domenica 6 giugno 2021

IL MITO DI GESÙ (VI)

 (segue da qui)


3. GESÙ DIO CULTUALE DELLE SETTE EBRAICHE.

Meritare quella felicità di vedere Dio e di unirsi a lui, e di avere già sulla terra una pregustazione della vita celeste, tale era l'aspirazione di tutti gli spiriti religiosi del tempo. Gli ebrei pensavano di pervenirvi mediante l'osservanza letterale della legge, ma si impigliarono in una rete di scrupoli ansiosi e di prescrizioni meticolose, cosi tanto che nella misura in cui vi si metteva più zelo, diveniva sempre più difficile servire quella legge. Divenendo i doveri religiosi incompatibili con le esigenze della vita normale, alcuni si ritirarono dal mondo per dedicarsi, nel silenzio e nella solitudine, esclusivamente alla cura della loro vita spirituale.

In Egitto, ci insegna Filone nel suo libro Della Vita contemplativa, i terapeuti (guaritori), confraternita religiosa composta da ebrei e da proseliti, la cui colonia madre si trovava presso Alessandria, cercavano in quel modo di realizzare i postulati religiosi formulati da Filone. La pratica di alcuni riti religiosi simili a quelli delle sette orfico-pitagoriche, come l'astensione dalla carne e dal vino, la castità, la povertà volontaria, i pasti e i canti religiosi, le vesti bianche e lo studio di scritti tradizionali di rivelazione mistica a cui si ispiravano per l'interpretazione allegorica della legge di Mosè, tutto ciò si accompagnava da loro ad una pietà contemplativa e agli esercizi religiosi praticati in comune, dove si cercava di fortificarsi reciprocamente nella certezza della salvezza. Al di là del Giordano si trovava la colonia madre della setta ebraica degli Esseni o Esseniani (dalla parola siriaca hase, plurale hasen o hasaia, da cui le due forme del nome), che si designavano loro stessi, come indica il loro nome, i santi, i timorati di Dio. Predicando l'astinenza, il celibato, la povertà, respingendo la schiavitù, il giuramento e i sacrifici sanguinosi, venerando il sole come una manifestazione della luce divina, essi concordavano su tutti questi punti con i terapeuti. Se ne distinguevano per la loro vita in comune, l'organizzazione cenobitica del loro ordine diviso in più gradi, la loro sottomissione rigorosa ai loro superiori, la prova di un noviziato di diversi anni, le loro tradizioni segrete e la loro pratica della medicina e della divinazione. Mentre i terapeuti dedicavano la loro vita a oziose contemplazioni e agli esercizi religiosi, gli Esseni si dedicavano a lavori agricoli, all'allevamento e all'apicoltura, spesso esercitavano anche un mestiere, e conducevano una vita di purezza e di santità sia nella solitudine delle campagne, sia confinati in delle specie di monasteri, nelle città della Giudea. Ma le due sette condividevano la stessa attesa impaziente della fine del mondo, e si preparavano a ricevere degnamente il compimento delle promesse divine mediante la pratica di virtù come la fratellanza, la giustizia, la carità e la misericordia. [1]

Quali erano le tradizioni segrete a cui si appellavano  queste sette? Lo storico ebreo Giuseppe ci informa che gli Esseni professavano sulla natura dell'anima e del corpo idee nettamente dualiste che condividevano, del resto, a quanto sembra, tutte le associazioni religiose dell'antichità. Come tutte le sette mistiche, consideravano il corpo la tomba e la prigione dell'anima immortale, venuta da un'esistenza precedente radiosa di luce e di felicità; il pessimismo che professavano a riguardo della vita terrena ispirava in loro il forte desiderio di vedersi liberati dalla sensualità, per ottenere nell'aldilà una vita migliore. Vedevano la condizione primordiale della salvezza nell'esercizio di riti misterici, tra i quali figurava soprattutto la scienza dei nomi degli angeli e dei demoni che aprono l'accesso delle diverse sfere celesti concentriche, scienza rivelata ai mortali da uno degli dèi superiori, da un Dio-Salvatore. È un'idea vicina a quella a cui si ispirano Filone e il Libro della Sapienza: la fede nella virtù soprannaturale e salvifica del Verbo divino, mescolata a numerosi elementi stranieri, egiziani, persiani e babilonesi, e trapiantata dal dominio della speculazione filosofica in una sfera di esuberante superstizione. Così l'apocalittica ebraica, i cui punti di contatto con gli Esseni erano numerosi, si dava espressamente come la rivelazione di una sapienza divina e segreta. [2] Si sa anche, attualmente, che tutta quella ideologia procede da un sincretismo religioso particolarmente complesso, composto da elementi babilonesi, persiani, ebraici, egiziani e greci, che durante gli ultimi secoli prima della nostra era si era diffuso per tutta l'Asia occidentale. I suoi aderenti si davano il nome di Adoniani, dal loro presunto fondatore Ado (Adone?). Ma si chiama più generalmente la religione mandea con un altro nome che si davano i suoi adepti: Mandaje (gnostici, vale a dire coloro che conoscono). [3]

Tra le sette numerose che comprendeva quella religione, solo pochi nomi si sono conservati, di cui parecchi rivestono un ruolo nella storia delle eresie del cristianesimo primitivo, come gli ofiti o nasseni, ebioniti, perati, setiani, eliognostici, sampseni, ecc. [4

Si conoscono meglio gli elementi essenziali della loro ideologia religiosa, che era tra le più fantasiose e le più complicate. Tutti credevano che l'anima umana sepolta nelle tenebre sia salvata da un'entità mediatrice appositamente suscitata o chiamata a questo scopo e che, nel mandeismo primitivo, reca il nome Manda d'Hajje, vale a dire Gnosi o Verbo di vita. Sotto le specie di Hibil Ziwa, del Marduc o Nabu babilonese, doveva discendere dal cielo, di cui portava le chiavi, conquistare il mondo col suo potere magico, vincere i demoni decaduti di Dio, portare la fine del mondo e ricondurre le anime di luce alla loro divinità suprema.

