mercoledì 10 marzo 2021

LA RESISTENZA ALLA TESI MITICAArgomentazioni Recenti

 (segue da qui)

II. — ARGOMENTAZIONI RECENTI

§ 1. «I Fratelli del Signore»

Meno di un secolo fa i teologi in generale, ma i cattolici in particolare erano molto interessati a provare che il Gesù dei Vangeli non aveva né fratelli e né sorelle. La presupposizione di fondo era la Perpetua Verginità della Vergine Maria — un dogma particolarmente caro ai cattolici, ma importante anche ai protestanti che tengono in gran conto l'idea della Nascita Verginale. Oggi praticamente tutti i teologi «progressisti» sono interessati a provare che Gesù aveva fratelli, essendo un modo per provare che egli esistette davvero. Per quella materia, i «cugini» della vecchia esegesi, se verificabili, sarebbero stati ugualmente una buona prova; ma il fatto che nell'antichità i cugini venissero spesso descritti come fratelli o sorelle ora non viene mai menzionato. «Fratelli» devono essere trovati per Gesù, ad ogni costo. La pretesa, allora, deve essere investigata.

Per ogni studioso attento, invero, i più forti motivi documentali per dedurre l'esistenza di un Gesù storico sono il testo in Prima Corinzi 9:5, che si riferisce a «i fratelli del Signore e Cefa» e quello in Galati 1:19: «Non vidi nessun altro, se non Giacomo, il fratello del Signore». L'argomentazione di quei testi è poco influenzata, prima facie, dal problema dell'autenticità. Supponendo che siano o interpolazioni o parti di una lettera pseudepigrafica, sembrano ancora indicare la diffusione, nel primo o nel secondo secolo, di una frase così descrittiva. La menzione evangelica dei «suoi fratelli» non ha nessun peso storico: l'allusione epistolare è documentariamente su un altro livello.

Proprio all'inizio, comunque, essa solleva acute difficoltà. Mai nei vangeli qualche fratello di Gesù è riferito come uno che lo seguiva: gli indizi sono tutti in senso contrario. Abbiamo Giacomo il figlio di Alfeo e Giacomo il figlio di Zebedeo, e forse un terzo Giacomo che era padre o fratello di Giuda, non Iscariota. E neppure sono menzionati fratelli uterini di Gesù negli Atti. Vi abbiamo (12:2) la menzione dell'uccisione da parte di Erode di «Giacomo il fratello di Giovanni» e, nello stesso capitolo, la menzione di ancora un altro Giacomo, senza cognome, con cui agisce Pietro; ma nessuna menzione di un Giacomo il fratello del Signore. La conclusione solita è che il secondo «Giacomo» sia il figlio di Alfeo. Se ci fosse stato un eminente Giacomo, un fratello di Gesù, come mai viene ignorato negli Atti? 

Ci viene detto, in una clausola visibilmente interpolata (1:14), che gli apostoli «erano assidui e concordi nella preghiera, insieme con le [o alcune] donne e con Maria, la madre di Gesù e con i fratelli di lui». Che Maria sia menzionata soltanto qui negli Atti, passando senza una parola di preavviso, è una prova sufficiente della disavvertenza di quell'interpolazione; ma i fratelli rientrano nello stesso caso. Due Giacomi e Giuda il figlio di Giacomo sono appena stati menzionati; come avrebbero potuto i «fratelli» essere stati storicamente menzionati senza nomi? Le parole in corsivo sono visibilmente una goffa interpolazione. 

Il professor Orello Cone, esaminando il problema nell'Encyclopaedia Biblica, decide che «Giacomo, soprannominato il Giusto, anche se condivise con i fratelli, di cui era probabilmente il più anziano, la loro opposizione a Gesù durante il suo ministero pubblico, sembra essere stato convertito alla sua causa subito dopo la resurrezione. Secondo 1 Corinzi 15:7, egli fu un testimone di una delle manifestazioni del Cristo risorto». Ma il Giacomo di quel testo non è chiamato il fratello di Gesù; e così identificare il nome equivale ad escludere i due apostoli con quel nome. La formulazione: «a Giacomo; poi a tutti gli apostoli», non implica che Giacomo non fosse un apostolo; infatti abbiamo precedentemente: «a Cefa; poi ai dodici».  Il professor Cone si sta arrampicando sugli specchi.

Se ritenessimo autentica la testimonianza epistolare, ci sarebbe soltanto una soluzione che risolverà il caso; e cioè che «Fratelli del Signore» era il titolo di un gruppo, analogo ai titoli quasi settari «di Cristo», «di Paolo», «di Apollo», «di Cefa». La frase, si noti, non è «fratelli di Gesù», ma «fratelli del Signore». Quel titolo poteva essere usato plausibilmente da uomini che non fecero nessuna rivendicazione di una parentela familiare con il Gesù evangelico. Sostenere, come fa il professor Goguel, che la tesi è vietata perché non esiste nessun'altra traccia di un tale titolo settario equivale a indicare la risposta che non esiste affatto altra menzione di «fratelli del Signore».

D'altra parte, entrambi i passi epistolari sono sotto sospetto, visto che uno dei due usa il plurale; e né negli Atti né in qualsiasi altra parte nel Nuovo Testamento qualche fratello uterino di Gesù è descritto come membro della Chiesa. L'espressione paolina è quindi doppiamente enigmatica; e se ci voltiamo all'ipotesi dell'interpolazione oppure a quella della non-autenticità di entrambe le epistole, vi potrebbe esserci un'altra soluzione. Poiché un interpolatore successivo, o uno pseudepigrafo paolino, confuso da passi evangelici che potevano suggerire fratelli di Gesù — come Marco 15:40 — avrebbe potuto saltare alla conclusione che Giacomo e Iose fossero fratelli di Gesù, e fossero tra i «pilastri» del culto antico. Ad ogni modo, i testi paolini non possono stabilire nulla; e i difensori più seri della storicità di Gesù, in generale, sembrano riconoscere ciò non insistendo sul punto.

Ma la prudenza del modernista cristiano non si raccomanda per l'ultimo biografo ebreo di Gesù. È dal dottor Klausner (pag. 234) che ricaviamo questo: 

«Come risulta da un brano dei Vangeli [Luca 2:7 (e in una forma variante Matteo 1:25)] e da un altro in San Paolo [Romani 8:29], Gesù era 'il primogenito tra molti fratelli'. Aveva, inoltre, almeno due sorelle......»

Nessuno studioso cristiano, probabilmente, ha mai spinto la mercificazione delle prove più lontano di così. Il passo in Romani recita:

«Poiché quelli che egli [Dio, o “lo Spirito”] da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all'immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati».

I più ortodossi e i più avanzati dei commentatori cristiani riconoscono che qui non c'è un'allusione a fratelli biologici ma all'intera famiglia della «fede». Un fraintendimento così puerile, proveniente da colui che accusa i miticisti di negare «ogni realtà storica», è un indizio di poca intelligenza.

Coloro che pretendono di provare che «Fratelli del Signore» non può essere stato un titolo settario sono ignari della difficoltà essenziale creata a loro stessi dall'accettazione dell'opinione tradizionale. Essa discredita non solo i vangeli ma gli Atti degli Apostoli, che dichiarano di mettere in relazione l'istituzione e la propagazione del culto senza un accenno che reali fratelli di Gesù, in quanto tali, avessero svolto un ruolo autorevole nel processo. Nell'Epistola essi superano gli apostoli in generale. L'unica conclusione critica consentita, se riteniamo originali le frasi paoline, è che Paolo affrontò un culto condotto non da Dodici Apostoli ma principalmente da un gruppo designato Fratelli del Signore, circa la cui storia settaria i vangeli non raccontano niente, dato che la loro documentazione era del tutto inventata.


