nonostante la loro fede, non sapevano nulla dello Spirito Santo ed erano battezzati solo con il battesimo di Giovanni il Battista. Perciò Paolo li battezza anche nel nome di Gesù, sebbene solo il Quarto Vangelo, e contrariamente a quanto dicono i sinottici, conosca un battesimo dato da Gesù, e sebbene Matteo e Marco gli fanno dare l'ordine del battesimo solo dopo la sua resurrezione. Ciò assomiglia molto alle fasi successive dell'evoluzione di un culto antichissimo, tanto più che i fedeli che ricevettero a Efeso lo Spirito Santo per mezzo del battesimo erano, si dice, circa dodici di numero, [17] numero necessario per il rito primitivo. [18] Ma la cosa più sorprendente è che Paolo trova già, non solo a Efeso ma in ogni altro luogo dove lo conducono i suoi viaggi missionari, un certo numero, anche minimo, di persone credenti in Gesù. Da dove vengono? Come mai, durante i pochi anni che separano la crocifissione di Gesù dall'arrivo dell'apostolo, la fede in Gesù poteva diffondersi nel mondo intero, con la rapidità che suppone il racconto degli Atti ? Smith, dopo aver accuratamente raccolto e studiato tutti questi passi, conclude — e nessuno lo ha ancora confutato — che la tesi degli Atti che fa derivare il cristianesimo da un'unica sede: Gerusalemme, è in flagrante contraddizione con gli altri dati di questo stesso scritto. Gli Atti stessi tradiscono l'esistenza e la grande diffusione di un culto precristiano di Gesù, che non ha più nulla di sorprendente per noi che abbiamo riconosciuto l'identità di Gesù con il Giosuè dell'Antico Testamento, e l'identità di quest'ultimo con una sorta di Messia. [19]

Negli Oracoli Sibillini, scritto essenzialmente ebraico, si legge questo passo: «Qualcuno di nuovo verrà dal cielo, un uomo eccelso, lui che distese le braccia sul legno fruttifero, il migliore degli Ebrei, lui che una volta fermò il sole chiamandolo con belle parole e con labbra pure». L'edizione tedesca degli Apocrifi e dei Pseudepigrafi dell'Antico Testamento traduce: «Di cui il migliore degli Ebrei distese le mani sul legno fecondo»; riferisce la parola «qualcuno» a Mosè, e la croce — perché il legno fecondo non può indicare altro — a Esodo 17:12. Ma in questo passo Mosè non distende le braccia sul legno, ma solo a forma di croce, e le sue braccia non sono sostenute da Giosuè, che arresterà il sole, ma da Aronne e Hur, mentre Giosuè si batte contro gli Amaleciti. [20] Whittacker, nella sua opera citata più sopra, ha quindi ragione a vedere in questo passo un'altra testimonianza a favore dell'identità di Gesù e di Giosuè, e questo testo ci insegna così che si vedeva nel Giosuè dell'Antico Testamento un crocifisso, o quantomeno che egli fosse in correlazione con la croce, e che d'altra parte fosse identificato col Messia discendente dai cieli. [21]  

Ciò è confermato dalle Odi di Salomone. Vi si legge nell'ode 42: 

«Stesi le mie mani e mi accostai al mio Signore. 

Lo spiegamento delle mie mani è il segno di lui. 

Ed il mio stare eretto, il legno steso 

a cui fu sospeso l'uomo appeso al bordo del sentiero».

Secondo Gunkel, [22] quell'ode è un «canto di trionfo del crocifisso» e si riferisce indiscutibilmente al Cristo invocato nel verso 21 sotto il nome di «Figlio di Dio» e nel verso 24 sotto il nome di «Salvatore». Ma si è visto che questi due nomi sono appellativi piuttosto generici che gli ebrei davano al Messia, motivo per cui non si è in diritto di riferirli semplicemente al Gesù dei Vangeli. Gunkel commenta questi versi in questi termini: «Il Salvatore si è consacrato a Dio stendendo le braccia sul legno, e non è solo questo gesto di stendere le braccia ad essere il segno di consacrazione, ma anche la croce stessa con la traversa, dove egli fu sospeso, appeso al bordo del sentiero (Marco 15:29); è quindi presupposto qui che il segno della croce sia più antico della crocifissione del Cristo: osservazione importantissima per la storia delle religioni!» Quella osservazione ci sembra in effetti così importante che non può che confermarci nella nostra convinzione: esistette un culto precristiano di Gesù. Perché è evidente che qui la croce non ha altro significato che quello che ha nel passo citato degli oracoli sibillini, dove essa è messa in relazione con Giosuè. È un puro simbolo che esprime semplicemente il sacrificio (crocifissione) di sé e la vittoria della vita sulla morte, nell'unione con Dio. Ma originariamente la croce era un simbolo solare, un'allusione alla croce che forma il sole allorché nel suo corso interseca l'equatore celeste all'equinozio vernale e realizza così la vittoria della luce, sorgendo dalla parte inferiore dello zodiaco che corrisponde all'inverno. Il Messia è il mediatore tra le cose in basso e quelle in alto, tra Dio e il mondo. Così il sole all'equinozio vernale, allorché intersecando l'equatore forma la croce di primavera, appare come mediatore tra la metà inferiore e la metà superiore dello zodiaco. Anche per questo nel Timeo di Platone l'anima universale, mediatrice tra Dio e il mondo, è presentata sotto forma di una croce (inclinata), stesa tra il cielo e la terra. [23] Mosè stende le sue mani a forma di croce e ottiene pertanto la vittoria degli Israeliti sugli Amaleciti. [24] In Matteo 24:30 si parla della croce come del «segno del Figlio dell'uomo», e Giosuè, il salvatore solare, è il dio della circoncisione e della pasqua, festa celebrata per il consumo dell'agnello pasquale, perché all'equinozio vernale il sole effettua il suo passaggio dall'equatore celeste, dispensando così alla terra una vita nuova, e questo passaggio aveva luogo nel segno zodiacale dell'agnello, nel quale il sole è elevato alla croce celeste. [25]

D'altra parte, è riconosciuto che il consumo dell'agnello pasquale e il rito della circoncisione erano entrambi una specie di redenzione o di riscatto di un sacrificio umano, del sacrificio del primogenito, che nei tempi più antichi si offriva al dio supremo, al momento dell'equinozio vernale. Al posto di un uomo si sacrificava un agnello, o il prepuzio, cioè una parte del corpo al fine di conservarne l'integrità, e Giosuè, si dice, aveva compiuto questo riscatto e istituito il rito della circoncisione dopo essersi sacrificato lui stesso, secondo la concezione primitiva, al posto del primogenito, e dopo essere diventato così il dio salvatore e lo strumento della salvezza di tutto il popolo. 