L'apocalittica prova che quella ideologia aveva anche numerosi seguaci tra gli ebrei della Palestina. Quelli che la fede letterale dei farisei e la natura del tutto esteriore e formalista del giudaismo ufficiale non soddisfacevano più, trovavano la loro edificazione in queste idee che facevano lavorare la loro immaginazione. Le trattavano in misteri e, probabilmente per paura di conflitti con la religione tradizionale, cercavano di nasconderle agli occhi della moltitudine, [5] da cui la nostra conoscenza imperfetta di questo aspetto della vita religiosa degli ebrei. Allo stesso tempo confondevano il Dio mediatore dei Mandei con il Messia atteso e, come si vede nelle apocalissi di Daniele e di Giovanni, sembrano essersi particolarmente compiaciuti di dipingere con colori vividi la scena in cui Dio chiama (suscita) il salvatore al suo ruolo di mediatore, e lo stabilisce padrone del mondo e giudice dei vivi e dei morti. [6]

Ci siamo abituati a vedere nel giudaismo un monoteismo rigido. A dire il vero esso non lo è mai stato, nemmeno all'epoca del mosaismo dopo il ritorno dall'esilio, qualunque pena si siano dati gli scrittori dei cosiddetti libri storici dell'Antico Testamento per rimaneggiare la tradizione in un senso monoteista, per cancellare le tracce del politeismo israelita primitivo e camuffare gli antichi dèi da patriarchi, eroi, angeli e ministri di Jahvé. Non sono solo le religioni babilonese, persiana, egiziana e greca ad aver influenzato il giudaismo nel senso politeista: fin dall'inizio la fede in un solo Dio, professata ufficialmente dai sacerdoti, si abbina alla credenza in altri dèi, credenza che le influenze straniere non hanno fatto che alimentare e che sembra essere stata coltivata soprattutto nelle sette segrete. 

Al momento della conquista di Canaan, ciascuna tribù recò i propri dèi, attribuendo loro l'onore delle imprese che essa realizzava. Questi dèi furono soppressi dalla riforma che fu l'opera dei profeti. Ma nella misura in cui cresceva il prestigio di Jahvé, probabilmente dio della tribù di Giuda, nella misura in cui per ciò stesso egli si ritirava lontano dal mondo in una luce inaccessibile, il ricordo degli antichi dèi si imponeva con più forza e riprendeva corpo sotto forma di personaggi semi-divini, chiamati figli di Dio, dove si soddisfaceva il bisogno di una presenza immediata e di una rappresentazione sensibile della divinità. Tra loro figura il Volto o l'Angelo di Jahvé che lotta con Giacobbe nel deserto. [7] È lui, si dice, che ha fatto uscire gli Israeliti dall'Egitto e che li ha preceduti sotto la forma di una colonna di fuoco. [8] È lui, si dice ancora, che ha combattuto i loro nemici, cacciato i Cananei dalle loro terre, [9] parlato a Elia come ad Ezechiele [10] e soccorso Israele in situazioni critiche. [11] Gli si dà anche il nome di re (melech) o figlio di Jahvé, [12] il che lo assimila al Marduc babilonese, al Mitra persiano, all'Ercole o Moloc fenicio; poi il nome di figlio primogenito (protogonos) di Dio, che si ritrova tra gli orfici sotto il nome di Fanes, ovvero volto (di Dio), e che ad Olimpia lotta con Zeus come Giacobbe con Jahvé, infine che, come Giacobbe, si ferisce il fianco nella lotta con Ippocoonte. Nella teologia rabbinica egli è identificato all'arcangelo Michele o al mistico Metatrone (Mitra?), personaggio apparentato al Logos, al Principe del volto, capo degli angeli, signore di tutti i signori, re di tutti i re, principio della vita di Dio; ha anche i nomi di guardiano, di sorvegliante, di difensore d'Israele, che porta le preghiere davanti a Dio, e in cui risiede il nome di Dio. [13] Egli si identifica così a quell'angelo promesso nel libro dell'Esodo in cui risiede egualmente il nome di Jahvè, che conduce Israele alla vittoria sugli Amorriti, Ittiti, Perizziti, Caananiti, Ivvei, e Gesubei, [14] e questi non è altro che Giosuè, che si dice abbia vinto le stesse tribù con l'aiuto di Jahvè. [15]

Il nome Giosuè, che significa propriamente Yah-aiuta, suppone la funzione di salvatore. È in effetti in quella veste che Giosuè ha condotto il popolo d'Israele verso la terra promessa dopo molte sofferenze e privazioni. Secondo il calendario ebraico, l'inizio della sua carriera cade il decimo giorno del mese nisan, data nella quale si sceglieva l'agnello pasquale, e la fine alla festa della pasqua stessa. Allo stesso modo in cui si attribuisce a Mosè l'origine della sacra pratica della circoncisione, Giosuè, si dice, l'ha rinnovata. [16] Il rito della circoncisione recava tra gli ebrei il nome di rito di Giosuè il Figlio. [17] Nella liturgia ebraica Giosuè reca il nome di Principe della Presenza (di Dio), come l'angelo salvatore di Isaia (63:9) di cui è detto che salva il popolo d'Israele per il suo amore e per il suo perdono, e che si confonde con il Metatrone e con l'angelo e il figlio di Jahvé. 

È quindi certo che Giosuè non è un personaggio storico, così come l'hanno del resto riconosciuto Stadde, Winkler, Robertson, Smith e altri, ma un antico dio solare della tribù di Efraim, in relazione stretta con la festa della pasqua e il rito della circoncisione, sorta di secondo Mosè. Gli si attribuiscono le stesse imprese del suo illustre predecessore: egli avrebbe fatto attraversare agli Israeliti il Giordano, come Mosè li aveva fatto attraversare il Mar Rosso; [18] egli avrebbe scelto dodici uomini, uno di ciascuna tribù, [19] e avrebbe inciso la legge sulle pietre. [20] E siccome Giosuè non era altro, come è stato detto più sopra, che l'angelo promesso che possiede il nome magico e misterioso di Jahvé, si trova che già nell'Antico Testamento il nome di Giosuè o di Gesù si lega, così come il misterioso Metatrone del Talmud, all'idea del Logos o Verbo (nome) divino, Figlio di Dio e Messia. Forse Emanuel Deutsch, Kohuth e pochi altri hanno ragione a identificarlo con Mitra, dio solare e salvatore dei Persiani, tanto più che nella Septuaginta, versione greca dell'Antico Testamento, l'angelo-salvatore promesso reca i nomi di Angelo del Gran Consiglio e di Giudice, gli stessi che sono dati anche a Mitra. [21

In effetti, gli ebrei hanno stabilito di buon'ora una relazione tra Giosuè e l'idea del Messia. Il ruolo del sommo sacerdote Giosuè nel profeta Zaccaria basterebbe a provarlo. Come suo omonimo, il successore di Mosè, questo sommo sacerdote aveva riportato gli ebrei dalla diaspora e dall'esilio nella loro antica patria, la Palestina, il che doveva essere pure la missione del Messia. [22] In Zaccaria 3, il profeta vede il sommo sacerdote Giosuè in piedi davanti all'angelo di Jahvè, avendo alla sua destra Satana che lo accusa. Ma l'angelo gli ordina di togliersi le vesti sporche di cui è rivestito, e di mettersi degli abiti di festa, e gli promette che il suo sacerdozio sarà eterno se cammina nelle vie di Dio. Nello stesso tempo l'angelo lo paragona a un tizzone strappato dal fuoco, così come il guaritore Esculapio, che porta anch'egli il nome di Iasios (Giasone), forma greca di Giosuè, era stato strappato, si dice, da suo padre Apollo dal corpo in fiamme di sua madre. [23] Giosuè stesso appare nelle vesti di un guaritore e salvatore, quando l'angelo parla di lui e dei suoi compagni come dei precursori di un futuro meraviglioso, quando annuncia la venuta del suo servo il germoglio, e promette che in un solo giorno Jahvé abolirà i peccati della terra. È vero che ci accorgiamo subito che questa parola «germoglio» si riferisce a Zorobabele, capo degli ebrei della stirpe di Davide; è in lui che il profeta riconosce questo germoglio che in Isaia 11:1 indica il futuro Messia. Però, in Zaccaria 6:11, il profeta pone una corona sul capo non solo di Zorobabele, ma anche di Giosuè, in modo che quest'ultimo si trovi elevato allo stesso rango di Zorobabele sul suo trono. Ma Zorobabele non ha giustificato le grandi speranze riposte su di lui, e lo si realizza nella versione greca di Zaccaria: il nome di Zorobabele è stato soppresso, e il plurale 6:12 trasformato in un singolare: da allora Giosuè solo è incoronato, e si colloca così al rango del Messia atteso. [24]

Del resto, i primi cristiani non ignoravano la parentela che esiste tra Gesù e il Giosuè dell'Antico Testamento. Nella lettera di Barnaba (115 circa), Giosuè è descritto come predecessore di Gesù nella carne. [25] Giustino sottolinea anch'egli questo legame di parentela, aggiungendo che Giosuè, che si chiamava dapprima Osea (Auses), non ha ricevuto il suo nome per caso, ma che Mosè glielo ha dato per prefigurare il Cristo, di cui era il predecessore nelle sue funzioni di capo. [26] Eusebio fa risalire a Mosè non solo il nome di Gesù, ma anche quello di Cristo, Unto, dicendo: «Mosè è stato il primo che ha riconosciuto che il nome di Cristo è particolarmente degno di essere venerato e celebrato. Egli designò in effetti un uomo alle funzioni di sommo sacerdote di Dio, nel senso più eccellente, e lo chiamò Cristo. Donò così alla dignità di sommo sacerdote, che a suo avviso sorpassava tutti gli onori conferiti dagli uomini, una gloria e uno splendore ancora più grandiose attribuendogli il nome di Cristo. [27] Questo stesso Mosè, illuminato dallo spirito di Dio, ebbe anche una preveggenza chiarissima del nome di Gesù, e lo distinse tra tutti gli altri. In effetti, questo nome, che non era mai stato pronunciato tra gli uomini prima dell'era mosaica, fu dato da Mosè prima di tutto al solo uomo che sapeva chiamato, dopo la sua morte, ad esercitare il potere supremo sul popolo, cosa che ne faceva il tipo e il modello di Gesù. Così è al suo successore, che fino ad allora non aveva ancora portato il nome di Gesù — era chiamato Nave (Num), nome che gli avevano dato i suoi genitori — che diede questo nome, onore più prestigioso e più grande di qualsiasi diadema. Lo fece perché questo Giosuè, figlio di Nave, prefigurava il Salvatore che, dopo Mosè e dopo il compimento del culto simbolico instaurato da lui, doveva essere unico erede del più vero e del più puro di tutti i culti. È così che Mosè ha conferito ai due uomini che brillavano per la loro virtù e la loro gloria davanti a tutto il popolo, al sommo sacerdote e al suo successore, entrambi guide del popolo, l'onore supremo di portare il nome del nostro salvatore Gesù Cristo». [28]

Non si dovrebbe stupirsi quindi che Giosuè o Gesù fosse uno dei nomi che le sette gnostiche menzionate più sopra davano al Messia che aspettavano. Se Giosuè era identico a Mosè e se quest'ultimo era venerato all'altezza di un dio, per esempio nella filosofia religiosa di Filone di Alessandria, a sua volta strettamente legata alle credenze delle sette ebraiche, se Mosè era considerato il tipo ideale dell'umanità, intermediario e conciliatore di Dio, ovvero come un essere divino allo stesso modo del Messia, se si immaginava un'assunzione di Mosè che faceva di lui il vincitore della morte e lo sterminatore degli spiriti maligni, è evidente che non si potevano rifiutare gli stessi onori a Giosuè. Come Mosè, Melchisedec, che Filone identifica col Logos, Verbo divino, e col Messia, poi Noè, Enoc, Giuseppe, perfino Caino, erano prima dell'era cristiana l'oggetto di una venerazione religiosa nelle sette gnostiche. Come dunque si può contestare che Giosuè, questo secondo Mosè, altro titolo dato al Cristo, abbia potuto essere un dio cultuale delle sette gnostiche, semplicemente perché non ne esiste più alcuna testimonianza esplicita? Quell'assenza è fin troppo naturale, poiché i cristiani non hanno esitato a estirpare dai loro testi sacri ogni allusione alla natura divina di Giosuè o alla sua identità con il Messia atteso. 