§ 2. «Testi Pilastri» del dottor Schmiedel 

 Sebbene il professor Maurice Goguel, come detto sopra, ha condotto le sue critiche alla tesi mitica con temperanza e cortesia, difficilmente si può dire di lui che abbia dato qualche contributo speciale alla difesa, affidandosi esplicitamente come fa sulla difesa a priori — il «deve». L'uso di quella difesa è in realtà una confutazione di ogni argomento a posteriori in tal caso, come lo era riguardo all'ipotesi copernicana e all'ipotesi darwiniana. È conveniente, perciò, trattare gli argomenti degli studiosi che sono o riconoscenti della futilità dell'argomento a priori oppure soddisfatti di lavorare a meno di esso.

Di questi, i due più importanti per un occhio razionalista negli ultimi vent'anni sono stati il professor Schmiedel di Zurigo e il professor F. C. Burkitt di Cambridge, studiosi di altissima importanza, che è impossibile leggere senza apprezzare la loro intuizione, gradire la loro piacevolezza, e stimare il loro candore. È solo dopo aver pesato le ragioni di tali disputanti che il miticista può avere il conforto di sapere che lui ha ascoltato il meglio di quel che finora può essere sollecitato contro le sue posizioni, e  di concludere che egli non è pericolosamente incoraggiato dallo spettacolo dell'incompetenza dei suoi altri contradditori.

Il professor Schmiedel sfida specialmente la nostra rispettosa attenzione col suo argomento ben noto e accuratamente presentato, nell'Encycopaedia Biblica, di quello che ha definito «testi pilastri» — vale a dire, una selezione di nove testi nei vangeli che si pretende, per loro stessa natura, inconcepibili come invenzioni da parte di adoratori di Gesù, e devono perciò essere considerati o reali espressioni del Fondatore, preservate dagli ascoltatori, oppure relazioni veridiche di episodi in cui egli figurò. Il professore svizzero naturalmente considera molti altri testi, riportando espressioni o episodi, abbastanza ragionevolmente credibili; ma per quei nove egli afferma che non possono essere stati inventati, e perciò provano in modo decisivo la storicità di Gesù.

La serie è stata discussa in modo indipendente dal professor W. B. Smith [1] e dal presente scrittore, [2] e quel che si presenta ora è un riassunto delle confutazioni.

1. Il primo passo potrebbe essere giustamente l'approfondita negazione da parte del professor Smith della tesi a priori del dottor Schmiedel secondo cui alcune presentazioni del Dio-Uomo come semplicemente umano non sarebbero mai state inventate da scrittori che, come «Matteo» e «Marco», lo consideravano un essere soprannaturale. Come insiste giustamente il dottor Smith, la varietà di concezioni possibili del Dio-Uomo nei primi secoli cristiani fu incalcolabile. Uno scrittore recente, nel capitolo più utile di un libro curiosamente fallimentare, ha mostrato come le «cinque Cristologie» della storia teologica siano composte da un assoluto miscuglio di concetti nel Nuovo Testamento. [3]

2. Si potrebbe aggiungere che il dottor Schmiedel non è su un terreno solido nella misura in cui egli ignora qui la massa indiscutibile di manomissioni dei testi durante i primi tre secoli, e l'ovvia possibilità che cose che i primi evangelisti non avrebbero scritto potrebbero essere state interpolate da uomini successivi orientati a opinioni divergenti dalle loro. Per inciso, si può notare che in base ai suoi principi egli è almeno obbligato ad ammettere, con il professor Burkitt, l'autenticità dell'antica lettura «Gesù Barabba» in Matteo (27:16), vedendo che, mentre ci sono ovvie ragioni per cui la Chiesa avrebbe dovuto desiderare omettere il «Gesù», nessuna ragione può essere suggerita per l'invenzione di un nome simile dai cristiani. 

3. In particolare, il dottor Schmiedel si è basato un solo testo — «Perché mi chiami buono?» (Marco 10:18; Luca 18:19) — che non è solo in sé un'espressione molto improbabile ma fa parte di un passo matteano di cui i manoscritti offrono letture diverse. Il suo argomento è che, fintanto che Gesù qui dice: «Nessuno è buono, se non Dio solo», egli sta negando la sua divinità; laddove «Marco» in generale lo tratta come divino. Curiosamente, il professore non si pone la domanda, Come mai Marco arrivò a considerare divino Gesù se deve ricordare che Gesù espressamente rinnegò di esserlo? Quel dilemma è fatale per la stessa posizione del dottor Schmiedel. Ma ancora più grave è l'aver trascurato il fatto che i primi Padri in generale, senza esitare, videro nel passo un'affermazione di Gesù della propria divinità. Questo fatto, non notato dal professor Schmiedel, è decisamente notato dal professor Smith. E l'argomento dei Padri era perfettamente naturale. Quando Gesù dice in effetti: «Perché tu mi chiami buono, sapendo che soltanto Dio è buono?» egli sta dicendo implicitamente «Chiamandomi buono tu ammetti la mia divinità». E «Marco» avrebbe preso presumibilmente proprio quel punto di vista.

Il passo, inoltre, ha segni sorprendenti di invenzione. Come una risposta al cortese — e sicuramente comune — epiteto di «Maestro Buono», la sfida è una procedura perversamente controversa, davvero molto simile al passo forense tra Gesù e gli Scribi relativo al pagamento del tributo a Cesare, dove gli si fa cavillare molto passivamente. Quando notiamo che in Matteo (19:16) il «Buono» iniziale è assente dai codici migliori (il Sinaitico, il Vaticanus, e il Codex Bezae), ed è di conseguenza omesso da Alford, Lachmann, Tischendorf, Tregelles, B. Weiss, Westcott e Hort, e dalla Versione Riveduta, la questione assume un nuovo aspetto. Là l'interrogante domanda semplicemente che cosa deve fare di buono, e gli viene risposto o che «il Buono è uno» — una formula pagana — oppure che «c'è solo uno che è buono»

 Se ora, sospendendo il presupposto comune (condiviso dal professor Smith) che Marco sia il più antico dei sinottici, consideriamo originale la corretta lettura matteana, ricaviamo una semplice soluzione. Matteo riproduce uno dei correnti «Logia del Signore». Marco, con sia Matteo che Luca di fronte a lui, sfrutta l'occasione, leggendo «Maestro Buono», per far sì (come lo capirono i Padri) che Gesù trasformò la domanda in un'ammissione della sua divinità. Visto che quella interpretazione diventò in ultima istanza prevalente nella Chiesa, il testo di Matteo fu modificato ad una data successiva mediante l'inserimento in Marco di un «Buono» che in quel caso non serviva niente allo scopo. Così un esame perfettamente diretto annulla una volta per tutte questo particolare «testo pilastro». Se vi sia qualche soluzione più ragionevole dell'intera questione, che la scuola biografica lo produca. [4]

4. Quasi più debole ancora è il testo «pilastro» del dottor Schmiedel (Marco 3:21) che afferma l'opinione di «quelli con» Gesù secondo la quale lui era fuori di sé. Il passo, per cominciare, è incomprensibile come sta nella nostre versioni; e, come suggerisce il dottor Smith, la variante nel Codex Bezae, facendo tentare a «gli scribi e gli altri» di sopraffare Gesù, «poiché dicevano che egli li confondeva», è molto più plausibile. Ma nella misura in cui il dottor Schmiedel assume che l'idea di presentare il Dio accusato di pazzia non avrebbe potuto essere inventata da credenti in lui, l'intero caso è mediocre. La presentazione di un semi-dio come fuori di sé è uno degli aspetti prominenti della mitologia pagana; e quando l'accusa, come in Marco, è detta recata dai parenti del Dio-Uomo, e nondimeno è detta falsa, è  visibilmente una probabile invenzione. Tra l'altro, essa discredita gli ebrei e i discepoli, ma non Gesù.