Il rito del sacrificio umano in primavera avente per scopo di riscattare i peccati che un popolo poteva aver commesso nel corso dell'anno era diffusissimo in tutta l'antichità, e si praticava soprattutto tra i Semiti. Il prezzo che la divinità doveva associare ad un tale sacrificio e la virtù redentrice che gli era attribuita erano corrispondenti al valore della vita sacrificata, al rango che la vittima aveva occupato tra gli uomini. Si sceglievano soprattutto primogeniti per votarli alla morte e, secondo i libri di Giosuè [26] e di Samuele, [27] furono dei re ad essere offerti a Dio in sacrificio espiatorio. [28] Il fatto che tra gli Israeliti questo sacrificio fosse in correlazione con la festa della pasqua si trova confermato da una nota che attesta che i sette figli della casa di Saul, che Davide fece morire facendoli impiccare al legno o all'albero, morirono «al tempo della raccolta dell'orzo», cioè al momento della festa della pasqua, «davanti al Signore». [29]  Non poteva dunque esserci sacrificio più efficace di quello di un re o di un capo che offrisse il suo primogenito. Ecco perché il generale cartaginese esiliato Maleo, a detta di Giustino, fece impiccare suo figlio Cartalo, vestito da re e da sacerdote, di fronte alla Cartagine assediata, fatto che scoraggiò così bene gli assediati che egli poté dopo pochi giorni impadronirsi della città. Ecco perché, al momento dell'assedio di Agrigento, anche Amilcare sacrificò il proprio figlio: e gli Israeliti abbandonarono l'assedio di Moab, quando il re di questo paese sacrificò il suo primogenito. [30] Iefte offrì la propria figlia; Plinio riporta che, fino all'assedio di Tiro da parte di Alessandro, i Fenici di quella città sacrificavano ogni anno un giovane ragazzo a Crono, ovvero a Melkart o Moloc (re). È lo stesso Melkart tiriano in onore del quale, a detta di Porfirio, si uccideva ogni anno un criminale sull'isola di Rodi. Filone di Biblo ci dice che tra i Fenici il dio aveva nome «Israele» e che al momento di una grande epidemia, per contenere la mortalità, sacrificò suo figlio «unico» Ieud (Giuda), vale a dire l'unico, dopo averlo anche ricoperto di vesti regali. [31] Allo stesso modo Abramo sacrificò il suo primogenito al Signore; ma Abramo (il «padre sublime») non è che un altro nome per Israele, il «Dio possente», nome primitivo del dio degli Ebrei, fino al momento in cui questo nome fu sostituito da quello di Jahvé, dio di una tribù, e divenne da allora il nome del popolo. Quando i progressi della civiltà fecero scomparire in Israele i sacrifici umani e il monoteismo più sviluppato ridusse le antiche divinità al rango di semplici mortali, si immaginò il racconto di Genesi 22 al fine di motivare «storicamente» la sostituzione dei sacrifici animali ai sacrifici umani. La stessa intenzione ha chiaramente presieduto, lo ripetiamo, alla correlazione stabilita dal libro di Giosuè tra questo eroe e la festa della pasqua. [32]

Non stupiamoci troppo di trovare anche tra gli antichi Israeliti la pratica dei sacrifici umani. L'idea del capro espiatorio cacciato nel deserto per la remissione dei peccati del popolo restò viva in tutto Israele fino ad un'epoca molto tarda. Allo stesso modo in Israele, l'idea della sostituzione dei sacrifici animali agli antichi sacrifici umani era senza dubbio associata a quella del rinnovamento della vita e delle forze che un tale sacrificio doveva apportare alla natura, intorpidita dall'inverno o disseccata dal sole, e dare nascita al mito di un dio giovane e bello, la cui morte era accompagnata da  veementi lamenti, mentre la sua rinascita o resurrezione era salutata con grida di gioia. 

Dai tempi più antichi, il culto di un tale dio andava solitamente di pari passo con un sortilegio per analogia sotto forma della rappresentazione rituale del dramma della sua vita e della sua resurrezione. Tra i primitivi, quando il limite tra lo spirito e la natura non è ancora tracciato, quando l'uomo si sente ancora parte integrante del suo ambiente naturale, si credeva ancora di poter assecondare la natura nel suo alternarsi di vita e di morte e, quando vi si aveva interesse, di poter esercitare un'influenza sul corso dei fenomeni. A questo scopo bisognava imitarli. Frazer, a cui dobbiamo uno studio dettagliato di queste idee e di queste pratiche rituali, dichiara: «Da nessuna parte questi sforzi sono stati perseguiti con maggiore perseveranza e metodo che in Asia occidentale. I nomi potevano variare da un luogo all'altro, ma la sostanza era ovunque la stessa. Un uomo che l'immaginazione sfrenata dei suoi adoratori rivestiva degli abiti e delle insegne di un re, sacrificava la sua vita per la vita del mondo. Dopo aver riversato dal proprio corpo un flusso rigenerativo di forze vitali nelle vene intorpidite della natura, era lui stesso consegnato alla morte, prima che la scomparsa delle sue stesse forze avesse comportato un declino generale delle forze della natura, e lo si sostituiva con un altro personaggio che, come tutti i suoi predecessori, ricominciava il dramma eterno della resurrezione e della morte del Dio». [33] Anche in tempi storici, questo dramma è stato spesso rappresentato, nel ruolo principale, con persone in carne e ossa, che erano re o sacerdoti della divinità celebrata, ma che furono a poco a poco sostituiti da criminali. Talvolta ci si accontentava di un simulacro del sacrificio della persona deificata, ad esempio per l'Osiride egiziano, il Mitra persiano, l'Attis frigio, l'Adone siriano, il Sandan (Sandes) di Tarso (cilicio) e l'Esmun fenicio. In questo caso l'uomo-dio si trovava sostituito da un'immagine della divinità, da un manichino, una pietra o un tronco d'albero sacro. Ma sussistono anche in questi casi indizi sufficienti per attestare che si trattava, sotto una civiltà più umana, dell'attenuazione di un sacrificio umano primitivo. Così nel culto di Attis è difficile misconoscere le vestigia di un antico sacrificio umano volontariamente acconsentito nel nome del sommo sacerdote, chiamava a sua volta Attis, vale a dire «padre», e nel rito in cui, al momento della grande festa del dio, il sommo sacerdote si lacerava lui stesso e dava il suo sangue per cospargere l'immagine del dio. [34]