Del resto, essi non vi hanno riuscito che molto imperfettamente. Nel suo libro The Origins of Christianity (2. edizione 1909, pag. 27), Whittacker ha richiamato l'attenzione sul verso 5 dell'epistola di Giuda, dove è detto: «Io voglio ricordare a voi che avete da tempo conosciuto tutto questo, che il Signore, dopo aver salvato il popolo dal paese d'Egitto, una seconda volta fece perire gli increduli. Egli ha pure custodito nelle tenebre e in catene eterne, per il gran giorno del giudizio, gli angeli che non conservarono la loro dignità e abbandonarono la loro dimora». Ecco quanto si legge nelle versioni correnti. Ma nel testo iniziale come lo dà Bultmann nella sua edizione del Nuovo Testamento greco, al posto della parola Signore si legge il nome di Gesù che, come abbiamo visto, è sinonimo di Giosuè. Se si sopprime in seguito la virgola dopo Egitto, dove è posta arbitrariamente e non ha alcun senso, e se la si pone dopo «seconda volta», si ottiene: «... che Giosuè-Gesù, dopo aver salvato il popolo e averlo tratto dall'Egitto una seconda volta»... (la prima volta fu Mosè che l'aveva tratto dall'Egitto), questo passo diventa un argomento molto forte a favore dell'esistenza precristiana di un salvatore con questo nome, nelle sette giudeo-cristiane alle quali si deve attribuire quella epistola: non solo si conferma che si credeva in questi ambienti ad un dio Gesù, — perché è ovvio che solo un dio può giudicare gli angeli e incatenarli eternamente nelle tenebre; ci attesta anche l'identità di Gesù con il Giosuè dell'Antico Testamento e mostra che in questi ambienti Giosuè era considerato un essere divino, non un semplice eroe nazionale. 

La priorità della variante Gesù è confermata, tra l'altro, dal verso 4, dove Gesù è chiamato «nostro unico padrone»; è quindi impossibile che nel verso seguente la parola Signore indichi qualcun altro, per esempio Jahvé, tanto più che nei versi 17, 21 e 25 Gesù è espressamente chiamato il Signore.

Nell'epistola di Giuda e nelle modifiche che si è fatto subire al suo testo, abbiamo quindi la prova materiale dei metodi praticati per cancellare le tracce del Dio-Gesù precristiano. Tutto il contenuto dell'epistola corrisponde in effetti ad una fase primitiva della fede in Gesù, fase che non ha nulla in comune con quella dei Vangeli o delle epistole paoline, e si può dire altrettanto dell'epistola di Giacomo, che dà assolutamente l'impressione di uno scritto primitivo, ad eccezione tuttavia dell'esortazione, senza dubbio interpolata, a «credere nel nostro glorioso Signore Gesù» (2:1). Ma non è Gesù, come il lettore si sarebbe aspettato, che quella epistola propone come modello di pazienza nelle avversità, ma i profeti che hanno parlato nel nome del Signore. Essa raccomanda anche di imitare la pazienza di Giobbe, dicendo: «Voi avete sentito parlare della grande pazienza di Giobbe e sapete bene quel che il Signore gli riservò alla fine, perché il nostro Dio è pieno di amore e misericordia» (verso 10 ss.). Il Signore nel nome del quale hanno parlato i profeti non può essere minimamente Gesù, è piuttosto Jahvé stesso, il cui avvento è atteso dai credenti (verso 7 ss.).  L'epistola è chiaramente diretta contro Paolo e contro la sua dottrina della giustificazione per mezzo della fede; essa cita delle parole di Gesù, ma senza che queste siano segnalate come tali.
 
L'Apocalisse di Giovanni è un testimone ancora più eloquente a favore dell'esistenza di un Dio-Gesù precristiano. È riconosciuto che si tratta di uno scritto di origine ebraica, in qualche modo rielaborato dai cristiani, e come tale molto diverso da quanto si intende comunemente per uno scritto cristiano. Esso dà del Messia una descrizione che non ha alcuna somiglianza né con il Gesù Cristo paolino né con il Salvatore dei vangeli. Guardate quella immagine del Figlio dell'uomo che viene sulle nubi e semina il terrore, che proclama: «Io sono l'Alfa e l'Omega», come Jahvè dice di sé stesso in Isaia: «Io sono il primo e sono pure l'ultimo»; [29] «Il suo capo e i suoi capelli erano bianchi come lana candida, come neve; i suoi occhi erano come fiamma di fuoco; i suoi piedi erano simili a bronzo incandescente, arroventato in una fornace, e la sua voce era come il fragore di grandi acque. Nella sua mano destra teneva sette stelle; dalla sua bocca usciva una spada a due tagli, affilata, e il suo volto era come il sole quando risplende in tutta la sua forza». [30] Vedete anche questo Agnello con sette corna e con sette occhi, «come immolato», che apre il misterioso libro chiuso con sette sigilli! [31] Infine, la donna «rivestita del sole, con la luna sotto i piedi e una corona di dodici stelle sul capo», e il bambino che le è tolto, sollevato verso Dio e verso il suo trono, lui che «deve reggere tutte le nazioni con una verga di ferro!». [32] O ancora: il cavaliere sul suo cavallo bianco, coronato da diversi diademi, rivestito di un abito di sangue, che reca scritto sulla sua veste e sulla sua coscia: «Re dei Re e Signore dei Signori». Che cosa tutte queste visioni possono davvero avere in comune con il dolce Gesù dei vangeli, e non ci ricordano piuttosto quello dell'Epistola di Giuda, che riserva, incatenati nelle tenebre, gli angeli caduti per il giudizio del grande giorno, allo stesso modo in cui nell'Apocalisse l'arcangelo Michele lotta contro il dragone, lo precipita nell'abisso e lo incatena? E come spiegare che il Gesù dei vangeli, se non è stato che un uomo, abbia potuto, per una evoluzione naturale, dare nascita a quella moltitudine di figure bizzarre, orribili e mostruose ? Non siamo piuttosto in presenza della  immaginazione confusa di sette e di conventicole religiose per cui Gesù non era mai stato un uomo, ma fin dall'inizio un essere soprannaturale? Sono le estasi di questi visionari che, combinando elementi mitici e profetici, hanno creato le figure esagerate e grottesche che popolano l'Apocalisse di Giovanni. Dupuis in L'Origine de tous les Cultes (1794), Morosow nel suo Offenbarung Johannis (l'Apocalisse di Giovanni, 1912) e Boll nel suo libro Aus der Offenbarung Johannis, hellenistische Studien zum Weltbild der Apocalypse (A proposito dell'Apocalisse di Giovanni, Studi ellenistici sul Sistema cosmico dell'Apocalisse, 1914) hanno mostrato che tutte queste figure sono mutuate dalle costellazioni, e che di conseguenza la mitologia astrale dei Babilonesi ha influenzato uno dei più antichi documenti del cristianesimo. Noi stessi abbiamo già indicato che le idee babilonesi sull'evoluzione del sole attraverso lo zodiaco hanno fornito i principali tratti del Giosuè efraimita. Non è nemmeno possibile dire con certezza se le sette chiese a cui l'autore dell'Apocalisse rivolge il suo libro insensato, siano chiese cristiane oppure delle sinagoghe! L'opuscolo sembra dover essere attribuito agli gnostici precristiani, e van den Bergh van Eysinga ha mostrato che si tratta probabilmente di un opuscolo lanciato da una frazione tradizionalista della gnosi contro una frazione più radicale, rappresentata sotto i tratti della donna assisa sulla bestia e che reca il nome di Babilonia. Ma nessuno ha ancora provato che si tratta di uno scritto cristiano che presuppone l'esistenza storica di Gesù. [33]