Se questa risposta venisse respinta, chi obietta applichi l'argomento del dottor Schmiedel al culto di Eracle, come presentato a noi nell'Hercules Oetaeus di Seneca. [5] Ecco che l'irresistibile semidio, vincitore su tutti i nemici, compresi «morte e inferi», lo si fa prima vantare della sua invincibilità, e poi, sotto tortura, lo si fa gridare e piangere. Va sostenuto, allora, che quelli che lo adorarono come il più potente tra i semidei «non avrebbero potuto inventare» un mito che lo mostra travolto dalla frode del centauro, e ridotto a giacere sulla terra nel suo dolore; e che perciò ci deve essere stato un Eracle che così soffrì? E così con la storia della sua pazzia nell'Hercules Furens? Questi sembrerebbero essere i corollari dell'apologia del dottor Schmiedel.

5. Basarsi sul passo in Matteo 12:31 seq., che dichiara imperdonabile la blasfemia contro «il Figlio dell'uomo», sembra una mossa sfortunata da parte del dottor Schmiedel. Il passo è visibilmente parte del processo teologico destinato a stabilire la super-santità dello Spirito Santo, formulata per l'uso clericale nella storia di Anania e Saffira in Atti.

6. Difficilmente più plausibile è la tesi che il testo (Marco 13:32): «Quanto poi a quel giorno o a quell'ora, nessuno li conosce, neanche gli angeli nel cielo, e neppure il Figlio, ma solo il Padre», non sarebbe stato inventato dai credenti nel Dio-Uomo. Che il figlio fosse «di poco inferiore» al Padre era la naturale prima posizione dei cristiani. Prima di loro, i Gesuisti ebrei della Didaché — riecheggiati in Atti 3:13, 26 — fecero di Gesù il «Servo» del Padre. Ma che egli stia «realizzando la volontà del Padre» è la comune posizione evangelica. Nel non conoscere tutti i piani del Padre egli è posto semplicemente sullo stesso livello degli Dèi più giovani dell'Olimpo.

7. Chiaramente più forte è la tesi che il grido di disperazione sulla croce (Marco 15:24; Matteo 27:48), «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», è improbabile che si tratti di un'invenzione cristiana. Ma questo «Pilastro», come accade, è stato distrutto per noi dal dottor J. Estlin Carpenter, che nel suo lavoro 'Primi Tre Vangeli', dopo aver usato proprio questo argomento, adotta l'opinione di Schleiermacher secondo cui la frase, che deriva dal Salmo 22, è intesa a suggerire l'intero Salmo, che si chiude nella speranza. [6] Coloro che potrebbero essere fin troppo scandalizzati dalla tattica del dottor Carpenter di adottare un punto di vista che egli approva, devono ricordare (a) che egli non ne è il suo primo autore, e (b) che considerare il Dio-Uomo che beve il calice dell'amarezza della morte è parte in realtà del dogma completo del suo sacrificio salvifico. Un Dio che moriva tranquillamente, conoscendo la sua immortalità, non avrebbe corrisposto a quella concezione. Inoltre, il Salmo forniva il solito motivo tradizionale. E, ancora di più, proprio come il Coro nelle Supplici di Eschilo (213-215), pregando al «santo Apollo, un Dio un tempo esiliato dal cielo», gli ricorda quell'esperienza, e lo scongiura perciò di essere benigno coi mortali, così i cristiani avrebbero desiderato che il loro Dio dovesse essere in grado di provare qualcosa per loro.

8. Il passo (Marco 8:12; Matteo 12:39; 16:4; Luca 11:29) che conclude: «Non sarà dato nessun segno a questa generazione», non serve affatto lo scopo del dottor Schmiedel; al contrario, crea un cattivo dilemma per lui stesso. A suo avviso, Gesù era un uomo che non faceva alcuna rivendicazione di uno status soprannaturale. Allora come mai un uomo del genere avrebbe dovuto dichiarare che «non sarà dato nessun segno a questa generazione»? La profezia implica che lui avrebbe potuto dare «segni» ma non lo farà: una rivendicazione di un potere soprannaturale, con l'ulteriore rivendicazione di una conoscenza soprannaturale che nessun altro darà loro. In tutti e tre i sinottici è il Figlio di Dio che sta parlando. E se supponiamo che l'intero testo di Matteo sia la forma più antica, l'accorciamento di Marco è perfettamente comprensibile in vista dell'oscurità dell'intero passo.

9. A prima vista il testo marciano (6:5; confronta Matteo 13:53 seq.; Luca 4:16-30), «E non vi potè operare nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi ammalati e li guarì», è qualcosa di simile ad un «pilastro» per il dottor Schmiedel, fintanto che dichiara rozzamente che le guarigioni dipendono dalla fede dei pazienti. Ma equivarrebbe sicuramente a esigere fin troppa precisione teorica da un credente invitarlo a riconoscere che questo costituiva una limitazione del potere del Dio-Uomo di infondere fede. La dottrina della potenza della fede è da lui inculcata espressamente nei vangeli. Insistere sulla mostra di incredulità mostrata in Galilea era piuttosto in linea con l'aspetto specifico di un vangelo che esortava tutti a credere per essere salvati.

Ma, come al solito, il pilastro scelto risulta essere solo un nuovo pericolo per la tesi principale. La scena del fallimento è Nazaret, la casa del Dio-Uomo. La famiglia non ha un nome o, a questo punto, non è nemmeno menzionata. Marco, rivendicato come il primo evangelista, non ha qui nessuno dei nomi dati in Matteo (13:55). Da lui abbiamo solo, nella sezione successiva, la storia di «sua madre e i suoi fratelli», con una notevole differenza da Matteo 12:49. Là Gesù «stendendo la mano verso i suoi discepoli disse: Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli»: in Marco (3:34) egli sta «girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno», come lo descrive T. S. Green. Qui abbiamo, per così dire, una rivendicazione di un'istituzione dei «Fratelli del Signore», non dei Dodici, e non di fratelli biologici, contro un mito più antico in cui il Signore è raggruppato con madre, fratelli e sorelle.

Curiosamente, siamo così lasciati soltanto con un nuovo e forte dubbio riguardante l'intera «testimonianza». Il proverbio è rovesciato in ultima istanza tra i logia trovati nei papiri egiziani, nella forma: «Un profeta non è ricevuto nella sua città, e un medico non opera cure su coloro che lo conoscono» — un pezzo di cinismo che suggerisce un'origine non proprio gesuana. Questi logia circolavano come logia «di Gesù». Quanto sono preziosi, biograficamente? A quale Gesù furono assegnati? Alcuni di loro i cristiani li vorrebbero accettare; alcuni non li vorrebbero.

Infine, siamo portati a ipotizzare che i passi evangelici in esame originarono sotto la pressione della difficoltà che non vi fosse rimasta traccia dell'influenza di Gesù nel suo stesso paese. Come ha sottolineato il professor Smith, la Galilea non gioca alcun ruolo nella storia del culto dopo la morte di Gesù. Non c'è nessuna Chiesa galilea. Come avrebbero potuto gli evangelisti rendere conto della situazione se non raccontando che a Nazaret non ci fu nessuna fede — sebbene al costo di screditare il loro stesso racconto del Ministero galileo in generale, per non parlare dei dettagli matteani circa la sua famiglia? Se tale spiegazione non è accettata, ne rimane una: che, a parte da e prima della «tradizione» evangelica, vi erano correnti Logia Jesou come quelli ritrovati di recente in Egitto; che i fabbricatori dei vangeli presero questi logia come venivano, attribuendoli al «Cristo». In entrambi i casi, dov'è il sostegno per la tesi biografica contro la tesi mitica? A fronte della tesi del professor Schmiedel, il dottor Rudolf Bultmann decide che la storia del respingimento a Nazaret è pura invenzione!

