domenica 6 giugno 2021

IL MITO DI GESÙ (V)

 (segue da qui)


2. L'IDEA ELLENISTICA DEL MEDIATORE (FILONE).

Avendo Alessandro conquistato il vasto impero dei Persiani, pure la Palestina fu inglobata nella sfera di influenza della civiltà ellenistica. Dapprima vassalla dei Tolomei d'Egitto, cadde all'inizio del secondo secolo prima della nostra era sotto la dominazione della Siria dei Seleucidi. Lo Stato teocratico, che fino ad allora si era confinato in un isolamento ermetico e geloso, cominciò a penetrarsi così dei costumi e della vita intellettuale dei Greci, e anche l'insurrezione nazionale dei Maccabei non riuscì più a sottrarlo alla loro influenza. Dall'esilio, gli ebrei si erano diffusi su tutto il litorale orientale del Mediterraneo. Gli uni erano rimasti in Mesopotamia, altri si erano stabiliti, soprattutto nei porti, come artigiani, banchieri o commercianti, e grazie alla loro industria e alla loro attività, alla loro assenza di scrupoli e alla loro furberia negli affari, grazie anche alla loro coesione tenace che favoriva il culto in comune della sinagoga, essi erano diventati, in tutto l'Oriente, i padroni del commercio e delle finanze. Sotto l'influenza della religione e della morale dei Greci l'idea di Jahvé subisce allora una nuova trasformazione e una nuova purificazione. Sbarazzandosi di tutti i tratti grossolanamente materiali e antropomorfi, Jahvé divenne un essere spirituale e assolutamente buono, una divinità come l'aveva descritta Platone. Ma quella evoluzione spinse gli ebrei allo stesso problema che da lungo tempo assillava la filosofia greca: come accordare la maestà celeste e l'assoluta trascendenza di Dio con i postulati del sentimento religioso che rivendica la presenza immediata della divinità?

Una delle idee che gli ebrei avevano attinto dal parsismo era quella del Verbo mediatore. Già nella letteratura dei Proverbi, il Verbo aveva svolto un ruolo in quanto potenza di Dio, messaggero della rivelazione e rappresentante di Dio sulla terra. Esso vi figurava soprattutto sotto il nome, dovuto a influenze greco-egiziane, di Sapienza (Sophia). Questo termine designa l'attività del Dio trascendente nella misura in cui essa si dà agli uomini. Allo stesso modo tra i Persiani, la Sapienza, chiamata da loro Spenta Armaiti, era uno dei sei o sette Amesha Spentas (Amschas-pands), spiriti minori più vicini al trono di Dio che corrispondono agli arcangeli degli ebrei. I Persiani la adoravano come la figlia o la sposa di Ahura Mazda. L'autore della cosiddetta Saggezza o Sapienza di Salomone, ebreo alessandrino dell'ultimo secolo prima della nostra era, la personificò e la rese un essere spirituale vicino a Dio, metà personale metà materiale, forza che penetra la natura, principio della rivelazione divina nella creazione, la conservazione e il governo del mondo, fonte di vita e mediatore della salvezza religiosa. Allo stesso modo in cui Platone aveva voluto superare la dualità del mondo sensuale e del mondo trascendente per mezzo della sua idea di anima universale, così la Sapienza doveva servire da mediatore tra il Dio degli ebrei e la sua creazione. Questi sforzi furono continuati dall'ebreo alessandrino Filone (dal 30 A.E.C. al 50 E.C.), che si sforzò, con i metodi della filosofia ellenistica, di precisare ulteriormente la nozione giudeo-persiana del Verbo o della Sapienza.