Uno scritto che anche conferma che prima del cristianesimo il nome di Gesù era già quello di un essere mitico e che era venerato come tale da gruppi minoritari, è la Didaché o l'Insegnamento dei dodici Apostoli, anch'esso di origine ebraica, ma in qualche modo rimaneggiato dai cristiani, peraltro in modo piuttosto ingenuo e superficiale. Primitivamente, il titolo non aveva nulla a che vedere con i dodici apostoli del cristianesimo, ma indicava i dodici delegati del sommo sacerdote ebreo, incaricati di trasmettere i suoi ordini alle comunità della diaspora e di riscuotere le imposte del Tempio. Il titolo originale recitava: Insegnamento del Signore (trasmesso) alle nazioni dai dodici Apostoli, ma qui la parola Signore indica Jahvé, e non Gesù. In questo scritto, troviamo a proposito della Cena quella preghiera: «Ti ringraziamo, o padre nostro, per la santa vite di Davide, tuo servo, che ci hai fatto conoscere per mezzo di Gesù, tuo servo. Ti ringraziamo per la vita e la conoscenza che ci hai rivelato per mezzo di Gesù, tuo servo. Ti rendiamo grazie per il tuo santo nome che hai fatto abitare nei nostri cuori, e per la conoscenza, la fede e l’immortalità che ci hai rivelato per mezzo di Gesù tuo servo». [34] Come spiegare che le parole d'istituzione della Cena, così come sono riportate dai vangeli e che i cristiani dovevano tenere in così alta stima, siano state sostituite da quelle che abbiamo appena citato? Questo Gesù della Dottrina degli Apostoli, che ha rivelato ai suoi la santa vite di Davide, è davvero lo stesso Gesù dei vangeli? Egli è chiamato semplicemente Servo di Dio, ma, simile a Dionisio, si presenta come salvatore associato all'idea della vite, dando ai suoi la vita, la conoscenza (gnosi) e l'immortalità. Ciò è assolutamente conforme alla dottrina degli gnostici, che insegna che la conoscenza trasmessa da qualche essere soprannaturale, soprattutto la conoscenza della natura degli angeli e dei demoni, garantisce ai fedeli l'immortalità. 

La Didaché cita quindi il nome di Gesù nella sua connessione primitiva con la Cena, e il numero dodici vi gioca un ruolo significativo. Nell'offerta dei dodici pani di presentazione, l'Antico Testamento presenta un esempio analogo di pasto sacramentale: ciascun sabato, i sacerdoti deponevano dodici pani «sulla tavola santa, davanti all'Eterno; essi apparterranno ad Aronne e ai suoi figli ed essi li mangeranno in luogo santo; poiché saranno per loro cosa santissima tra i sacrifici consumati dal fuoco per l'Eterno». [35] Sembra, quindi, che dodici sacerdoti abbiano partecipato a questo pasto, presieduto dal sommo sacerdote Aronne, l'Unto (Cristo). Aronne, la cui funzione era quella di personificare l'Arca dell'Alleanza degli Israeliti, era infatti considerato il segno visibile dell'alleanza tra Dio e gli uomini, uno dei principali prototipi del Messia. Ma si è appena visto che Giosuè, messo da Eusebio sullo stesso piano di Aronne in ciò che concerne la loro natura messianica, [36] si era circondato, al momento del passaggio del Giordano, di dodici aiutanti, uno di ciascuna tribù, e che, avendo raggiunto l'altra riva, celebrò la pasqua dopo aver circonciso il popolo. La tradizione esigeva che la pasqua fosse presa in comune da dodici persone, così come il numero dodici associato al pasto sacro riveste un ruolo in tutta l'antichità, per esempio tra gli Ateniesi, i cui pasti comunitari, di carattere religioso, erano celebrati ogni anno in occasione del sacrificio primaverile. [37] Essendo l'idea di Giosuè, lo si è visto, intimamente associata a quella del pasto pasquale, vi è motivo di credere che una cena presa da dodici persone facesse parte del culto che le sette gnostiche precristiane dedicavano a Gesù. 