Il punto di partenza di tutti questi culti sembra essere stato Babilonia. Bel, il dio supremo, e con lui Marduc, già citato, e Tammuz, erano degli dèi che morivano e risorgevano. A volte si immaginavano anche le divinità Sin, Samas e Nergal discendere agli inferi, cioè morire e risorgere. Si tratta naturalmente di una personificazione del sole che, all'equinozio d'autunno, al punto in cui la sua orbita interseca l'equatore celeste e disegna così nel cielo una croce immaginaria, discende nella metà inferiore del suo corso, quella che rappresenta l'inverno e le tenebre (cioè «muore»), per risalire in seguito all'equinozio vernale, per essere «elevato» alla croce e dare al mondo una vita nuova. La croce divenne così il segno o simbolo della vita e della morte, più particolarmente di una vita nuova risorgente dalla morte. [35] Gli Israeliti conoscevano benissimo questi culti. Ezechiele dà una descrizione delle donne di Gerusalemme assise alla porta settentrionale della città e in lamento per Tammuz, [36] Zaccaria parla misteriosamente dell'assassinio di un dio sul quale piangono gli abitanti di Gerusalemme, «simile al lutto di Adadrimmon (Ramman) nella valle di Meghiddo», cioè come il lutto di Adone. Si è già visto che Giosuè era un parente stretto del dio salvatore babilonese Marduc, che l'idea che ci si faceva di lui si ispirava a considerazioni astrali e che la croce giocava anch'essa un ruolo significativo nel suo culto. Il suo nome è lo stesso di Iasios. Quest'ultimo, a sua volta, non è che un altro nome per Esculapio o Esmun, ma Esmun era uno di quei dèi dell'antichità che muoiono e risorgono. Nulla impedisce quindi — Brückner stesso lo riconosce — di contare anche Giosuè nel numero di questi ultimi.

Un'antica variante di Matteo 27:16 ss., scomparsa dai nostri testi fin da Origene, dà a Barabba, il criminale che fu opposto al Salvatore, il nome di «Gesù Barabba», ovvero: Gesù figlio del padre. «Figlio del padre» (Jahvé) era anche, come abbiamo visto, il titolo dell'angelo di salvezza identificato a Giosuè, angelo che era in possesso del nome sacro di Dio e a cui il Talmud dà il nome di Metatrone. Tra i Semiti, il titolo «Figlio del padre» sembra in modo generale aver designato gli uomini offerti dai loro padri al Dio supremo in sacrificio espiatorio, o agli stessi dèi, di cui si imitava così il dramma realizzatore della salvezza che era loro attribuita, che senza dubbio non era che la trasposizione del rito sacrificale. Quando si è ben compreso quanto precede, si spiega meglio ciò che riporta Filone di un povero pazzo di nome Carabas, che fu portato per le vie di Alessandria con una corona di carta, uno scettro e un mantello, come beffa per Agrippa, re degli ebrei. Non si tratterebbe, come suppongono Frazer e Robertson, [37] di un antico rito religioso? Carabba sembra proprio non essere altro che una corruzione di Barabba, e Gesù Barabba gioca un ruolo nella passione del salvatore cristiano, che a sua volta è oggetto di una scena di derisione da parte dei soldati romani. 

È interessante che un tale Barabba appaia anche nella festa del nuovo anno che i Babilonesi dedicarono a Marduc, sotto la specie di un criminale messo in libertà, mentre Marduc stesso, o più esattamente l'uomo che lo rappresentava, era martirizzato e ucciso al posto del criminale. [38] Frazer riferisce che alle Sacee di Babilonia, festa che si diceva commemorare l'invasione dei Saci sciti in Asia occidentale, ma che Frazer identifica con la Zakmuk, antichissima festa del nuovo anno tra i Babilonesi, un criminale condannato a morte era promosso ad una finta regalità, godeva per qualche giorno di una certa libertà, poteva procurarsi ogni tipo di piacere fino a fare uso dell'harem reale, poi l'ultimo giorno era spogliato della sua dignità fittizia, e bruciato dopo essere stato completamente spogliato e fustigato. [39] Durante la prigionia di Babilonia, gli ebrei vennero a conoscenza di quella festa, la copiarono dai loro oppressori e la celebrarono poco prima della loro pasqua sotto il nome di Purim, con il pretesto, addotto dal libro di Ester, di commemorare il grande pericolo al quale erano sfuggiti in Persia durante il regno di Assuero (Serse), grazie alla saggezza di Ester e di suo zio Mardocheo. 

D'altra parte Jensen nella Zeitschrift für die Kunde des Morgenlandes (Rivista delle scienze orientali) ha dimostrato [40] che i nomi di Ester e Mardocheo nascondono quelli della dèa babilonese Isthar e di suo figlio Marduc, che tra i Babilonesi, alla festa delle Sacee, sotto i nomi degli dèi elamiti Vashti e Hamman (Humman), rappresentavano il vecchio anno o la metà invernale dell'anno, erano soppressi come tali, poi resuscitavano sotto i loro veri nomi e inauguravano il nuovo anno, o la metà estiva dell'anno. [41] Tra i Babilonesi il Re delle Sacee aveva quindi lo status di una divinità e subiva in quella veste la morte sul rogo, dove si sono anche sacrificati, si diceva, il Sandan cilicio e il Melkart (Ercole) fenicio. 

Si legge nel libro di Ester: «Mardocheo si allontanò dal re con una veste reale di porpora viola e di lino bianco, con una grande corona d'oro e un manto di bisso e di porpora rossa. E la città di Susa gridava di gioia». [42] In quella descrizione, Frazer ha riconosciuto l'antico re delle Sacee babilonesi, il rappresentante di Marduc, e il suo corteo che, attraversando la capitale, inaugurava il nuovo anno. In realtà, la processione di questo finto re sembra essere stata molto meno solenne di quanto vorrebbe farci credere l'autore del libro di Ester. Lagarde ha infatti segnalato una antica usanza persiana praticata ogni anno nei primi giorni di marzo, alla prima primavera, e conosciuta sotto il nome di corsa del glabro; un buffone senza barba e se possibile guercio, completamente nudo, veniva condotto su un asino per la città, in pompa magna, accompagnato da una guardia reale e da una truppa di cavalieri, dileggiato dalla folla che agitava le palme e acclamava questo finto re.  Ai ricchi e ai commercianti che incontrava, aveva il diritto di imporre confische, di cui una parte era versata nel tesoro reale e l'altra lo teneva per sé, e addirittura poteva impadronirsi senza altra forma di processo di ciò che gli venisse rifiutato. Tuttavia, a un certo punto, egli doveva aver completato il suo giro della città e sparire, sotto minaccia di essere arrestato, maltrattato e ucciso senza pietà dalla folla. Il corteo di quest'uomo «glabro» annunciava la fine prossima dell'inverno e un anno fertile. Il persiano glabro corrispondeva quindi al re delle Sacee tra i Babilonesi, e sembra aver rappresentato l'inverno al suo declino. Frazer ne deduce che il criminale che interpretava il ruolo del Mardocheo ebreo attraversasse la città in un corteo analogo a quella del glabro per riscattare la sua libertà con quella mascherata offerta al popolo, e ricorda a questo proposito il racconto, menzionato più sopra, che Filone dà del Carabas degli Alessandrini. [43]

Risulta da tutte queste testimonianze che secondo una antica usanza diffusa in Asia occidentale, alla festa della primavera, la pasqua ebraica, un criminale vestito da re, che interpretava il ruolo del dio dell'anno, era condotto per la città in pompa magna e, dopo aver goduto per qualche giorno di ogni sorta di libertà, veniva messo a morte, o realmente o più tardi per finta, mentre un altro criminale veniva rilasciato. Nella misura in cui si rilassavano i costumi, quell'usanza sembra aver assunto sempre più il carattere di una scena di derisione a spese di un uomo travestito da re, e allora può aver servito benissimo a fini politici. I vangeli danno di Gesù un racconto che ricorda il re delle Sacee e l'imberbe persiano: assiso su un asino, acclamato dalla popolazione, entra a Gerusalemme e si permette le maggiori libertà nei confronti dei cambiavalute e dei mercanti, poi la sua regalità viene derisa e viene messo a morte, mentre Barabba è rilasciato. In fondo, questi non è altro che Gesù stesso, ovvero il rappresentante del nuovo anno, della metà ascendente del corso del sole opposto alla metà discendente; ecco perché ha lo stesso nome: Gesù figlio del padre. Più tardi, sconvolto dal fatto che un criminale doveva anche chiamarsi Gesù, si lasciò sussistere solo il nome Barabba, incomprensibile di per sé, e si prevennero così le obiezioni degli avversari che potevano rimproverare ai cristiani che il loro Gesù non era altro che il Gesù Barabba dell'usanza popolare. [44] Secondo Frazer, il regno del re delle Sacee a Babilonia durava cinque giorni. Cinque giorni, si dice, separavano anche l'ingresso di Gesù a Gerusalemme dalla sua crocifissione. 

Si obietta che, essendo l'idea delle sofferenze del Messia sconosciuta agli ebrei, questi non avrebbero mai potuto sognare di stabilire una qualche relazione tra il loro Messia e quell'usanza popolare del nuovo anno. Ma ecco una tesi che non può essere difesa. Esistono ragioni serie per ammettere che, secondo la tradizione primitiva, Mosè e Aronne si sono anch'essi sacrificati per il popolo nella loro veste di capi e di sommi sacerdoti, episodio che si è più tardi rimosso dal testo per parafrasarlo in un altro senso. [45] Ma siccome questi due uomini, e più particolarmente Mosè, erano considerati prototipi del Messia, si fu indotti del tutto naturalmente a pensare che il grande capo e sommo sacerdote che attendeva Israele, in cui dovevano rivivere Mosè e Aronne, [46] dovesse a sua volta sacrificarsi sull'esempio di Mosè. [47] Abbiamo visto più sopra che dopo l'esilio, alcuni ebrei avevano associato la persona di Ciro all'idea del Messia. Ma una leggenda affermava che Ciro, per ordine di Tomyris, regina degli Sciti, era stato messo a morte al legno di tortura. [48] In Giustino, l'ebreo Trifone è convinto che il Messia soffrirà e morirà di una morte violenta. [49] Il Talmud vede anch'esso nella morte del Messia un'espiazione dei peccati, il che prova chiaramente «che nel secondo secolo della nostra era gli ebrei, almeno in certi ambienti, si erano familiarizzati con l'idea di un Messia sofferente in espiazione dei peccati degli uomini». [50

I rabbini si facevano del Messia due concezioni diverse. Alcuni vedevano in lui il figlio di Davide,  fulmine di guerra inviato da Dio per liberare i Giudei dal giogo straniero, fondare il regno universale e giudicare l'umanità; questa era la concezione messianica di coloro che fecero del re Davide il loro ideale. [51] Secondo gli altri, il Messia doveva riunire le dieci tribù in Galilea e condurle verso Gerusalemme, ma perire nella sua lotta contro Gog e Magog combattenti sotto Armillo, a causa del peccato di Geroboamo, cioè della defezione degli Israeliti nei confronti dei Giudei. Nel Talmud, questo secondo Messia, per opposizione al primo, è chiamato figlio di Giuseppe o di Efraim, perché il regno di Israele comprendeva soprattutto le tribù di Efraim e di Manasse, che riconducevano le loro origini al personaggio mitico di Giuseppe. Era quindi il Messia degli Israeliti ostili ai Giudei, in particolare, a quanto sembra, quello dei Samaritani. Questo Messia «figlio di Giuseppe», si dice, «offrirà se stesso e riverserà la sua anima nella morte, e il suo sangue sarà la riconciliazione del popolo di Dio». Però lui stesso salirà al cielo. È allora che l'altro Messia, il «figlio di Davide», soprattutto il Messia degli ebrei, verrà e realizzerà le promesse fatte agli ebrei. Quella dottrina aver subito l'influenza di Zaccaria 12:10 ss. e 14:3 ss. [52] Secondo Dalman, [53] l'idea del Messia figlio di Giuseppe non sarebbe sorta che nel secondo o terzo secolo della nostra era. Bousset sembra anche vedervi una tradizione «abbastanza recente», ma egli non nega che le Apocalissi ebraiche della fine del primo secolo della nostra era, primi scritti che informano in modo dettagliato su questo personaggio, possono contenere tradizioni «antichissime». Già il parsismo distingueva da una parte tra Mitra, salvatore soccombente alle sue sofferenze e mediatore tra Dio e il mondo, e dall'altra parte Saoshyant, giudice supremo che presiederà al giudizio finale e riporterà la vittoria su Ariman (Armillo). Può darsi, quindi, che gli ebrei prendano dai persiani l'idea della passione del Messia, idea che forse non è stata accettata da tutti, ma che alcune sette, che la coltivavano in segreto, mettevano in correlazione con un'antica usanza e un'antica divinità che abbiamo trovato essere il Giosuè (Gesù) dell'Antico Testamento, il «figlio del padre». Questi due Messia, il vangelo li fuse in uno solo: del Messia figlio di Giuseppe esso fece il Messia terreno, che si reca con i suoi fedeli dalla Galilea a Gerusalemme per soccombervi di fronte ai suoi avversari, e del Messia figlio di Davide fece il Messia celeste che ritorna nella sua gloria; nello stesso tempo il vangelo diede al messianismo un'ampiezza e una profondità fino ad allora sconosciute, fondendo l'idea della passione con quella dell'agnello di pasqua, e quest'ultima con quella del dio che immola suo figlio. Come gli ebrei, il vangelo fa del suo Messia il figlio del re Davide, ma ha anche conservato il ricordo del Messia israelita, dandogli per padre Giuseppe, e per madre Miriam (Mariam), [54] madre del Giosuè samaritano. [55] Naturalmente, il Messia figlio di Davide doveva nascere a Betlemme, città di Davide; il Messia figlio di Giuseppe era originario di Nazaret, in Galilea; ecco perché il vangelo immaginò il viaggio dei suoi genitori, soluzione bastarda che vuole conciliare le due tradizioni.

Abbiamo visto che nella Didaché Gesù è chiamato «servo» di Jahvé. Ma servo di Jahvé è anche il titolo che dà Isaia 53 al Giusto oppresso di sofferenze, di cui è detto: 

Disprezzato e reietto dagli uomini,
uomo dei dolori che ben conosce il patire,
come uno davanti al quale ci si copre la faccia,
era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.
Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze,
si è addossato i nostri dolori
e noi lo giudicavamo castigato,
percosso da Dio e umiliato.
Egli è stato trafitto per i nostri delitti,
schiacciato per le nostre iniquità.
Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui;
per le sue piaghe noi siamo stati guariti.
Noi tutti eravamo sperduti come un gregge,
ognuno di noi seguiva la sua strada;
il Signore fece ricadere su di lui l'iniquità di noi tutti.
Maltrattato, si lasciò umiliare
e non aprì la bocca.
Come l'agnello condotto al mattatoio,
come la pecora muta davanti a chi la tosa,
egli non aprì la bocca.
Fu portato via dall'oppressione e dal giudizio;
e tra quelli della sua generazione chi rifletté
che egli era strappato dalla terra dei viventi
e colpito a causa dei peccati del mio popolo?
Gli avevano assegnato la sepoltura fra gli empi,
ma alla sua morte fu posto col ricco,
perché non aveva commesso violenze
né c'era stato inganno nella sua bocca.
Ma il Signore ha voluto stroncarlo con i patimenti...
Dopo aver dato la sua vita in sacrificio per il peccato,
egli vedrà una discendenza, prolungherà i suoi giorni,
e l'opera del Signore prospererà nelle sue mani.
Dopo il tormento dell'anima sua vedrà la luce e sarà soddisfatto;
per la sua conoscenza, il mio servo, il giusto, renderà giusti i molti,

si caricherà egli stesso delle loro iniquità.
Perciò io gli darò in premio le moltitudini,
egli dividerà il bottino con i molti,
perché ha dato se stesso alla morte
ed è stato contato fra i malfattori;
perché egli ha portato i peccati di molti
e ha interceduto per i colpevoli.

Si dice generalmente che questo testo descrive le pene che Israele aveva da soffrire nell'interesse dell'umanità. Ma i lavori di Gressmann [56] e di Cheyne [57], tra gli altri, hanno stabilito che il Servo di Dio era originariamente un dio-salvatore morente e risorgente, la cui natura divina è scomparsa sotto i rimaneggiamenti ulteriori dei profeti. Se si deve credere a Cheyne, i passi di Israele riferentisi al Servo di Dio non si sono conservati che sotto una forma molto alterata, e originariamente l'elemento mitologico vi dominava molto più di quanto lo fa attualmente. [58] Il Servo di Dio apparentato al dio Tammuz dei Babilonesi era forse identico ad Hadad-Rimmon citato più sopra. Cheyne crede persino di poter affermare che in Isaia il suo nome primitivo era Ashkal o Ashur: Jahvé-Ashur. Ora, questo è, ad avviso del celebre ebraizzante, la forma primitiva del nome Jehoshua, Joshua, Jeshua e Jeshu o Gesù! [59

Il capitolo 53 di Isaia ci fornisce così una nuova prova della passione di un Giosuè precristiano. E il Servo di Dio era davvero un personaggio messianico. È detto di lui, in Isaia 53:2, che egli si è elevato davanti a Jahvé «come un ramoscello, come una radice da un arido suolo». Geremia aveva chiamato il Messia un «germoglio giusto» di Davide; [60] Zaccaria, avendo visto il Messia Giosuè, il sommo sacerdote, aveva parlato di lui come del servo il germoglio; [61] e Isaia aveva detto del Messia: 

«Poi un ramoscello uscirà dal tronco di Isai 

E un germoglio spunterà dalle sue radici».

Egli indica così l'identità del Messia e del Servo di Dio. Isaia 42 annuncia che Dio stesso sosterrà il suo servo, il suo prescelto, e che ha messo il suo spirito su di lui. Questo è esattamente ciò che il profeta dice anche del Messia nel passo famoso (Isaia 11) dove descrive gli splendori del regno futuro. Isaia 61 dichiara anche: 

«Lo Spirito del Signore Dio è su di me, 

perché il Signore mi ha unto per recare una buona novella agli umili».

Secondo il vangelo di Luca, Gesù, al momento della sua prima manifestazione pubblica nella sinagoga di Nazaret, non esiterà ad applicare questo passo alla sua persona, sviluppando il programma del suo ministero. [62] Così si afferma che il Servo di Dio non era altro che il Messia, il Cristo, l'Unto, e che il più grande dei profeti, descrivendo il Messia come l'uomo dei dolori, aveva dipinto egli stesso il quadro della passione del Messia!

Nel suo capitolo 53, Isaia sembra vedere le sofferenze del Servo di Dio soprattutto sotto forma di una malattia. Ciò concorda con Giobbe, considerato egli stesso uno dei prototipi del Messia, [63] e parente stretto del Servo di Dio descritto dai profeti: [64] nonostante la sua giustizia egli fu provato dalla malattia. Platone, che aveva descritto nella sua «Repubblica» le persecuzioni e le sofferenze alle quali il Giusto è esposto, lo fa flagellare, torturare, gettare in prigione e infine impalare (crocifiggere), [65] e nella «Sapienza di Salomone», scritta nell'ultimo secolo prima della nostra era, gli empi complottano per condannare il giusto ad una «morte ignominiosa». Ora, secondo Deuteronomio 21:23, non esisteva morte più ignominiosa di quella «al legno di tortura» (in greco: xylon, stauros; in latino: crux). Quella morte si presentava, quindi, come la sola conveniente al giusto, adatta ai giusti, anche se non si fosse più ricordato che Gesù era morto sulla croce.

Il motivo di quella morte è stato fornito dal passo della Sapienza, combinato con il pensiero di Platone: egli è morto vittima degli ingiusti, degli empi, che dicono: «Facciamo violenza al povero Giusto. Tendiamo insidie al Giusto perché per noi è d'incomodo, e si oppone a ciò che facciamo, e ci rimprovera di trasgredire la legge». Per «d'incomodo», il testo greco dice dyschrestos (enedreusomen de ton dikaïon, hoti dyschrestos hêmin estin, Sapienza 2:12). Di conseguenza, il Giusto era effettivamente chrêstos, vale a dire piacevole, buono, benevolo. L'allusione al Messia era ovvia. Si sa che la parentela tra i due termini Chrêstos e Christos non era solo fonetica, ma che i primi cristiani hanno effettivamente impiegato l'uno per l'altro! [66] Lo si aveva solo trascurato o male interpretato: da allora era evidente che tutti questi passi erano altrettante allusioni misteriose al Salvatore di Israele morente e sofferente per i peccati degli uomini, all'esempio degli dèi pagani che muoiono e risorgono. 

Il Servo di Dio doveva anche risorgere. Si legge nella Sapienza: «Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio, nessun tormento le toccherà. Agli occhi degli stolti parve che morissero; la loro fine fu ritenuta una sciagura, la loro partenza da noi una rovina, ma essi sono nella pace. Anche se agli occhi degli uomini subiscono castighi, la loro speranza è piena di immortalità. Per una breve pena riceveranno grandi benefici, perché Dio li ha provati e li ha trovati degni di sé: li ha saggiati come oro nel crogiuolo e li ha graditi come un olocausto. Nel giorno del loro giudizio risplenderanno; come scintille nella stoppia, correranno qua e là. Governeranno le nazioni, avranno potere sui popoli e il Signore regnerà per sempre su di loro. Coloro che confidano in lui comprenderanno la verità, i fedeli nell'amore rimarranno presso di lui, perché grazia e misericordia sono per i suoi eletti. Ma gli empi per i loro pensieri riceveranno il castigo, essi che han disprezzato il Giusto e si son ribellati al Signore». E la Sapienza fa del Giusto morto prematuramente il giudice degli ingiusti: «Si presenteranno tremanti al rendiconto dei loro peccati, le loro iniquità si alzeranno contro di essi per accusarli. Allora il Giusto starà con grande fiducia di fronte a quanti lo hanno oppresso e a quanti hanno disprezzato le sue sofferenze. Costoro vedendolo saranno presi da terribile spavento, saranno presi da stupore per la sua salvezza inattesa. Pentiti, diranno fra di loro, gemendo nello spirito tormentato: Ecco colui che noi una volta abbiamo deriso e che stolti abbiamo preso a bersaglio del nostro scherno! Giudicammo la sua vita una pazzia e la sua morte disonorevole. Perché ora è considerato tra i figli di Dio e condivide la sorte dei santi? Abbiamo dunque deviato dal cammino della verità, la luce della giustizia non è brillata per noi, né mai per noi si è alzato il sole!».

