sabato 5 giugno 2021

IL MITO DI GESÙ (IV)

 (segue da qui)

1. LA FEDE MESSIANICA SOTTO L'INFLUENZA DEL PARSISMO. 

Da nessuna parte la sete di salvezza era così ardente, da nessuna parte si credeva la fine del mondo così imminente e la si attendeva con così tanta impazienza che tra gli ebrei. 

Dalla cattività di Babilonia (586-536 A.E.C.), l'antica religione ebraica aveva subito una trasformazione profonda. Gli Israeliti avevano passato cinquant'anni in un paese straniero. Anche dopo il loro ritorno, essi rimasero per due secoli sotto il dominio dei Persiani e di conseguenza in contatto costante con la politica e la vita economica degli Achemenidi, e questo contatto continuò anche dopo che Alessandro il Grande ebbe annientato il regno dei Persiani e sottoposto tutto l'Oriente all'influenza greca. Durante quel lungo periodo il pensiero e le concezioni religiose dei Persiani avevano grandemente influenzato l'ideologia tradizionale degli Israeliti e dato nascita ad una quantità di concezioni nuove. Innanzitutto, il dualismo molto pronunciato dei Persiani aveva anche rivestito di un'impronta marcatamente dualista il preteso monoteismo degli Israeliti. Dio e il mondo, che nella mente degli antichi Israeliti si confondevano ancora su molti punti, si erano separati opposti l'un l'altro. Simultaneamente, l'antico dio nazionale Jahvé, originariamente divinità della tempesta e del fuoco, si era trasformato sotto l'influenza del dio persiano Ahura Mazda (Ormuzd) per diventare come lui un dio di santità trascendente: come lui assiso su un trono di luce nel beato aldilà, fonte di vita, dio vivente, rivelatosi alle sue creature terrene solo attraverso il ministero di un'infinità di intermediari, angeli e messaggeri celesti, che per eseguire i suoi ordini non cessano mai di salire e di discendere tra il cielo e la terra. E allo stesso modo in cui tra i Persiani il buon Ahura Mazda ha per antagonista il malvagio Angra Mainyu (Ahriman), e i conflitti tra la luce e le tenebre, tra la verità e la menzogna, tra la vita e la morte sono le sorgenti nascoste di tutti gli eventi terreni, così gli ebrei attribuirono a Satana il ruolo di avversario di Dio, di corruttore della creazione divina, di principe di questo mondo e di capo degli eserciti infernali, che misura la potenza con quella di Jahvé, re dei cieli. 

 Al centro di questo combattimento tra i due principi opposti stava, secondo i Persiani, Mitra, spirito di luce, di verità e di giustizia, amico divino degli uomini, mediatore e salvatore del mondo. Egli condivideva le sue funzioni con il Verbo creatore e rivelato di Ahura Mazda, chiamato Honover, e a volte si confondeva completamente con lui. Mitra era la personificazione del fuoco o del sole, in quanto  luce che lotta, soffre e trionfa, che penetra vittoriosamente la notte e le tenebre, e come tale lo si metteva in relazione con la morte e l'immortalità, dandogli la funzione di conduttore delle anime e di giudice nella dimora dei morti. Egli era il Figlio divino, e si diceva di lui che Ahura Mazda lo avesse creato così grande e così degno di adorazione quanto lo era lui stesso. In fondo, egli era Ahura Mazda stesso, Ahura Mazda avendo lasciato la luce celeste per rivestire una individualità concreta. Avendo collaborato alla creazione del mondo, Mitra ne era il guardiano, e vegliava affinchè l'ordine dell'universo non fosse distrutto dall'avversario. Egli combatteva per Dio alla testa degli eserciti celesti, e con la sua spada di fuoco scacciava i demoni, respingendoli nelle tenebre da cui erano usciti. Schierarsi con Dio in questo combattimento, preparare l'avvento del futuro regno di Dio operando per la vittoria della vita e della civiltà, dissodando le terre incolte, sterminando gli animali nocivi e sottomettendosi ad una disciplina morale, questo era il vero obiettivo della vita umana. Ma quando, dicevano i Persiani, i tempi saranno compiuti, quando il periodo attuale giungerà alla sua fine, Ahura Mazda susciterà dal seme di Zarathustra,  fondatore di quella religione, il Figlio della Vergine Saoshyant (Sraosha, Sosioseh), vale a dire il salvatore. Altri dicevano che Mitra stesso sarebbe disceso sulla terra, che nell'ultima e più terribile delle battaglie avrebbe riportato la vittoria definitiva su Angra Mainyu e sui suoi eserciti, che li avrebbe precipitati negli inferi, che avrebbe resuscitato i morti con i loro corpi materiali, e che dopo un giudizio universale, quando i malvagi sarebbero stati condannati alle pene infernali e i buoni ammessi nella dimora dei beati, avrebbe finalmente stabilito il millenario regno della pace. Comunque le stesse pene infernali non dovevano essere eterne, i dannati conservavano la speranza di un'ultima riconciliazione. Allora Angra Mainyu stesso avrebbe fatto pace con Ahura Mazda, e su una terra nuova, sotto un cielo nuovo, tutti sarebbero stati riuniti in una eterna felicità. 

Penetrando nello spirito ebraico, queste idee trasformarono profondamente l'antica fede messianica. 

Messia, vale a dire Unto (in greco Christos), tale era il nome del re nella sua funzione di rappresentante di Jahvé davanti al popolo, e di rappresentante del popolo davanti a Jahvé; è lui che, nei termini di 2 Samuele 7:13 ss., aveva funzione di un figlio obbediente a suo padre, funzione alla quale partecipava anche il popolo nella sua totalità. [1] Più tardi, il contrasto constatato tra la dignità sacra dell'Unto del Signore e le imperfezioni insite nella persona concreta dei re di Israele ebbe per conseguenza di proiettare l'ideale del Messia nel futuro, e ad aspettarsi la realizzazione completa solo del regno di Jahvé sul suo popolo. In questo spirito già i primi profeti avevano visto nel Messia il re ideale del futuro, l'unico perfettamente degno di ereditare le grazie divine promesse a Davide. Lo avevano descritto come l'eroe, più grande di Mosè e Giosuè, che avrebbe restituito lo splendore di Israele, che avrebbe restaurato la sua nazione e avrebbe rivelato ai pagani la religione di Jahvé. [2] Lo avevano cantato come colui che avrebbe dispiegato un firmamento nuovo su una terra nuova, e che avrebbe reso Israele padrone delle nazioni. [3] Ci si aspettava dal Messia che, nuovo Mosè, riunisse gli ebrei dispersi tra i pagani per riportarli nel paese dei loro padri, cioè quello delle anime, nella patria celeste, da cui sono discese queste anime e dove desiderano ritornare dopo la morte. Originariamente, si aveva visto nel Messia un semplice mortale, un nuovo Davide discendente di Davide, re teocratico, un principe di pace benedetto da Dio, che governava il suo popolo con giustizia, così come il Saoshyant dei Persiani era un uomo della stirpe di Zarathustra, e in questo senso si aveva perfino dato il titolo di Messia a Ciro, salvatore e re supremo di Israele, che l'aveva liberato dall'esilio di Babilonia. [4] Ma allo stesso modo in cui l'immaginazione popolare aveva inconsciamente trasformato Saoshyant in un essere divino e lo aveva identificato con Mitra, [5] il Messia fu a poco a poco promosso dai profeti al rango di re divino. Lo si chiamò eroe divino, padre di eternità, e il profeta Isaia si diletta a raffigurare il quadro del suo regno di pace, dove i lupi dormono presso le pecore, dove gli uomini non devono più temere la morte prematura, dove essi godono della totalità dei prodotti delle loro terre, dove questo re riporterà l'età dell'oro e dove la giustizia regnerà come non aveva mai fatto prima. [6] Altrettanto misteriosa e soprannaturale della sua natura sarebbe anche la nascita del Messia. Figlio divino, doveva nascere in un luogo oscuro. [7] Spesso anche la persona del Messia si confonde con quella di Jahvé.  in effetti da Dio stesso che i salmi annunciano per la fine dei tempi [8] l'avvento al trono e l'ascensione al cielo. 

Quella immagine del Messia che assume nello stesso tempo la natura umana e la natura divina si manifesta ancora più chiaramente nella letteratura apocalittica degli ultimi secoli prima e del primo secolo dopo l'età comune. Così l'Apocalisse di Daniele (165 A.E.C. circa) descrive un essere simile a un figlio dell'uomo che discende dal cielo su una nube e che è condotto davanti all'Antico dei Giorni, e il contesto non permette di dubitare che il Figlio dell'uomo (barnasa) sia un essere sovrannaturale che raffigura la divinità; Dio gli conferisce la sua gloria e il suo potere, affinché al termine dell'era attuale venga sulle nubi del cielo, circondato dalla moltitudine degli angeli, ad erigere un regno eterno: il Regno dei Cieli. Nelle Similitudini di Enoc (risalente all'ultimo secolo prima della nostra era), il Messia, Eletto e Figlio dell'uomo, appare sotto la specie di un essere soprannaturale e preesistente, nascosto in Dio prima della creazione del mondo, e la cui gloria dura di eternità in eternità, il potere di generazione in generazione, in cui abita lo spirito di sapienza e di forza, che giudicherà le cose segrete, castigherà i malvagi, ma salverà i santi e i giusti. [9] L'Apocalisse di Esdra presenta persino una confutazione formale di coloro che credono che il giudizio finale non sarà presieduto da Dio stesso, e vede pure nel Messia una sorta di secondo Dio, il Figlio di Dio, un'incarnazione della divinità. [10]

In tutto ciò, non si può trascurare l'influenza delle credenze persiane. Poco importa se i Persiani hanno portato queste credenze dall'Iran o se hanno attinto l'idea di un re e salvatore del mondo inviato da Dio da Babilonia, dove quella idea aveva radici profonde, e dove il popolo l'applicava, secondo le epoche, talora all'uno talora all'altro dei suoi re. [11] Simile a Saoshyant nella religione persiana, il Messia degli ebrei operava nello stesso tempo da re semplice mortale nato dalla stirpe di Davide, e da essere soprannaturale e divino disceso dal cielo. E allo stesso modo in cui tra i Persiani la venuta di Saoshyant e la vittoria definitiva della Luce saranno precedute da un periodo in cui dei segni minacciosi appariranno nel cielo, in cui la natura sarà sconvolta e gli uomini saranno tormentati da orribili flagelli, l'apocalittica ebraica conosce anche i dolori del parto del Messia e descrive a lungo il periodo di terrore che precederà il suo avvento. Anch'essa concepisce l'installazione del regno di Dio come un cataclisma prodigioso che cade improvvisamente dal cielo, come una deflagrazione universale seguita dalla creazione di un mondo nuovo, e, sempre parallelamente alle idee persiane, vede il regno terreno del Messia seguito da un regno celeste nella luce della vita eterna e nell'uguaglianza con gli angeli, che corrisponde esattamente al paradiso persiano. Là, i beati si disseteranno al fiume della vita e si nutriranno dei frutti dell'albero della vita, mentre i malvagi saranno precipitati negli inferi, dove subiranno in orribili tormenti il giusto castigo dei loro peccati. [12

Fino ad allora l'idea di una resurrezione dei morti e di un Giudizio finale era rimasta estranea agli ebrei. Prima dell'esilio si era convinti che dopo la morte il corpo si decompone e l'anima, ombra insensibile, discende nella dimora dei morti, nello Scèol, senza che ci sia comunque molta pena della sua sorte. Ora, con la dottrina del Giudizio universale e della distruzione del mondo per mezzo del fuoco, l'idea dell'immortalità individuale penetra nella mente degli ebrei, e Daniele afferma che nel giorno del giudizio i morti resusciteranno, gli uni alla vita, gli altri alle pene eterne: «Ma i saggi risplenderanno come lo splendore dei cieli, e coloro che avranno condotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle, per tutta l'eternità». [13] Assimilando la fede nell'immortalità personale, il pensiero religioso degli ebrei guadagnò in profondità e in diffusione, e prese una direzione più individualista. In precedenza, la morale ebraica era stata essenzialmente sociale: non era tanto l'individuo quanto il popolo nel suo insieme ad essere l'oggetto della provvidenza divina.  Ma ben presto un pensiero nuovo, già avviato dagli antichi profeti, doveva impadronirsi delle menti: quello che vede nella salvezza religiosa qualcosa che interessa l'anima individuale, e che stabilisce un rapporto personale tra il fedele e Jahvé. Dio, è vero, rimane il Signore dei cieli, assiso sul suo trono risplendente di luce; egli resta la fonte della vita, il Dio vivente, come il parsismo aveva insegnato. Ma i suoi caratteri metafisici scomparvero sempre di più dietro le sue perfezioni morali: la clemenza, la grazia e la misericordia divennero i tratti più salienti della natura di Jahvé. Dio assume la natura di un padre pieno d'amore, la cui tenera sollecitudine guida i suoi nella vita, e non tollera che senza la sua volontà un capello della sua creatura venga toccato. Gli ebrei di stretta osservanza, i farisei e i rabbini, eressero barriere nazionali sempre più invalicabili, confinandosi nella osservanza scrupolosa della lettera della legge e dei riti cultuali, e minacciavano di soffocare la morale sotto il sistema rigoroso di una casistica giuridica e priva di ogni valore religioso. Al contrario sorse tra il popolo una nuova morale nel contempo più umana e più naturale, una pietà più spontanea, più cordiale e più calorosa, più popolare e più sana, che abbassava le barriere del nazionalismo ebraico, e portando così una ventata d'aria fresca nell'atmosfera viziata dal legalismo ufficiale. È allora che con la morale più pura dei salmi, dei proverbi e dei libri di edificazione come Giobbe, Baruc, Gesù figlio di Siracide e altri, fu gettata di quella che diventerà più tardi la morale cristiana; è allora che il monoteismo ebraico cominciò ad estendere il suo dominio al di là dei confini della Palestina e a minacciare seriamente le altre religioni antiche, fino al momento in cui dovette svanire di fronte alla concorrenza del cristianesimo definitivamente costituito. 

NOTE

[1] Esodo 4:22; Deuteronomio 32:6; Osea 2:1.

[2] Isaia 49:6, 8.

[3] Ibid. 51:16.

[4] Isaia 44:28, 45:1 s.

[5] CUMONT, Textes et monuments figures relatifs aux mystères de Mithra 1899, volume I, 188.

[6] Ibid. 2:65, 17 ss.

[7] Isaia 9:6; Michea 5:1.

[8] Salmo 47:6, 9; 57:12.

[9] Cap. 45-51.

[10] 6:1 ss.

[11] Confronta GUNKEL, Zum religionsgeschtichtlichen Verständnis des Neuen Testaments, 1903, pag. 23, nota 4.

[12] Apocalisse 22. Confronta O. PFLEIDERER, Das Urchristentum, seine Schriften und seine Lehren, 2° edizione 1902, volume 2, pag. 54 ss.

[13] Daniele 12:3.

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