10. Dei nove «testi pilastri» del professor Schmiedel restano da considerare due (Marco 8:14-21; Matteo 11:5 = luca 7:22), che trattano il rimprovero ai discepoli riguardante il  pane e il lievito, e il messaggio al Battista relativo alle meraviglie compiute da Gesù. Qui l'argomento diventa altamente imbarazzante per la scuola biografica in generale, nella misura in cui il professor Schmiedel ritiene che l'intero resoconto di Gesù presuma soltanto guarigioni spirituali, e quindi contraddica tutte le storie di guarigioni miracolose; e questa opinione, salvo per certe frasi, soddisfa del tutto il professor Smith in quanto espone la tesi mitica, e parimenti il professor Drews, che ha sviluppato di recente la tesi allegorica di Marco con grande completezza!

Quelli tra noi che hanno difficoltà a concepire che il vangelo secondo Marco esponga principalmente una dottrina interamente simbolica, in cui tutte le storie di guarigione significano semplicemente conversioni di politeisti al monoteismo, e che gli altri sinottici abbiano incomprensibilmente letteralizzato il tutto, devono lasciare per il momento la scuola biografica per rivolgere l'argomento contro di loro, col professore Schmiedel che concede a due prominenti miticisti quasi esattamente quello che vogliono! 

Ci si potrebbe aspettare che alcuni sostenitori della tesi biografica, approvando il metodo del dottor Schmiedel, aggiungano ai suoi pilastri. [7] Ad esempio, qualcosa si potrebbe fare di Marco 7:27 e di Matteo 15:26 — la risposta alla donna siro-fenicia, che definisce «cani» i pagani. In base al principio moderno secondo cui Marco deve essere venuto prima, essi potrebbero sostenere che egli, il Paolinista, non avrebbe mai inventato un detto così aspro per il Signore. Il dottor Vernon Bartlet, invero, ha costruito una spiegazione accattivante con l'effetto che la parola di Marco kunarion essendo un diminuitivo (=«cagnolino»), suggerisce un geniale bagliore nell'occhio del Maestro, e un suono gentile! Ma l'argomentazione del dottor Bartlet raramente porta molto peso, e mai meno che in questo caso. C'è piuttosto di più nella protesta ebraica del dottor Klausner, che «se qualunque altro maestro ebreo del tempo avesse detto una cosa del genere, i cristiani non avrebbero mai perdonato l'ebraismo per quello».

Questo è così tanto giustificato che, come apprendiamo dal commentario del dottor Montefiore, «alcuni commentatori cristiani si sono molto rovellati su questa storia. 'È abbastanza triste', dice uno, 'che un giudeocristiano fosse perfino capace di inventarlo. È incredibile «che Gesù avrebbe esitato ad aiutare qualcuno per il motivo che lui o lei non fosse un ebreo». Non è questo, allora, un «pilastro» per coloro che credono nella priorità di Marco? Lui avrebbe «inventato» un simile detto per il Signore? È facile dire che, presentandosi in Marco, sia uno dei cento-e-uno argomenti contro la priorità di Marco. È una storia matteana, che esprime il più antico approccio giudaizzante, sebbene «Matteo» (un redattore successivo, di sicuro), riferisce la concessione, che esalta debitamente il principio della «Fede». E «Marco» (oppure un redattore), trovandola in Matteo, la accetta come mediazione tra i Giudaizzanti e i Paolinisti.

E ancora la tesi biografica non è aiutata, quando alcuni commentatori cristiani si rifiutano di credere che Gesù possa aver chiamato cani dei gentili. In breve, né i «pilastri» del dottor Schmiedel, e neppure alcuni altri selezionati sui suoi principi, serviranno a salvare la storicità di Gesù. Più fedelmente ragioniamo su ciascun testo, più sicuramente sembriamo essere condotti — con l'aiuto di «alcuni commentatori cristiani» — alla soluzione che è tutto mito, sia «buono» o «cattivo» il logion di turno.

Il dottor C. G. Montefiore, il più liberale degli ebrei, francamente amichevole con tutto ciò che trova «buono» nei vangeli, è pronto a lodare generosamente Gesù per il «grande» logion di Marco 7:15, che si pronuncia contro tutti i concetti di contaminazione religiosa esteriore — sebbene giustamente difende i rabbini in altri punti. Eppure il suo stesso commento rivela che tali idee, che lui stranamente definisce «nuove», erano correnti molto prima in Grecia; cosicché i cristiani del secondo secolo furono in grado di migliorare la loro etica evangelica in alcuni punti mediante l'influenza pagana. Il dottor Rudolf Bultmann, da lui citato, ha avanzato la soluzione sana e profonda che quelle storie di dibattiti tra Gesù e i farisei sulla contaminazione religiosa sono semplicemente espressioni di un dibattito molto più tardivo tra i cristiani giudaizzanti e i cristiani gentilizzanti, con la concezione gentilizzante fatta risalire al Signore. E il dottor Bultmann a sua volta, tra i denti della sua stessa deduzione, ritiene che il logion sia «il più autentico».

Tenendosi libero dai molti presupposti della sua discendenza e formazione ebraiche, e non ponendo nessuna enfasi aggressiva su di essi, il dottor Montefiore nondimeno ci tiene assolutamente al presupposto della storicità di Gesù, come fanno molti studiosi ebrei di tutte le sfumature di opinione. Ma egli affronta la soluzione mitica, proprio nell'atto di abbandonare l'intero corpo dei miti di azione e le grandi quantità dell'Insegnamento. In una pagina (98) della sua Introduzione [8] egli cita da Luca il «Padre perdona loro!» come uno dei detti più nobili nei vangeli, e commenta: «Ma questo verso probabilmente non è autentico». [9] «Qualcosa può essere immaginato di più superbo», aggiunge, rispetto al passo di Matteo 25:34-40, che si trova soltanto in Matteo? «Ma non è più che probabile», continua, «Che questo passo non fosse stato pronunciato da Gesù, e fosse a lui posteriore?»

Egli potrebbe benissimo domandarlo. Il passo incorpora un compendio di una sezione standard nell'egiziano «Libro dei Morti»; [10] e costituisce abbastanza sicuramente un'aggiunta posteriore ai vangeli. Eppure, confessando così la natura estranea di alcuni dei «migliori» logia evangelici, egli cita con approvazione nella pagina a fianco l'affermazione di Wundt che, mentre «la vita esteriore di Gesù è un tessuto di leggende», non esiste controparte nei miti pagani della «serie di detti e di discorsi di Gesù come erano stati tramandati fino a noi nei Vangeli sinottici». Come se quel ragionamento non convalidasse i «detti» nel Quarto Vangelo! Come se non ci fosse una vasta quantità di detti aggiunti attribuiti a Buddha! Come se non fossero stati attribuiti a Davide e a Salomone libri interi che mai scrissero!

Così continuano gli studiosi di formazione teologica a oscurare la difesa attraverso la sopravvivenza in loro dei modi difettosi di raziocinio che genera ogni formazione logica e ogni sentimento religioso, per quanto umano e amante della verità sia la loro disposizione mentale. Il resto di noi sia il più accurato a riconoscere la misura del loro miglior servizio, che è grande.


§ 3. Argomentazioni del dottor Burkitt

Per alcuni aspetti il professore norrisiano di teologia a Cambridge è più avveduto del dottor Schmiedel nel suo argomento non meno temperato a favore della natura storica dei vangeli. Al pari di lui, egli avanza solo indirettamente la difesa a priori; ma non pretende nemmeno di indicare testi che «non possono essere stati inventati». Nel suo libretto di tre lezioni sugli 'Inizi Cristiani' (1924) cambia perfino la nota fino al punto di confessare con rassegnazione che l'annoso problema delle Origini cristiane cesserà di suscitare molto interesse. «Abbiamo perso le nostre convinzioni nell'autorità del Passato». Ogni tesi audace può trovare libera circolazione. «Ma, ahimè, il vecchio interesse sta morendo». Le persone che rimangono religiose «tendono sempre di più ad affidarsi all''Esperienza'».  In una parola, le persone della chiesa più intelligenti se ne stanno allontanando.