Ci si può domandare quali fossero le idee prevalenti in queste sette e fino a che punto la loro ideologia si avvicinasse al cristianesimo senza tuttavia confondersi con esso. Quella domanda ha appena trovato la risposta delle più sorprendenti nelle Odi di Salomone, salterio messianico che l'inglese Rendel Harris ha pubblicato nel 1909, secondo un manoscritto siriano del XVI° secolo, e che è stato pubblicato da noi da Harnack. [38] In queste odi tutto ruota attorno ad un Salvatore, Unto o Cristo, che ha la più grande rassomiglianza, non, malgrado alcune analogie indiscutibili, con il Gesù dei vangeli, ma con il Cristo del dogma ecclesiastico, il Gesù dell'epistola di Giuda, il Cristo dell'Apocalisse di Giovanni e il Gesù dispensatore di conoscenza e di immortalità della Dottrina dei Dodici Apostoli. Egli è Figlio di Dio nato da una vergine, e il suo nome è citato con quelli del Padre e dello Spirito Santo in una stessa formula che, chiaramente più antica di quella del cristianesimo, appartiene alla dottrina segreta degli gnostici ebrei. Anche Filone conosceva già la triplicità del Padre (Dio), del Figlio e dello Spirito Santo, identificando il Figlio all'universo e lo spirito, visto sotto la specie di una madre verginale, alla Sophia o Sapienza. [39] Egli è considerato il vincitore dei terrori degli inferi e della morte, il portatore di vita, inviato da suo Padre celeste sulla terra per recare la salvezza agli uomini. Le analogie tra il Salvatore di quella gnosi ebraica e quello dei cristiani sono così impressionanti che Harnack non ha potuto fare a meno di constatare: «Se queste odi fossero già state conosciute al momento in cui un dilettante senza competenza (molto lusinghiero per me!) è venuto recentemente a inquietare una volta di più la cristianità contestando la storicità di Gesù, le si sarebbe certamente aggiunte al dibattito. Effettivamente, queste odi contengono già così tanti elementi cristiani che la storicità di Gesù sembra essere minacciata molto seriamente» (sic!). [40] Attribuendo loro un'origine ebraica e precristiana, Harnack pensa che queste odi possano servire da supporto alla tesi del Gesù precristiano. Ciò, è vero, non è assolutamente esatto, poiché le odi non citano da nessuna parte il nome di Gesù. Ma è certo che esse attestano che già in epoca precristiana, o quantomeno indipendentemente dal Nuovo Testamento, delle sette ebraiche dedicavano al Cristo un culto che comportava già elementi importanti di quello che la Chiesa pretende di aver istituito sulla base dei vangeli. Perché gli sforzi disperati ai quali si abbandonano Harnack e i suoi seguaci per rendere inoffensive le odi attribuendo le espressioni e le idee che li imbarazzano agli interpolatori cristiani, o anche, come Harris, attribuendo ai cristiani la totalità del testo, non possono minimamente essere presi sul serio, tanto più che si è proprio obbligati a concedere che esse mancano assolutamente di un colore specificamente cristiano, e che le parole che attribuiscono al Cristo non ricordano per nulla quelle del Gesù dei vangeli. Harnack stesso riconosce che esse non sfiorano nemmeno l'idea di un Gesù storico come si trova nei vangeli. [41] Un interpolatore cristiano non avrebbe mancato di fare più affidamento sulle allusioni al suo Salvatore, né soprattutto di introdurre il nome di Gesù in questo salterio giudeo-gnostico. Chiaramente, là non vi è nulla se non l'espressione di una mistica e di una pietà autenticamente ebraiche di un genere ancora sconosciuto, che si presenta, per la verità, come una «importante fase preliminare del cristianesimo», [42] ma che non si può ancora descrivere a sua volta come cristiana. Si tratta quindi davvero del culto di un Cristo precristiano, che può anche aver già portato il nome di Gesù, se si pensa al ruolo che rivestiva già in altre sette precristiane Gesù o Giosuè considerato come Mediatore della salvezza e Principe di vita. 

Così si chiarisce anche un antico inno, probabilmente precristiano, che ci ha conservato Ippolito, autore di uno scritto contro gli eretici. [43] In questo inno Gesù domanda a suo padre di farlo discendere verso le anime perdute nelle tenebre, al fine di recare loro la salvezza: «Portando i sigilli (ossia gli strumenti della salvezza, come libagioni, battesimo, pasti sacri, infine i nomi e i segni sacri la cui conoscenza dà la salvezza), io discenderò; passerò attraverso gli Eoni; rivelerò tutti i misteri e mostrerò la forma degli dèi: trasmetterò i segreti della santa via, che chiamerò gnosi». L'ancestrale antichità di questo inno si trova confermata dalla sua ideologia, che è chiaramente babilonese. Infatti il Gesù discendente verso gli uomini ricorda il ruolo di guaritore e salvatore che riveste, nell'ideologia babilonese, Marduc, figlio di Ea, il grande dio delle acque, il Manda d'Hajje dei mandei. Il dialogo che segue, inserito in un esorcismo, ha molte analogie con quanto si dice del Gesù dei naasseni: 
Mirri-dugga ha visto la sua miseria (quella dell'uomo malato).
Egli entra nella casa di suo padre Inki (Ea) e dice:
Padre mio, la perdizione degli spiriti è venuta dagli inferi. 
Poi egli dice ancora:
«Cosa deve fare l'uomo?
Egli ignora ciò gli darà la salute.
Inki rispose a suo figlio Mirri-dugga:
Figlio mio, cosa non sai già? 
Cos'altro posso insegnarti?
Cos'altro posso aggiungere?
Vai, Mirri-dugga, figlio mio, prendi un recipiente,
Mettici un po' d'acqua dalla foce dei fiumi,
Mescola a quell'acqua un esorcismo puro, 
Per aspergere l'uomo che è figlio del tuo Dio,
E versalo sulla grande via!
Il mal di testa, che ti perseguita
Come un fantasma nella notte, che si allontani!
Possa la parola di Inki cacciarlo!
Possa la dea Dam-gal-nunna (Damkina) guarirti!
Possa l'immagine di Mirri-dugga, figlio primogenito
Delle Acque profonde, essere tua! [44]
Contro quella interpretazione si è soliti obiettare che i naasseni erano una setta cristiana, e che di conseguenza l'inno naasseno si ispira già alle idee cristiane. Però Mossheim, e prima di lui Baur, aveva già fatto risalire le origini della gnosi all'epoca precristiana, tentando di spiegarla per mezzo della penetrazione reciproca del paganesimo e del giudaismo, [45] e nella sua opera sugli Ofiti (1889), Hônig ha dimostrato che questi primi settari gnostici erano ebrei simili agli Esseni e che apparvero già prima del cristianesimo, o al più tardi contemporaneamente ad esso. Infatti, l'esistenza precristiana degli gnostici e in particolare degli gnostici ebrei è ormai così saldamente radicata che non solo il rabbino Friedländer [46] ha aderito a quella tesi, ma anche eruditi cristiani (Harnack, Pfleiderer, Bousset, Wendland) e persino teologi ortodossi come Zöckler. È un risultato acquisito che è stato reso accessibile a un grande pubblico di studiosi, non particolarmente iniziati a questi problemi, dal teologo Köhler nella sua opera Die Gnosis (Religionsgesch. Volksbücher, 1911). [47

Ma se sono esistiti gnostici precristiani e se i naasseni erano del loro numero, cosa ci impedisce di ammettere che, indipendentemente dal Gesù cristiano, ma sotto l'influenza delle idee babilonesi, essi venerassero un essere divino, un salvatore, che portava anch'egli il nome di Gesù? Mal si comprende l'esasperazione dei teologi nei confronti di William Benj. Smith, che si era permesso di citare questo inno come un argomento a favore dell'esistenza precristiana di Gesù.

Mal si comprende anche l'opposizione che incontrò Smith quando, per la dimostrazione dell'esistenza precristiana di Gesù, volle riferirsi al papiro magico pubblicato da Wessely: «Io ti scongiuro nel nome del Dio degli Ebrei Gesù». Queste parole ricordano anche le idee babilonesi sulla magia dei nomi alla quale si fa allusione nel dialogo tra Inki e Mirri-dugga che si è appena letto. Esse si trovano in un cosiddetto «Logos» ebraico di questo papiro dall'aspetto molto arcaico, che non reca alcuna traccia di influenza cristiana. Albrecht Dieterich l'attribuisce ad ambienti giudeo-ellenistici, il copista a persone che chiamava «i puri»; Dieterich pensa che questo termine designi gli esseni o i terapeuti. [48] Sembra quindi che anche gli Esseni avessero venerato il loro dio cultuale sotto il nome di Gesù, il che concorderebbe con una nota di Epifanio nella sua Storia delle Eresie che dice che in ebraico il nome Gesù significa curatortherapeutēs, ossia guaritore e salvatore: si sa bene che i terapeuti e gli esseni si consideravano guaritori, in particolare guaritori delle anime.

Sembra dunque risultare da quanto precede che la magia dei nomi tra gli antichi Babilonesi fosse associata fin dall'inizio all'idea di un salvatore divino, e che Gesù (Giosuè) fosse un nome che le sette gnostiche precristiane già introdussero nei loro esorcismi. Questo nome non potrebbe quindi indicare che un  personaggio di natura divina. Quando si legge nei vangeli [49] e negli Atti [50] che i discepoli di Gesù e anche altri personaggi esorcizzavano nel suo nome, e che è confermato dal Talmud che verso la fine del primo secolo si guarivano i malati nel nome di Gesù, ciò non prova quindi per nulla, come vorrebbero i teologi, che Gesù avesse tra gli ebrei e tra i pagani la reputazione di un grande esorcista, ciò conferma semplicemente la sua parentela con gli dèi guaritori dell'antichità come Giasone, Iasio e Marduc. Se si obietta che lo storico ebreo Giuseppe riporta (Antichità 8:2, 57) che non si esorcizzava soltanto nel nome di Dio o di un dio, ma anche, tra altri, nel nome di Salomone, questo argomento è inesatto; infatti il mago Eleazar citato da Giuseppe non esorcizzava in nome di Salomone, ma soltanto ricordando il nome di Salomone e recitando gli incantesimi di cui questi era l'autore. Del resto Gesù stesso, si dice, non esorcizzava nel suo proprio nome, ma in nome dello Spirito Santo. [51]