Non vi è più dubbio: il Giusto era il Servo di Dio, e questi era il Messia! Era infatti uno degli elementi essenziali delle speranze messianiche ebraiche, questo avvento del Messia nella sua gloria celeste, per giudicare Israele secondo le sue opere, condannare gli empi e raccogliere i buoni attorno a lui nel cielo per la vita eterna: «I giusti al contrario vivono per sempre, la loro ricompensa è presso il Signore e l'Altissimo ha cura di loro. Per questo riceveranno una magnifica corona regale, un bel diadema dalla mano del Signore». [67] Il Giusto è perseguitato e ucciso perché si definisce il Servo di Dio. Ma il termine greco païs può designare sia un servo che un figlio! In generale, ciò che la Sapienza di Salomone dice del Giusto si armonizza con la descrizione del Servo di Dio in Isaia, che dice tra le altre cose:

«Ecco, il mio servo avrà successo,

sarà onorato, esaltato e molto innalzato.

Come molti si stupirono di lui

— tanto era sfigurato per essere d'uomo il suo aspetto

e diversa la sua forma da quella dei figli dell'uomo -

così si meraviglieranno di lui molte genti;

i re davanti a lui si chiuderanno la bocca,

poiché vedranno un fatto mai ad essi raccontato

e comprenderanno ciò che mai avevano udito». [68]

Ciò non ci ricorda forse quel che si legge nello Sapienza della sorpresa piena di terrore degli empi di fronte al Giusto riabilitato?

«Egli sarà giudice fra le genti

e sarà arbitro fra molti popoli». [69]

Il Giusto, il Servo di Dio, era Jahvé stesso, o più esattamente questo «Figlio di Dio» per eccellenza che era il Messia, e tutti questi passi facevano di lui un salvatore sofferente, morente e risorgente, che con la sua morte avrebbe tolto i peccati degli uomini e avrebbe dato felicità a coloro che lo avrebbero amato, che avrebbero confidato in Lui e avrebbero seguito le sue orme. 

Isaia 7:14 dava al «figlio della vergine», che si identificava al «germoglio» messianico di Isaia 11:1, il nome di Emmanuele, che significa «Dio con noi». Questo era anche il significato che il popolo dava al nome di Gesù, Jehoshua o Giosuè: «Yah-Soccorre», Jahvé è soccorso. [70]  È quindi un fatto che il Servo di Dio, il Messia sofferente di Isaia, portava già questo nome, e che esisteva, non solo, come concede Gunkel, un Cristo precristiano, «una fede nella morte e nella resurrezione del Cristo negli ambienti giudeo-sincretisti», [71] ma anche un Gesù precristiano, Gesù e Cristo non essendo che due nomi diversi che designano il Servo di Dio, il germoglio di Davide annunciato da Isaia, e questi due nomi potevano essere sovrapposti qualora si volesse esprimere contemporaneamente la dignità messianica e la dignità sacerdotale del Salvatore. Gesù non era altro che il nome generale e popolare del Salvatore: se già due volte, in momenti critici della storia di Israele, un Gesù aveva salvato il popolo e lo aveva riportato dall'esilio nella sua vera patria, si capiva da sé che quest'opera sarebbe stata compiuta anche per la terza volta da un Gesù. Se si è soliti obiettare che Gesù era un nome diffusissimo tra gli ebrei, si capovolge semplicemente la relazione di causa ed effetto: non è per quella ragione che il salvatore fu chiamato Gesù, ma viceversa: si aveva una predilezione per questo nome perché era quello del salvatore, così come negli Stati monarchici si dava spesso ai bambini il nome di un sovrano eminente da cui si attende la salvezza. [72

NOTE

[1] 24:5.

[2] Allo stesso modo il teologo PREUSCHEN riconosce che non è per nulla evidente che ho Nazoraios significhi quello di Nazaret, dicendo nel suo Kommentar zur Apostelgeschichte (1902): «Il significato di questo termine è discusso, come quello del soprannome di Nazaraïos dato a Gesù» (l. c. pag.  138).

[3] VOLKMAR, Die Evangelien, 1870, pag. 503.

[4] LIDZBARSKI, Mandäische Liturgien, 1920, pag. 16 ss., Abh. d. Ges. d. Wiss. zu Göttingen, N. F. 17 1; ZIMMERN, Nazaräer (Nazarener) in Ztschr. d. deutschen Morgenl. Ges., 1920, pag. 74.

[5] Panarion haer. 18:29.

[6] Isaia 11:1.

[7] In ogni caso l'esistenza di Nazaret non è attestata prima del IV° secolo da EUSEBIO (Storia ecclesiastica 1:7, 14).

[8] Confronta la mia opera: Il Vangelo di Marco testimone contro la Storicità di Gesù, 1921, pag. 62 ss.

[9] Pagan Christs, 2° edizione, 1911, pag. 162 ss. The Jesus Problem, 1917.

[10] Der vorchristliche Jesus, 1906, 2° edizione. Ecce Deus, 1911.

[11] Nell'appendice a Ecce Deus, SMITH ha confutato le obiezioni sollevate dai teologi; si veda anche l'appendice alla seconda parte del mio Cristo mitico (1911). ROBERTSON, nelle sue pubblicazioni più recenti The Historical Jesus (1916) e The Jesus Problem (1917), malgrado gli attacchi dei suoi avversari, non si è visto costretto a far loro alcuna concessione.

[12] Marco 5:27; Luca 24:19; Atti 18:25, 28:31.

[13] Matteo 10:1 s., Marco 3:13 ss.; Luca 9:1 ss., confronta anche 10:1 ss.

[14] Matteo 10:7.

[15] L. c. 32 ss.

[16] Matteo 10:1, 8.

[17] Atti 19:8.

[18] ROBERTSON, The Jesus Problem, 90.

[19] SMITH, Der vorchristl. Jesus, capitolo 1.

[20] La tradizione e la spiegazione tedesca sono un esempio illuminante dei metodi praticati dai teologi per sbarazzarsi dei passi che li imbarazzano; si vede quanto le traduzioni di questo genere siano influenzate dalle idee preconcette.

[21] WHITTACKER, l. c.

[22] Die Oden Salomos in Ztschr. f. d. neutestamentl. Wissenschaft u. Kunst d. Urchristentums 1910, pag. 291, 55; confronta anche il suo studio Die Oden Salomos in Deutsche Rundschau, rivista di gennaio 1913. 

[23] L. c. § 48.

[24] Esodo 17:10 ss. Confronta GIUSTINO, Contra Tryph. 90:4, 91:1.

[25] Confronta la mia opera: Gli Astri, ecc., pag. 25. Per il significato mistico della croce: Mito di Gesù I, pag. 108 ss; ROBERTSON, Die Evangelienmythen, 1910, pag. 132 ss.

[26] 8:24 ss.; 10:15-26.

[27] 2 Samuele 21:6 ss.; confronta Numeri 25:4.

[28] Si vedano i versi citati della 42° ode di Salomone.

[29] 2 Samuele 21:9; Levitico 23:10 ss.

[30] 2 Re 3:27.

[31] EUSEBIO, Praep. evang. 1:10; confronta MOVERS, l. c. I 303 s.

[32] Confronta GHILLANY, poi DAUMER, Der Feuer- und Molochdienst der alten Hebräer, 1842; Die Menschenopfer der alten Hebräer, 1942.

[33] FRAZER, The golden bough, 1900, II, pag. 196 ss.

[34] FRAZER, Adonis, Attis, Osiris, 1906, 128 ss.; HEPDING, Attis, 1903; confronta BAUDISSIN, Adonis und Esmun. Eine Untersuchung zur Geschichte des Glaubens an Auferstehungsgötter und Heilgötter, 1911; Martin BRUCKNER, Der sterbende und auferstehende Gottheiland in den orientalischen Religionen und ihr Verhältnis zum Christentum, Religionsgesch. Volksbücher, 1908.

[35] Confronta la mia opera: Gli Astri, pag. 174.

[36] 8:14.

[37] Pagan Christs, 146.

[38] ZIMMERN, Zum babylonischen Neujahrsfest, 2. Beilage in den Berichten über die Verhandlungen der Sächsischen Gesellschaft der Wissenschaften zu Leipzig. Phil. hist. Kl. 70. Band, 1918, Heft 5. 

[39] L. c. 3 138 ss.

[40] 6:47 ss., 209 ss.

[41] Confronta GUNKEL, Schöpfung und Chaos in Urzeit und Endzeit, 1895, 309 ss.; SCHRADER, Die Keilinschriften und das Alte Testament, 1902, 514 ss.

[42] Ester 8:15, confronta 6:8, 9.

[43] A proposito di questo racconto confronta P. WENDLAND, Zischr. Hermes 32 1898, 175 ss.

[44] ROBERTSON, The Jesus Problem 31-39.

[45] Numeri 20:22 ss.; 27:12 ss.; 33:37 ss.; Deuteronomio 32:48 ss. Confronta GHILLANY l. c. 709-721.

[46] Deuteronomio 18:15.

[47] Ebrei 5.

[48] Diodoro di Sicilia 2:44.

[49] GIUSTINO, Dial. cum Tryphone 90.

[50] SCHÜRER, l. c. 2:555. Confronta WÜNSCHE, Die Leiden des Messias 1870.

[51] Si veda più sopra pag. 65 ss.

[52] Confronta EISENMENGER l. c. 2 270 ss.; GFRORER, Das Jahrhundert des Heils, 1838, 2 230 ss.

[53] DALMAN, Der leidende und der sterbende Messias der Synagoge im ersten nachchristlichen Jahrtausend, 1888, pag. 21; BOUSSET, Die Religion des Judentums im neutestamentlichen Zeitalter, 1903, pag. 218 s.; JEREMIAS, l. c. 40 s.

[54] Ricordiamo che Miriam è anche il nome della sorella di Mosè, sosia di Giosuè; è lei che assume il ruolo di madre.

[55] Si veda pag. 46, nota.

[56] GRESSMANN, Der Ursprung der israelitisch-jüdischen Eschatologie, 1905, pag. 322 ss.

[57] CHEYNE, The mines of Isaiah re-explored, 1912, pag. 42 s.

[58] CHEYNE, l. c., pag. 33.

[59] CHEYNE, l. c. 28 ss, 31, 43, 109 s.; confronta Hibbert Journal, luglio 1911, pag. 891; CHEYNE, Traditions and Beliefs of ancient Israel, 1907, pag. 33, 36, 56 s., 326, 438.

[60] Geremia 23:5.

[61] Zaccaria 3:8; 6:12.

[62] Luca 4:18 ss.

[63] Si veda il passo citato più sopra dell'epistola di Giacomo.

[64] Mito di Gesù II 260 ss.

[65] Nella sua Apologia del Cristianesimo (2:361), Apollonio si riferisce al passo di Platone summenzionato: «Infatti un filosofo greco dice: il giusto sarà torturato, gli sarà sputato in faccia, e infine sarà crocifisso!»

[66] VAN DEN BERGH VAN EYSINGA, Radical views about the New Testament, 1912, pag. 42.

[67] Sapienza 5:15 s.

[68] Isaia 3:13-15.

[69] Isaia 2:4.

[70] Confronta Siracide 46:1.

[71] GUNKEL, Zum religionsgesch. Verständnis usw. pag. 82.

[72] Tutto ciò che si è appena letto dimostra quanto sia poco fondato da parte dei teologi il rancore di cui fanno prova quando si divertono a prendere in giro e a presentare come le farneticazioni di un dilettante ciò che avevo da dire sul nome e sul culto precristiano di Gesù. Posso basare la mia opinione sulla testimonianza di un uomo di cui né la competenza né l'erudizione non saranno contestate dai teologi: il prof. CHEYNE scrisse nel Hibbert Journal, aprile 1911, pag. 58: «La prova diretta del nome divino Giosuè in tempi precristiani è sia scarsa che discutibile. Tuttavia, sono incline (per motivi personali) a concordare con il Prof. Drews nel suo parere del punto principale in discussione». E a pag. 662: «A mia opinione il professor Drews e le sue autorità hanno ragione in sostanza». 

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