venerdì 4 giugno 2021

IL MITO DI GESÙ (III)

 (segue da qui)


IL GESÙ PRECRISTIANO

«Se vedi un uomo impavido di fronte ai pericoli, libero dalle passioni, felice fra le avversità, sereno in mezzo alle tempeste, che guarda gli altri uomini dall'alto e gli dèi da pari a pari, non sarai preso da un senso di venerazione per lui? E non dirai: “C'è in lui qualcosa di troppo grande e di troppo sublime perché la si possa confondere con questo misero corpo in cui è imprigionata” ? Una forza divina vi è discesa: una potenza celeste vivifica la sua anima eccellente, moderata, che considera tutte le cose al di sotto di sé e passa oltre, che ride di tutto ciò che noi temiamo o bramiamo. Un essere tanto grande non può esistere senza un sostegno divino: perciò la maggior parte di lui à là donde è discesa. Come i raggi del sole toccano la terra, ma hanno la loro fonte nell'astro da cui sono emessi, così l'anima grande e santa è stata mandata quaggiù perché potessimo conoscere qualcosa di divino. Essa ha rapporto con noi, ma rimane congiunta alla sua origine, da cui deriva e a cui volge sguardo e aspirazioni; e partecipa alla nostra vita come un essere superiore. Mi chiedi cos'è? È un'anima in cui la ragione (logos) è perfetta. L'uomo è infatti un animale razionale: pertanto realizza pienamente il suo bene se assolve il compito per cui è nato». [1]

È con queste parole che il filosofo romano Seneca (dal 4 A.E.C al 65 E.C.) traccia il quadro dell'uomo ideale, grande e buono, che propone da esempio. «Dobbiamo», dice, «rivolgere tutta la nostra stima e il nostro affetto verso un uomo onesto e averlo sempre avanti agli occhi, in modo che possiamo vivere e operare sempre come se quello stesse a guardarci. Si eviterebbero molti peccati, se, quando stiamo per commetterli, fosse presente un testimone. È bene provare un sentimento di venerazione per una persona che, con la sua autorità, possa rendere migliori anche gli aspetti più segreti della nostra vita. Felice chi venera tanto un uomo, che al suo semplice ricordo riesce a migliorarsi e a emendarsi. Ci occorre una persona a cui adeguare i nostri costumi: non possiamo correggere le cattive abitudini se non ci riferiamo costantemente a una norma. [2] Cerca di capire i sentimenti di un uomo generoso, e lascia da parte per un momento l'erronea opinione del volgo. Fai tutti gli sforzi necessari per poter contemplare, nella sua sovrana bellezza e magnificenza, quella virtù che esige da noi non tributi di fiori e d'incenso, ma di sudore e di sangue. [3] Se ci fosse possibile penetrare con lo sguardo nell'anima di un uomo virtuoso, che aspetto di bellezza e di santità, che splendore di serena maestà ci si presenterebbe! Vedremmo la giustizia, il coraggio, la temperanza, la prudenza illuminare l'anima da tutti i lati. E diffonderebbe su di lei il suo splendore l'umanità, rara negli uomini. Quanta autorità e e insieme quanta grazia! Se uno ne vedesse l'aspetto, che è più nobile e splendente di quanto è consentito vedere tra le cose umane, non si arresterebbe estasiato, come all'apparizione di una divinità? Non la supplicherebbe in cuor suo di lasciarsi vedere impunemente? Poi, reso ardito dall'espressione di benignità del suo volto, non si metterebbe forse ad adorarla e a pregarla? E, dopo aver contemplato la sua statura, che supera di molto tutto quanto siamo soliti vedere, il suo sguardo di una singolare dolcezza, che brilla tuttavia di una fiamma vivissima, preso da religioso entusiasmo, non esclamerebbe, alla fine, col nostro Virgilio:

Mostrati propizia e, chiunque tu sia, porgi sollievo ai nostri travagli! 

Non c'è nessuno che non si infiammerebbe d'amore per lei, se avesse la fortuna di vederla. Ora molte cose ce lo impediscono, abbagliandoci la vista col soverchio splendore o paralizzandola con l'oscurità. Ma, come le facoltà visive ritrovano la loro acutezza e la loro chiarezza per mezzo di certe cure, così, se abbiamo il fermo proposito di liberare lo sguardo della nostra anima da ogni ostacolo, potremo vedere distintamente la virtù, anche nascosta in un corpo deforme, anche sotto il manto della povertà, anche attraverso l'abiezione e l'infamia. Sì, vedremo la sua bellezza, anche se fosse coperta di cenci». [4]

Lo stato d'animo che si manifesta nelle righe di Seneca che abbiamo appena citato era, all'inizio della nostra epoca, molto diffuso nel mondo civilizzato. Il sentimento di insicurezza delle cose terrene opprimeva come un incubo le anime angosciate. I tempi erano duri; gli Stati nazionali erano appena crollati sotto il pugno di ferro del conquistatore romano; i turbamenti politici e sociali, le guerre incessanti, le pestilenze e le carestie che li seguivano, tutto spingeva gli uomini a ripiegarsi su sé stessi, facendoli cercare, per consolarsi della perdita del loro benessere materiale, il sostegno di un'ideologia che eleva e fortifica le anime. La religione antica aveva fatto il suo tempo. Quella identificazione ingenua della natura con lo spirito, quella fiducia ingenua nella realtà delle cose visibili, espressione del vigore giovanile dei popoli del Mediterraneo e ispiratrice dei capolavori della civiltà classica, minacciava la rovina. Da allora, si vedeva nella natura e nello spirito due principi irriducibilmente opposti. Tutti i tentativi di ristabilire l'antica armonia fallivano davanti all'impossibilità di ritrovare lo stato d'animo che era appartenuto a questo paradiso perduto. Uno scetticismo sterile, incapace di dare alcuna soddisfazione, ma da cui si cercava invano l'uscita, paralizzava lo sviluppo di ogni attività tanto esteriore che intellettuale, e toglieva agli uomini anche il gusto dell'esistenza. Sguardi avidi si misero allora in cerca di un sostegno soprannaturale, di una illuminazione divina immediata, di una rivelazione, e per ritrovare le certezze della vita morale si provò il bisogno di regolarsi sul modello di un essere soprannaturale. 