Come i suoi predecessori, Filone aveva preso per punto di partenza il contrasto che sentiva tra la maestà assoluta, indicibile e inconoscibile della divinità che aleggia al di sopra del mondo sensibile, e la realtà sensuale delle cose create. Ma questo contrasto aveva dei mediatori: erano esseri di una individualità relativa: ministri, messaggeri e rappresentanti di Dio. A volte somigliavano agli angeli dei Persiani e ai demoni dei Greci, a volte si avvicinavano di più a quelle idee di Platone che avevano servito a Dio da prototipi per la creazione del mondo; ma somigliavano soprattutto alle forze seminali per mezzo delle quali la filosofia stoica spiegava i problemi dell'essere, forze che, per la loro azione creativa e nascosta, animano e fanno evolvere la massa informe della materia. La prima di queste forze mediatrici, forse quella che riassume e personifica tutte le altre, era per Filone il Logos, Ragione operante o Verbo creatore della divinità. Egli lo chiamava il Figlio primogenito di Dio, o il secondo Dio, il rappresentante, inviato, arcangelo di Dio o principe degli angeli. Egli vedeva in lui il sommo sacerdote che intercede a favore degli uomini e difende la loro causa davanti a Dio, il paracleto, l'avvocato e il consolatore del mondo, che trasmette le promesse della grazia divina; lo strumento per mezzo del quale Dio ha creato l'universo; il modello e l'idea del mondo realizzati da Dio nella sua creazione e che si manifesta in tutte le cose, in una parola l'anima o lo spirito dell'universo. Gli stoici l'avevano identificato a Dio, ma Filone lo distingue dal Dio trascendente e lo considera la rivelazione e la manifestazione di quest'ultimo. Essendo in fondo solo un termine che racchiude in un'unica nozione la totalità delle forze e delle attività divine, il Logos di Filone è anch'esso un'entità imprecisa e fluttuante, che sta allo stesso tempo per un principio metafisico impersonale, cioè l'attività divina, e per un personaggio autonomo diverso da Dio. Allo stesso modo gli stoici, per fare della loro anima universale un mediatore personale e autonomo, l'avevano concretizzata in Mercurio, messaggero degli dèi; allo stesso modo gli Egiziani personificavano il Verbo creatore e magico di Amon-Ra in Tot, conduttore delle anime, i Babilonesi il Verbo fatale di Marduc, loro Dio supremo, in Nabu, i Persiani il Verbo di Ahura Mazda non solo nella Spenta Armaiti, ma anche in Vohumano, buon pensiero del creatore. E proprio come tra i Persiani a volte è il Figlio e Mediatore Mitra, personificazione di tutte le forze divine, a volte l'uomo ideale Saoshyant che è presentato come il salvatore del mondo, entrambi fondendosi in un unico personaggio, così Filone a volte fa del suo Logos a volte la personificazione di tutte le idee creatici, a volte l'uomo ideale creato immediatamente ad immagine di Dio e di cui gli altri uomini non sono che le copie. È esso che agisce in loro in quanto principio attivo della salvezza religiosa. A volte anche Filone identifica il Logos all'albero della vita del paradiso, entrambi essendo imperituri e «ponendosi in mezzo».

Filone pensa che l'uomo sia incapace, con le sue proprie forze, di liberarsi dai lacci dell'esistenza terrena. La salvezza è possibile solo se lo spirito si ritira dal corpo e dai suoi desideri sensuali. Compiere il suo destino che è diventare simile a Dio, perfetto come lui: tale è la virtù suprema e anche la vera felicità, che può essere realizzata solo con la comprensione della natura divina delle cose, con la fiducia in Dio, con il riconoscimento dei beni accordati da lui e con il suo amore. Quel riconoscimento si manifesta con la pietà verso Dio e con la carità e la giustizia verso gli uomini. A questo scopo, è necessario che il Logos divenga vivo in noi e che ci dia la comprensione della nostra natura divina. È necessario che il Logos ci guidi, che nel combattimento contro il mondo e il peccato esso venga con la sua forza soprannaturale a soccorrere la nostra debolezza umana e che ci elevi a Dio. La «deificazione» dell'uomo è così la meta di ogni attività religiosa. Ora, il Logos è l'unico mediatore di questa meta, perché unendosi a lui nella fede e nella carità noi ci eleviamo alla sorgente della nostra vita, noi «vediamo Dio» e prendiamo così parte alla sua vita.

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