Ancora, comunque, egli propone tranquillamente delle ragioni per credere che i vangeli e le epistole siano derivate da una tradizione reale; e non sembra sospettare che i suoi argomenti, che indicano tutti quanti la soggettività dei documenti, possano tendere a preparare i suoi lettori ad accettare la tesi mitica. Così lui mostra che il titolo di «Signore» (Kyrios) recita un ruolo minore in Matteo e in Marco, e che la formula «il Signore Gesù Cristo» è logicamente un prodotto della chiesa di lingua greca ad Antiochia. I vangeli più antichi, ne consegue, sono fedeli al fatto che «Signore» non era il termine in uso tra gli ebrei.

Per il miticista, ovviamente, questo non crea nessun ostacolo. Matteo si forma nell'ambiente ebraico e non impiegherà un'espressione non di uso ebraico, qualunque cosa i redattori possano aggiungere. Marco, scritto (come gli esperti sono di nuovo inclini ad ammettere) in un ambiente romano, per lo stesso motivo limita l'uso del termine alla donna siro-fenicia. Luca esibisce semplicemente l'estensione dell'influenza ellenistica. Ma l'argomento è stato fabbricato in uno spirito ragionevole, e fa un appello alla persuasività che non è mai cominciato nella derisione chiassosa della brigata che liquida la tesi mitica con la formula «deve». 

È nel suo lavoro precedente, ma rivisto, su 'La Storia del Vangelo e della sua Trasmissione' (11/7/1906) che il professor Burkitt sviluppa pienamente il suo argomento induttivo. Ma è là che l'argomento pseudo-induttivo rivela più disastrosamente la sua fragilità. Perfino la sua difesa fiduciosa del presupposto della priorità di Marco deve aver rivelato a molti la faziosità di quella tesi, che ha davvero guadagnato il suo terreno perché l'assenza della favolosa Storia della Nascita di Marco promette ad hoc una base storica più solida. In ogni caso, i passi riprodotti dal dottor Burkitt da Sir John Hawkins si adattano perfettamente alla tesi secondo cui Marco è una selezione da Matteo e da Luca: È significativo che la scuola marciana non testa mai quell'ipotesi sui loro brani.

Abbiamo già visto che la versione marciana dell'episodio «Perché mi chiami buono?» è criticamente comprensibile solo come una manipolazione dei redattori allo scopo di far sì che Gesù induca l'interrogante ad un'ammissione della divinità di Gesù. Quell'interpretazione, che concorda con l'esegesi dei primi Padri, non è menzionata neanche dal dottor Chase, citato dal dottor Burkitt, né da lui stesso. Essi sono beatamente fiduciosi nel fatto che Marco stesse permettendo a Gesù di negare la sua divinità; sebbene l'esegeta confessa francamente che «i nostri evangelisti alterarono liberamente le fonti precedenti che usavano» e «non afferma che fossero degni di fiducia, o perfino sinceri». 

Ma è nella sua difesa generale o ultima che il dottor Burkitt rovina completamente la sua iniziativa. Poiché scommette la sua argomentazione sulla tesi che sia le derivazioni o sistemazioni più ovvie della dottrina che le finzioni di eventi più incredibili provano la storicità di Gesù mostrando «che l'impressione totale della vita e delle parole di Gesù di Nazaret fecero scrivere l'Evangelista in questo modo, e fece accettare alla Comunità per la quale scriveva il ritratto che ha derivato».

Ciò equivale a dire, più spericolato è il narratore, più ciecamente credulone è il pubblico, più certa è la grandezza anormale della Personalità che è il soggetto delle finzioni. Non ci può essere nessun equivoco su quel che intende il dottor Burkitt: lo ripete per quattro pagine (ed. 1925, pag. 24-27).

«Ci verrà detto», scrive, «che lo stesso Discorso della Montagna non è affatto un vero discorso: è un centinaio di detti più o meno isolati, raggruppati per sommi capi, e molti di quei detti, anche se siano autentici, appartengono a fasi successive del Ministero......Tutto questo è più o meno una critica storica giustificabile......»

«Ma questo non è tutto. Il corso degli eventi è importante, ma l'effetto prodotto su di noi dal corso degli eventi è ancora più importante. Cos'era l'effetto che il corso degli eventi, la Vita di Gesù Cristo sulla terra, produsse sul nostro Primo Evangelista? Non era questo, che gli fece sistemare il Suo Vangelo come si presenta alla nostra lettura?»

In altre parole, più si hanno testimoni falsi meglio è! Più non storica è la testimonianza, maggiore deve essere stata la Personalità ispiratrice!

«Più una critica rigorosamente oggettiva ci spinge a ritenere questo e quel detto tradizionale di Cristo un ingrandimento successivo nella leggenda evangelica, quanto più meraviglioso, quanto più possente deve essere stato Egli intorno alla cui Personalità si svilupparono non solo le storie della Natività e della Tentazione ma anche le parabole del Figliol Prodigo e del Fariseo e del Pubblicano?»

Le storie sono certamente favole; le  parabole migliori sono certamente post-gesuane; ma quanto più impressionante deve essere stato Gesù, di cui storie del genere potevano essere fabbricate, e per cui parabole del genere potevano essere inventate! Come a dire, Che poeta doveva essere stato Davide, per far sì che i Salmi gli venissero attribuiti!

Dopo un simile paralogismo così disperato, ci si ferma per prendere fiato. Evitando la solita formula inutile «deve essere stato», il dottor Burkitt la eclissa con un teorema da cui, si potrebbe supporre, l'apriorista abituale deve indietreggiare. Eppure eccolo lì, un'illustrazione sbalorditiva del potere di un presupposto nell'indurre uno studioso liberale, illuminato e onesto ad un paradosso logico. Perciò è necessario indicare a lettori forse sbalorditi alcune delle implicazioni logiche.

1. Krishna, riguardo al quale sono ricordate molte più meraviglie di quelle inventate per Gesù, deve essere stato una personalità molto più meravigliosa ancora. E la (tarda) Bhagavat Gita, che associa Krishna ad una filosofia mistica, deve essere presa come prova dell'«impressione» fatta dalla sua  personalità sui suoi seguaci.

2. Solo una personalità meravigliosa avrebbe potuto ispirare le invenzioni riguardanti un Eracle, un Dioniso, un Orfeo, un Osiride o un Mitra; e solo una donna reale estremamente sagace può aver ispirato il mito di Atena. (In punto di fatto, nel diciottesimo secolo Mosheim, lo storico ecclesiastico più profondo del suo tempo, fu convinto che solo Personalità straordinarie, realizzando grandi imprese, avrebbero potuto originare i culti di Mitra e di Ermes).

3. La stessa linea di argomentazione potrebbe essere fatta per «dimostrare» la storicità di Amleto, concepito come Shakespeare lo ha concepito. 

4. Per il consenso dei principali studiosi ebrei, il Libro di Giosuè è interamente non-storico. In base al testo del dottor Burkitt, tuttavia, le sue narrative, compresa quella del sole che si fermò, dimostra in modo decisivo l'impressione immensa fatta dalla personalità di un Giosuè altrimenti non rintracciato. Chi era lui? La risposta del presente scrittore è che era un Dio; ma ciò probabilmente non sarebbe concesso dal dottor Burkitt.

5. L'applicazione logica dei principi del dottor Burkitt alla ierologia in generale porterebbe al teorema che i culti di Jahvè, di Zeus, di Bel, di Brahma, tutti i culti di tutti gli Dèi «Superiori» delle religioni antiche, devono procedere dall'impressione suscitata da loro come grandi personalità umane sui poeti e sui profeti che li acclamarono come Dèi; e il fatto che Zeus ed Era siano all'incirca i personaggi rappresentati più realisticamente nell'Iliade andrebbe a dimostrare che Zeus, almeno, doveva essere stato una volta un uomo davvero straordinario in verità. Questo tipo di ragionamento è vecchio tanto quanto Evemero: la cosa sorprendente è trovarlo appena adottato da un affermato teologo e studioso moderno.

Il dottor Burkitt potrebbe forse ricavare un barlume dell'enormità della sua logica se a questo proposito lanciasse un'occhiata spassionata alla dedica della Versione Autorizzata inglese a sua Altezza ed Eminenza il Principe Giacomo. Senza dubbio il predecessore di Giacomo aveva suscitato un'impressione tale da convalidare la figura di quella «luminosa Stella Occidentale», ma non è stato comunemente ritenuto, nemmeno nella Chiesa d'Inghilterra, che sette anni di Giacomo avessero creato una sua vera concezione operativa come comparativamente «il Sole nella sua forza», ossia «quella Persona santificata che, subito dopo Dio, è l'autore immediato della loro vera felicità». È comune ora, tra i laici, rendersi conto che la dedica dimostra, non gli attributi soprannaturali di Giacomo, ma la capacità dei teologi di sopprimere la verità e suggerire la menzogna.

Se allora una compagnia di sobri e seri pii studiosi inglesi, nell'anno 1611, poteva così solennemente presentare ai suoi contemporanei la figura del reale Giacomo I, quale ragione specifica vi è per negare che nel primo e nel secondo secolo dell'era cristiana credenti devoti e ignoranti in un Dio-Uomo potessero inventare eventualmente attributi impressionanti per un Fondatore che essi non avevano assolutamente mai visto; o per concludere che più è sorprendente la storia, più meraviglioso egli dev'essere stato?

È inquietante dover fabbricare e sostenere tali considerazioni contro un tale pubblicista. La sua sincera argomentazione, considerata seriamente, in effetti è una negazione di ogni reale canone critico riconosciuto nella storiografia moderna. Essa appartiene ala psicologia dei credenti medievali nelle Vite dei Santi — con la differenza che ipotizza come un processo di ragionamento ciò che essi hanno accettato senza alcuna pretesa di ragionarci del tutto. Ciò ci induce seriamente a riconoscere che Sansone doveva essere stato un uomo davvero straordinario perché è detto che uccise un migliaio di uomini con la mascella di un asino, e di conseguenza non può essere stato un mito solare. «Non per nulla», come predica il dottor Burkitt, le storie delle fatiche di Sansone e di Eracle sono state scolpite e trascritte. 

Bisogna almeno ammettere che, dopo tutto, i non-ragionatori che liquidano la tesi mitica con le formule alternate di Pooh e Bah sono saggi nella loro generazione. Essi potrebbero rivendicare, contro gli avversari, di illustrare la forza del detto: «Dai il tuo giudizio; ma non dare le tue ragioni». 


§ 4. L'Argomentazione di Flavio Giuseppe 

Abbiamo visto che, sotto la pressione della tesi mitica, c'è un desiderio crescente da parte della difesa di basarsi sulla «testimonianza» a lungo screditata di Flavio Giuseppe per la storicità di Gesù. La grande maggioranza degli studiosi del Nuovo Testamento sembrano ancora tenere, con il dottor Klausner, che un ebreo e un fariseo, come lo era Giuseppe, non avrebbe potuto scrivere plausibilmente che Gesù «era il Cristo», dal momento che ciò sarebbe stato equivalente, da parte sua, ad una dichiarazione di essere un cristiano. Ma anche quella posizione è contestata dal dotto Burkitt, senza dubbio perché vede che il «silenzio di Flavio Giuseppe» è uno dei più forti motivi documentari per respingere la storicità di Gesù. Il suo argomento è che noi fraintendiamo il significato di una frase come «egli era il Messia» sulle labbra di un ebreo; e che Giuseppe potrebbe averla utilizzata piuttosto bene. La tesi sembra non avere soddisfatto né gli studiosi ebrei né gli studiosi cristiani, e certamente non può fare appello al razionalista imparziale. È un caso tipico, in realtà, del desiderio che è padre del pensiero. 

Comunque, si esamini fedelmente di nuovo il passo contestato [11] nel suo insieme, trascrivendolo dalla revisione di Shilletto della traduzione di Whiston per la convenienza del lettore, e notando (1) che il paragrafo precedente tratta esclusivamente l'indignazione degli ebrei per l'uso di Pilato della «moneta sacra» da pagare per un acquedotto a Gerusalemme, e la conseguente uccisione di un gran numero di loro, rivoltosi e non-rivoltosi indiscriminatamente, ad opera dei soldati di Pilato, eccedendo i comandi di Pilato. Il paragrafo termina con «Così fu posta una fine all'insurrezione»; e si deve notare (2) che la parte 4 del capitolo comincia così: «Intorno allo stesso tempo, anche un'altra disgrazia turbò i Giudei». Tra questi passi subentra il paragrafo 3: 

«In questo periodo vive Gesù, uomo saggio, se pure bisogna dirlo uomo. Era infatti autore di opere straordinarie, maestro  di uomini che accolgono con piacere la verità. E attirò a sé molti giudei e anche molto greci. Questi era il Cristo. Anche  quando Pilato, su denuncia dei nostri maggiorenti, lo fece crocifiggere, quelli che lo avevano amato al principio non smisero di amarlo. Infatti apparve loro di nuovo in vita il terzo giorno, avendo i divini profeti detto queste e altre innumerevoli cose  meravigliose di lui. E ancora oggi il gruppo chiamato da lui dei cristiani non ha cessato di esistere».

Il lettore attento osserverà da subito che il passo sospetto è introdotto esattamente alla maniera dell'introduzione della storia dell'incriminazione di Giuda da parte del Signore in Matteo e Marco, e di altre interpolazioni evangeliche prima notate, con l'utilizzo della frase di apertura del prossimo passo successivo. Si potrebbe quasi concludere che lo stesso interpolatore fosse stato all'opera. Ma se il lettore non è sensibile al significato di quel fenomeno, guardi alla sequenza dei paragrafi. Quello che precede il nostro paragrafo 3 riguarda una reale disgrazia che colpì gli ebrei. Quello che segue dichiara di legarsi ad un'altra. Se quella parte a sua volta (rivolta com'è ad una storia di frodi sacerdotali a Roma, e terminando così: «Torno ora alla relazione di ciò che accadde in questo periodo ai Giudei a Roma, come ho detto prima che avrei fatto») non è pure aperta al sospetto è una questione per gli editori testuali di Giuseppe. [12] Ma che il paragrafo 3 sia una falsificazione cristiana è una materia che va riconosciuta da ogni studioso delle origini cristiane. Con la sua eliminazione il testo procede come minimo in modo comprensibile. Con la sua intrusione come un resoconto di una «disgrazia che turbò i Giudei»  noi siamo costretti a riconoscere una grave incoerenza. 

Il dottor Klausner, fiducioso che Giuseppe non poteva aver chiamato Gesù il Messia oppure non poteva ammettere che egli resuscitò dai morti come i divini profeti avevano predetto, con «diecimila altre cose meravigliose cose che lo riguardano», è ancora soddisfatto di accettare il resto, non prestando nessun'attenzione agli indizi di una totale interpolazione. Albert Reville, dichiara, «sostiene giustamente che nessun interpolatore cristiano avrebbe parlato di Gesù come di «un uomo saggio» e avrebbe necessitato così dell'ulteriore interpolazione «se pure bisogna dirlo uomo». E neppure un interpolatore cristiano sarebbe stato soddisfatto di applicare a Gesù il termine generale «opere meravigliose», oppure di chiamare i suoi discepoli semplicemente «quelli che lo avevano amato»; né avrebbe dato ai cristiani proprio un nome come «razza» o «tribù» (φῦλον) con la sua sfumatura di disprezzo». 

Il valore del giudizio di un critico deve essere misurato, tra l'altro, dalle affermazioni che pone come auto-evidenti; e il valore della fiducia del dottor Klausner in questo caso si potrebbe lasciare alla valutazione del lettore. Egli sta sostenendo in effetti che nessun interpolatore cristiano di un documento ebraico si sarebbe fermato ad un passo dalle espressioni più forti del credo cristiano, sebbene più forti siano le espressioni più sicura sarebbe la sua identificazione.  

Sarebbe in realtà più plausibile suggerire che un cristiano abbastanza intelligente da falsificare qualsiasi cosa avrebbe esitato a inserire «Egli era il Cristo»; e quella espressione potrebbe ben costituire una super-interpolazione. Ma d'altra parte dobbiamo ricordare che la falsificazione doveva essere una testimonianza elogiativa se, dal punto di vista cristiano del secondo o del terzo secolo, valesse assolutamente la pena averla. Allora non si poteva prevedere che sarebbe venuto il giorno in cui gli studiosi cristiani avrebbero potuto sentirsi in vena di essere profondamente grati per un paragrafo autentico di Giuseppe che denigrasse Gesù come un falso profeta crocifisso o per aver fatto rivendicazioni messianiche oppure per aver profanato il tempio!

Così l'argomento basato sul paragrafo di Giuseppe non resta salvato in alcun modo, e non è rivendicato in alcun modo contro la massa di critiche che gli sono state sferrate da studiosi di tutte le scuole critiche. Nessun apologeta ha mai superato la consolidata conclusione negativa dal fatto che Origene nella sua risposta a Celso non cita mai una volta il passo di Giuseppe, che gli sarebbe stato di così grande valore come una testimonianza ebraica. Nessuna conclusione è criticamente possibile se non che Origene non aveva mai visto o sentito parlare del passo, che doveva essere stato inserito dopo il suo tempo.

Il fatto che Origene cita ripetutamente dal riferimento di Giuseppe a Giacomo il Giusto è la prova regina che egli non sapeva nulla dell'altro passo. E le ragioni per considerare interpolato anche quel passo prima del tempo di Origene sono irresistibili per coloro che riconoscono la natura spuria del paragrafo su Gesù. Si fa dire a Giuseppe (Antichità 20, 19, § 1) che il sommo sacerdote Anano (il secondo) «riunì il sinedrio dei giudici e condusse davanti a loro il fratello di Gesù detto Cristo, di nome Giacomo, [13] e alcuni altri; e avendoli accusati come trasgressori della legge, li consegnò perché fossero lapidati». Qui le stesse parole tradiscono una manipolazione. La menzione di Giacomo sarebbe stata la prima cosa dopo «condusse davanti a loro», in una narrazione naturale. 

È facile capire che coloro che, come il dottor Burkitt, credono che questo passo sia autentico, debbano sentirsi incoraggiati a sostenere l'altro; ma l'improbabilità della sua autenticità è così grande da essere stata avanzata da molti studiosi che non avevano nessun dubbio della storicità di Gesù. E le repliche date all'accusa di falsità da parte degli studiosi ortodossi sono non soltanto cattive in sé ma, come è stato mostrato dal professor W. B. Smith, sono realmente indicatori della loro stessa confutazione. Come scrive il professor Smith, nella raccolta di studi che ha intitolato «Ecce Deus»: 

«Le parole in corsivo sono state considerate false — a nostro avviso correttamente. Neander e altri le difendono, e McGiffert dice ('The Church History of Eusebius', pag. 127, nota 39): 'È molto difficile supporre che un cristiano, nell'interpolare il passo, si sarebbe riferito a Giacomo come il fratello del «cosiddetto Cristo»'.  Davvero! Al contrario, è proprio perché questa frase è quella riconosciuta più cristiana, evangelica e canonica che noi sospettiamo la sua autenticità in Giuseppe. La incontriamo in Matteo 1:16; 27:17, 22; Giovanni 4:25. Lo spregiativo «cosiddetto» non figura nel greco. Così leggiamo di 'Simone cosiddetto Pietro' (Matteo 4:18; 10:2); 'il sommo sacerdote cosiddetto Caifa' (Matteo 26:3), 'la festa cosiddetta Pasqua' (Luca 22:1). 'L'uomo cosiddetto Gesù' (Giovanni 9:11), 'Tommaso cosiddetto Didimo' (Giovanni 11:16; 22:24; 21:2), 'porta cosiddetta Bella' (Atti 3:2), 'una Tenda cosiddetta Santo dei Santi' (Ebrei 9:3), dove un deprezzamento è fuori questione. L'indizio è semplicemente quello di un cognome o soprannome, o nome in qualche modo peculiare o straordinario».

E il sospetto di una manipolazione cristiana della copia di Giuseppe usata da Origene (sebbene precedesse l'interpolazione in 18, 3, § 3) è altamente rafforzato dal fatto che lui cita nella sua risposta a Celso (1:47; 2:13) altri passi delle 'Antichità' che attribuiscono le disgrazie degli ebrei al crimine dell'uccisione di Giacomo il Giusto. Siccome quei passi si trovano solo in alcuni manoscritti di Giuseppe, e sono assenti dagli altri, devono essere considerati falsi; e se così fosse, la falsità del primo riferimento a Giacomo come il fratello di Cristo diventa ancora più probabile.

Perfino se non lo fosse, la frase «fratello di Gesù», come abbiamo già notato, non sarebbe nessuna dimostrazione di una consanguineità fisica. Su questi punti, non c'è bisogno di dirlo, i  difensori comuni della storicità non dicono nulla. L'intera questione relativa ai passi di Giuseppe è stata pienamente dibattuta dal professor W. B. Smith, e dal professor Drews nel suo volume su 'I Testimoni della Storicità di Gesù'. [14] Ancora oltre, il professor Smith nel suo 'Ecce Deus' avanza (come fa il professor Drews) una serie schiacciante di argomentazioni contro l'autenticità del brano di Tacito riguardante il rogo dei cristiani da parte di Nerone — argomentazioni che nessun critico storico scrupoloso ignorerebbe. Ma dagli ultimi «biografi» di Gesù non proviene nessuna allusione, nessun tentativo di contro-risposta, alle argomentazioni contro di loro. «Il loro compito non è ragionare». Il loro semplice compito è asserire.

Se il dottor Klausner fosse stato interessato a gestire in modo accademico il problema del brano di Giuseppe riguardante Gesù, avrebbe tenuto conto dell'esposizione del professor Smith della sua fraseologia del Nuovo Testamento. La frase «che accolgono con piacere la verità» punta direttamente a quelle: «ricevono la parola con gioia» (Luca 8:13); «ricevettero la Parola con ogni premura» (Atti 17:11); «ricevete con dolcezza la parola» (Giacomo 1:21). La frase «fino ad ora» punta a «fino a questo giorno» di Matteo 28:15. Alla sua stessa argomentazione per cui un cristiano non avrebbe usato un termine così generico come «opere meravigliose» per i miracoli, è una risposta sufficiente, inoltre, che «opere meravigliose» non è un'espressione più sminuente rispetto a «meraviglie» in Matteo 21:15. [15] Se fosse stato un disinteressato cercatore della verità avrebbe notato da sé quel che era stato sottolineato dal professor Smith, che il brano del paragrafo 3 è scritto in brevi frasi chiare, come gran parte del vangeli, e piuttosto dissimili dalle frasi caratterizzate dallo stile di Giuseppe. Infine, l'ultima riabilitazione dell'interpolazione di Giuseppe, cominciata con zelo venti anni fa allo scopo di respingere la tesi mitica, non fa che procedere di male in peggio, come è la sorte di tutte le difese tendenziose delle cause false. 

Dobbiamo tener conto, comunque, del tentativo già menzionato del dottor Vacher Burch di stabilire la tesi che nel suo originale aramaico Giuseppe scrisse cose che sono scomparse dalla versione greca della 'Guerra Giudaica'.  Si troverà che uno studio di quel tentativo trasmette la più forte impressione della disperazione dell'intera argomentazione basata su Giuseppe. Durante gli ultimi vent'anni gli studiosi di tempo in tempo hanno sentito parlare di quella notevole scoperta di una traduzione slavonica della 'Guerra Giudaica', in un manoscritto che «va datato in qualche punto del tardo Medioevo». I passi «cristiani» hanno cominciato ad essere discussi dagli studiosi continentali nel 1906; e nel 1924 il signor G. R. S. Mead li ha tradotti in inglese. Il testo completo non è stato ancora pubblicato; ma questo, probabilmente, ha poca importanza.

La questione scottante è relativa alla tesi che ci fossero alcuni passi in 'Guerra Giudaica' di Giuseppe, nella sua forma originale aramaica o ebraica, che erano omessi dalla sua traduzione greca; e che quelli siano conservati nella traduzione slava, la quale, ci viene detto, si può vedere che è stata fatta dall'originale. Quando arriviamo al passo principale la tesi crolla semplicemente. È visibilmente uno sviluppo del familiare passo interpolato nelle 'Antichità', con l'interessante differenza che qui si dichiara che gli Scribi hanno offerto a Pilato «trenta talenti» per uccidere Gesù, che è stato descritto principalmente alla maniera del falso passo di Giuseppe, con aggiunte, alcune delle quali sono chiaramente suggerite dai vangeli. Ricaviamo, per  esempio, l'elemento sull'abitudine di Gesù di stare sul Monte degli Ulivi; e c'è un'allusione al sogno della moglie di Pilato. 

Quanto alle ragioni per credere che Giuseppe scrisse questo brano nel suo originale e lo omise nella versione greca, ricaviamo dal dottor Burch due affermazioni, di cui è difficile dire quale sia la più fragile. La prima è che «Nessun antico cristiano avrebbe potuto scrivere ciò» e che «sarebbe una maggiore impossibilità se questo sia stato scritto da una mano cristiana dopo i primi due secoli». Non ci poteva essere nessuna asserzione più stupida. Così pretendere di limitare la possibilità della frode sia nella letteratura cristiana antica che in quella medievale è un procedimento indegno di uno studioso che sa che le frodi letterarie di quei periodi sono innumerevoli.

Ma dobbiamo solo spingere l'argomentazione del dottor Burch alle sue conseguenze per rendersi conto che costituisce per lui un espediente fatale. Se il passo non può essere stato scritto da un cristiano, ma poteva essere stato scritto da un ebreo, ovviamente avrebbe potuto essere scritto da un falsario ebreo. E il dottor Burch, come succede, ci fornisce un motivo per ammettere che un falsario ebreo avrebbe potuto forse farsi strada perfino in un documento cristiano. 

Lui ha proclamato (pag. 32) il fatto poco noto, non menzionato nelle nostre varie Bibbie, che Atti 18:4, nella versione di Codex Bezae, recita: «Ma ogni sabato entrando nella sinagoga egli [Paolo] discuteva, introducendo il nome del Signore Gesù, e persuadeva non solo i Giudei, ma anche i Greci». Una mano cristiana avrebbe potuto inventare ciò? In caso contrario, il passo deve essere un ricordo vero? E se non fosse un ricordo vero, chi più probabilmente lo avrebbe inventato, prima facie, se non un ebreo?

In verità, la via del difensore della fede è disseminata di insidie. La tesi che appare centrale nel libro del dottor Burch è che Gesù doveva essere sempre ritenuto un «Rivelatore»; che a tutto ciò che prendeva dalla precedente letteratura ebraica, canonica o non canonica, dava una qualità «rivelatoria»; e che ogni data massima morale, avanzata nelle solite parole, diventava nelle sue mani una cosa nuova. E perfino questa tesi è di vecchia data, essendo stata avanzata da Paul Janet, tra gli altri, settant'anni fa. È per il lettore critico forse la più vuota delle varianti dell'argomento a priori. Ma è forse, nondimeno, una mossa più sicura del tentativo di estrarre, da interpolazioni cristiani o ebraiche in Giuseppe, prove fresche della storicità di Gesù.

NOTE

[1] Ecce Deus, 1912, pag. 177 seq.

[2] Christianity and Mythology, 2° edizione, 1910, pag. 441 seq,

[3] Dottor Vacher Burch, Jesus Christ and His Revelation, 1927, capitolo 3. 

[4] Il testo marciano solleva una questione molto importante in relazione alla recente teoria che il Vangelo secondo Marco sia in realtà il Vangelo secondo Markion o Marcione, parzialmente rimaneggiato. Riguardo a Marcione, vien detto da Ippolito che egli negava la perfetta bontà di Cristo, e a questo proposito citava “Perché mi chiami buono?”; mentre Epifanio ci dice che Marcione leggeva “Non chiamarmi buono”. Marcione, ci viene detto, pretendeva di scegliere dal testo di Luca. Ma se “Marco” esisteva allora, perché non avrebbe dovuto citare anche Marco, in questo come in molti altri punti? Discutere il problema a questo punto confonderebbe la questione. Esso è trattato nell'Appendice. 

[5] Si veda sopra, pag. 71.

[6] Opera citata, 3° edizione, pag. 300, 348.

[7] Il professor W. B. Smith, nella Postfazione al suo Ecce Deus (pag. 339), osserva che il verso matteano 11:19 (confronta Luca 7:14), che cita il rimprovero di “mangione e beone”, da tempo gli è sembrato “di gran lunga il più plausibile che gli storicisti possano produrre”. L'astensione del dottor Schmiedel dall'impiego di questo, tuttavia, è facilmente comprensibile. È, in ogni caso, la prova di un conflitto di opinioni cristiane riguardo a se il Cristo dovesse essere o no un asceta, un “Nazirita”, o un uomo normale.

[8] Seconda edizione, 1927. 

[9] Avrebbe dovuto aggiungere che è pagano. Si veda il terzo saggio di Montaigne, che racconta una testimonianza greca di Diodoro Siculo, 13:21 (102). Il testo è notato nella R.V. come assente da diversi codici antichi; e la sua autenticità fu espressamente negata da Cirillo, contro una sua citazione di Giuliano. Si veda Neo-Platonist di T. Whittaker, 2° edizione, pag. 145.

[10] Si veda Christianity and Mythology, 2° edizione, pag. 392, e i riferimenti ivi riportati. 

[11] Antichità, Libro 18, capitolo 3, § 3.

[12] È da notare che un distinto studioso, il dottor Rudolf Steck (si veda Ecce Deus del dottor Smith, pag. 340), ha avanzato l'interessante ipotesi che Giuseppe possa aver inserito, al posto del falsificato paragrafo 3, un brano che descrive Gesù nei termini dell'ebreo “Ben Panthera”, facendolo illegittimo e un impostore; e che questo si sarebbe collegato naturalmente con il paragrafo 4. Simili suggerimenti di un “qualcos'altro rimosso” sono stati correnti fin da Renan. Ma una storia di “Ben Panthera”, sulle linee del Toledoth Jeschu, sarebbe un “pilastro” mortale per la storicità del Gesù dei vangeli. 

[13] Letteralmente “il fratello di Gesù, colui chiamato Cristo (Giacomo era il suo nome)”. Si veda sopra, sezione 1, quanto all'intero problema.

[14] Traduzione inglese R. P. A., 1912.

[15] I termini greci sono diversi, ma i significati sono gli stessi, come testimonia la nostra versione.

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