NOTE
[1] Si veda per gli Esseni: SCHURER, Geschicte des jüdischen Volkes im Zeitalter Jesu Christi, 2, 1898, 573-584. 
[2] Per i rapporti tra gli Esseni e l'apocalittica, confronta HILGENFELD, Die jüdische Apocalyptik; 1857, pag. 253 ss.
[3] Confronta BRANDT, Die mandäische Religion, 1889; Realenzyclop. f. d. protest. Theologie u. Kirche, 12, 160 ss.; GUNKEL, l. c. 18 ss.
[4] Confronta HILGENFELD, Ketzergeschichte des Urchristentums, 1884. 
[5] GUNKEL, l. c. 29.
[6] Daniele 7:13 s.; Apocalisse 5.
[7] Genesi 32:24.
[8] Numeri 22:16, Esodo 13:21.
[9] Esodo 33:14, 2 Samuele 5:23.
[10] 1 Re 1:3; Ezechiele 43:5.
[11] Isaia 63:9 ss.
[12] Salmo 2.
[13] Confronta GHILLLANY, Die Menschenopfer der alten Hebräer, 1842, 326-334. EISENMENGER, Entdecktes Judentum, 1711, I, 311; 395 ss.; MOVERS, Die Phönizier, 1841, I, 328 s.
[14] Esodo 23:20 ss.
[15] Giosuè 24:11, confronta GIUSTINO, Contra Tryph. 75:1, 113:5.
[16] Giosuè 5:2 ss. 
[17] TALMUD DI BABILONIA, Trattato Baba-Bathra, fol. 60:2.
[18] Giosuè 8.
[19] Giosuè 4:4.
[20] Giosuè 8:32. È evidente che il passaggio delle acque (Mar Rosso, Giordano) si riferisce al passaggio del sole attraverso la parte dello zodiaco che corrisponde all'inverno o all'acqua. La festa di pasqua era celebrata all'equinozio di primavera, data alla quale il sole lascia la metà inferiore dello zodiaco e ritorna alla terraferma nel segno dell'ariete (agnello), nel punto in cui l'orbita solare interseca l'equatore celeste; la circoncisione era un sacrificio primaverile sostituito al sacrificio del primogenito, e i dodici uomini si riferiscono ai dodici segni dello zodiaco, che la benedizione di Giacobbe (Genesi 11:9) mette anche in parallelo con le dodici tribù di Israele. Si devono vedere in tutti questi racconti delle speculazioni astrali, chiaramente influenzate dall'astrologia babilonese. Per i Babilonesi, la promulgazione annuale delle leggi da parte del dio solare Marduc coincideva anche con la festa del nuovo anno celebrata all'equinozio di primavera (Confronta la mia opera: Gli Astri nella Poesia e nella Religione degli Antichi e dei primi Cristiani, 1923). La natura divina di Giosuè è anche indicata dal potere che egli esercita sul sole e sulla luna, comandando loro di fermarsi. Secondo Stade, i Samaritani efraimiti possedevano al posto del nostro libro di Giosuè un altro dallo stesso nome. Il libro Samaritano di Giosuè (Chronicon Samaritanum, ed. 1848) (è stato scritto nel XIII° secolo in Egitto, in lingua araba, e riproduce un testo più antico, scritto nel III° secolo prima della nostra era, contenente dei racconti che non figurano tutti nel nostro libro di Giosuè (Confronta STADE, Geschichte des Volkes Israel, 1887, 64 ss., 135). 
[21] Si veda GIUSTINO, Contra Tryph. 38:1.
[22] Esdra 2.
[23] Il nome di Iasios, da iasthai, guarire, lo indica chiaramente come guaritore e salvatore. Ecco perché si fa di lui un guaritore capace perfino di resuscitare i morti, e gli si fa continuare l'opera del suo padre divino, come il Giosuè della Bibbia continua l'opera di salvezza di Mosè. Come Giosuè e Gesù, accompagnato da dodici discepoli (i segni dello zodiaco), egli percorre il paese e compie innumerevoli miracoli. Come tale, egli è apparentato anche all'eroe greco Giasone, che conquista con i suoi dodici (o 52) compagni il vello d'oro (segno zodiacale dell'Ariete), che era venerato, a detta di Strabone, in tutta l'Asia Minore, in Iberia, Albania, Tessaglia e attorno al golfo di Corinto, e il cui culto si legava a quello dell'ariete o agnello Frisso (Strabone 1:2; 11:4, 13. Confronta la mia opera: Gli Astri, ecc., pag. 59 ss.).
[24] GIUSTINO, l. c. 115:2, 16. STADE, l. c. 2, 1888, 126 nota. HÜHN, Die messianischen Weissagungen des israelitischen Volkes, 1889, 62 f. 
[25] 12:20 ss. Si veda anche Ebrei 4:8.
[26] Contra Tryph. 113.
[27] Confronta Levitico 4:16, dove è detto nella versione greca: ho hiereus ho christos: il sommo sacerdote, l'unto.
[28] Storia della Chiesa 1:3. Ricordiamoci di passaggio che il nome di Giosuè, Gesù, Iasios, Giasone, o perlomeno la sillaba Ies, sembra per tutta l'antichità aver indicato un essere divino. Secondo Virgilio (Eneide 3:168) Iasius è il nome dell'antico dio italico Giano, Quirino (Padre Iasius, da cui discende la nostra razza). È da là che proviene il nome della più antica moneta romana in bronzo, as, eis, jes, che reca in rilievo il profilo di Iasius o Iano. Secondo l'Odissea 17:443, Iasus (Iaso) era il nome di un potente re dell'isola di Cipro, il cui figlio Dmetore  è identico a Diomede, nome sotto il quale i Veneti del Golfo adriatico sacrificavano cavalli a Giasone. Sotto il nome di Ischenos che recava anche questo dio presso i Veneti, Crono (Saturno-Giano) era celebrato ogni cinque anni a Elis nelle ischenie (cronie, olimpiadi). Ischenos, si dice, era l'amante di Coronide, madre di Esculapio (Giasone). Jes Krishna è il nome della nona incarnazione di Jesnu o Visnù, il cui attributo è un pesce, il che ricorda che Giosuè è il figlio del pesce, Nun, Ninus, nome la cui forma primitiva sembra essere stata Nin-jes. Jes è uno dei nomi del sole. Iesse era il nome del dio solare degli Slavi del Sud. Jasny, in lingua slava, indica il cielo luminoso, e Jas è ancora ai nostri giorni un nome proprio tra i popoli della Crimea e del Caucaso. Secondo Ellanico, questa parola riappare nei nomi di Osiride (Jes-iris o Hes-iris), in Hesus, il nome di un dio dei Celti, in Isskander, nome che i Persiani diedero ad Alessandro Magno venerato in quanto salvatore del mondo, infine nei nomi Iazyges, Yesyges, Yezides o Yesides, di un popolo dell'Italia del sud che era affine ai Veneti. Tra i maomettani, questo nome indica un eretico. I Turchi lo danno ad una tribù nomade che detestano; essa sembra venerare Gesù Cristo, ma venera in realtà Jes Krishna, e si distingue sia dai cristiani che dai maomettani per ogni tipo di particolarità della sua religione. La madre di tutte queste divinità il cui nome contiene la radice Jes è una vergine Maya, Mariamna, Maritala, Semiramide. Maria è identica a Miriam, e questa, come mostra John M. Robertson in Christianity and Mythology, 2° edizione, 1910, pag. 99, deve essere, secondo una tradizione persiana, la madre del Gesù mitico. Lei ha per attributo la croce, il pesce o l'ariete (l'agnello), la sua festa è quella di Houli o Youle, durante la quale Cesare ricevette dopo la sua divinizzazione al tempio di Giove Ammonio il nome di Julus o Julius, e la storia di quella donna si accorda a meraviglia con quella di Gesù. Confronta ALEX. DEL MAR, The worship of Augustus Caesar, New York, 1900.
[29] Isaia 48:13.
[30] Apocalisse 1:13.
[31] 5:5 ss,
[32] 12:1 ss.
[33] Si veda la mia opera: Lo Gnosticismo padre del Cristianesimo, 1924, pag. 128-134, 384 s.
[34] I libri apocrifi del Nuovo Testamento, a cura di HENNECKE, 1904, pag. 191.
[35] Levitico 24:5 ss.
[36] Si veda più sopra.
[37] SEPP, Das Heidentum und dessen Bedeutung für das Christentum, 2, 1853, pag. 316 ss.
[38] HARNACK, Die Oden Salomos, Ein jüdisch-christliches Psalmbuch aus dem ersten Jahrhundert, aus dem Syrischen übersetzt von J. FLEMING, 1910.
[39] FILONE, De Cherub. 1:146; De ebrietate 1:361 s.
[40] L. c. 3.
[41] HARNACK, l. c., pag. 99.
[42] HARNACK, l. c., pag. 118.
[43] Si veda a questo soggetto HILGENFELD, Ketzergeschichte des Urchristentums, pag. 9 ss. 
[44] HOMMEL, Geschichte Babylons und Assyriens, pag. 255.
[45] Die christl. Gnosis, 1835, pag. 37, 52, 194 ss.
[46] Der vorchristliche jüd. Gnostizismus, 1889; Synagoge und Kirche in ihren Anfängen, 1908, pag. 79 ss.
[47] Si veda anche NORDEN, Agnostos Theos, 1913, pag. 65 ss.; KELLERMANN, Krit. Beiträge zur Entstehungsgeschichte des Christentums, 1906. 
[48] DIETRICH, Abraxas, 1891, pag. 143; confronta la sua Mithrasliturgie, 1903, 27, 44 ss. 
[49] Marco 9:38 s.; Luca 9:49; 10:17.
[50] 3:16. Il passo dell'epistola di Giacomo 5:14 è dubbio, perché nella formula dell'esorcismo «nel nome del Signore» il termine «Signore» indica probabilmente Jahvé, e non Gesù. 
[51] Matteo 12:28.

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