Questo essere divino, molti pensavano di trovarlo nell'augusta persona dell'imperatore. Non era sempre una bassa adulazione che, in tutto l'Impero, dava a questo culto tanto splendore; era anche talvolta l'espressione di una gratitudine sincera verso questo benefattore incoronato, e il bisogno della presenza materiale delle cose divine. Un Augusto, che aveva messo fine agli orrori della guerra civile, poteva benissimo figurare da Principe della Pace, da salvatore nell'ultima angoscia, venuto a rigenerare il mondo e a riportare i bei giorni dell'età dell'oro. Egli aveva ridato uno scopo alla vita umana, un senso all'esistenza. Sommo pontefice della religione ufficiale dell'impero romano, centro dove convergevano tutti i fili della politica universale, capo supremo di un impero tale che il mondo non aveva mai visto, egli poteva benissimo apparire ai mortali come un Dio, come Giove in persona disceso sulla terra per abitare tra gli uomini. «Finalmente» — si legge su un'iscrizione di Priene che risale probabilmente all'anno 9 prima della nostra era — «è passato il tempo in cui ci si pentiva di essere nati. La Provvidenza che governa ogni vita ci ha mandato quest'uomo per essere il nostro Salvatore, a noi come alle generazioni future. Egli metterà fine ad ogni ostilità e ristabilirà ogni cosa in magnificenza. Nel suo avvento si realizzano le speranze dei nostri antenati. Egli ha sorpassato tutti i precedenti benefattori dell'umanità. È impossibile che dopo di lui venga uno più grande. Il giorno in cui nacque il dio ha realizzato i messaggi di salvezza (i «vangeli») che si riferivano a lui. La sua nascita deve segnare il principio di una nuova era». [5]

Tuttavia, ciò che era alla base del culto dell'imperatore rispondeva solo al bisogno di un nuovo ordine sociale, al desiderio di pace, di giustizia e di benevolenza sulla terra. Ma gli spiriti più profondi non aspiravano soltanto ad una riforma dell'ordine politico e sociale, erano anche angosciati dal pensiero della morte e dalla sorte riservata alle loro anime dopo la sua separazione dal suo involucro corporale; tremavano al pensiero della catastrofe cosmica che credevano imminente e che avrebbe messo fine a tutto ciò che esisteva. All'inizio della nostra era questo stato d'animo apocalittico era così generalmente diffuso che nemmeno un Seneca poteva sfuggire al pensiero che la fine del mondo fosse vicina. A quell'inquietudine veniva ad aggiungersi una paura superstiziosa degli spiriti maligni e dei demoni che possiamo a malapena immaginare. Raramente nella storia i bisogni religiosi sono stati così vivamente sentiti come negli ultimi secoli prima e nei primi secoli dopo l'inizio della nostra era. Ma non era più dalle antiche religioni nazionali e tradizionali che ci si aspettava la salvezza, era dalla fusione e dalla combinazione di tutte le religioni esistenti, dal sincretismo religioso derivante dal contatto con i culti strani, ma tanto più attraenti, che si importava dall'Oriente. Già tutte le religioni allora accessibili si incontravano a Roma, ma sempre nuovi culti, sempre più bizzarri e misteriosi, sorgevano in Oriente, in Asia Minore, terra feconda di divinità, per conquistare in breve tempo il loro posto nello spirito dell'Occidente. Quando il culto pubblico delle divinità riconosciute non era più sufficiente, si cercava una soddisfazione più profonda nelle società misteriche, numerosissime a quell'epoca, oppure, tra amici animati dagli stessi sentimenti e raggruppati in confraternite e in comunità private, ci si abbandonava alle pratiche di una vita religiosa individuale, ai margini dalle religioni ufficiali, nel silenzio di un culto clandestino. [6]

NOTE

[1] Epistole a Lucilio: epistola 41.

[2] Epistola 11.

[3] Epistola 67.

[4] Epistola 115.

[5] E. v. MOMMSEN e WILAMOWITZ nell'Istituto archeologico di Germania 23, fascicolo 3, Christl. Welt 1899, n° 51. — La sete di salvezza che caratterizza quell'epoca ha trovato un'espressione molto significativa nella famosa quarta egloga di Virgilio dove sono celebrate le gioie della vita agreste. Si confronti JEREMIAS, Babylonisches im Neuen Testament, 1905, 57 ss. LIETZMANN, Der Weltheiland, 1909. 

[6] VAN DEN BERGH VAN EYSINGA: Voorchristelijk Christendom. De voorbereiding van het Evangelie in de Hellenistische Wereld, 1918. 

Nessun commento: