martedì 9 marzo 2021

LA RESISTENZA ALLA TESI MITICAAttività recenti

 (segue da qui)

PARTE IV

LA RESISTENZA ALLA TESI MITICA

I. — ATTIVITÀ RECENTI

Goguel; Wright; Klausner; Warschauer

Non sarebbe esagerato dire che durante gli ultimi venticinque anni, a parte argomenti accademici da parte biografica, l'opposizione diretta alla tesi mitica nelle sue forme moderne è consistita principalmente nel dire (1) che la Chiesa cristiana e il credo non possono essere sorti se non sulla base storica di un'unica personalità carismatica; (2) che nessun teologo di importanza ha accettato la tesi mitica; e (3) che di conseguenza essa è «esplosa». Chiunque sia capace di realizzare la natura di un'argomentazione riconoscerà che quelle affermazioni non equivalgono proprio per niente a confutazioni. La prima ridicolizza semplicemente il problema. La seconda è semplicemente una dichiarazione del fatto che gli studiosi di teologia nella maggioranza rifiutano di accettare una tesi che proverebbe che essi hanno puntato la loro carriera su un'illusione: il che è esattamente quello che si attendevano almeno alcuni proponenti della tesi mitica. La terza è un vuoto appello «al popolo». La maggior parte del materiale dei vangeli in realtà è rinunciato dagli studiosi che sono rivendicati come negatori della tesi mitica. 

Inoltre, è importante che lo studioso realizzi che, a parte alcuni studiosi coscienziosi che non hanno tentato nessuna confutazione dettagliata, e che per la maggior parte fabbricano semplicemente nuovi argomenti per il caso della storicità, la resistenza esplicita alla tesi mitica è condotta da rumorosi censori che o non l'hanno studiata affatto (il caso comune) oppure lo hanno fatto solo frettolosamente. Il defunto dottor F. C.Conybeare, che non era un miticista, non ha fatto che travisarla sprezzantemente in certi punti isolati, sui quali gli è stato risposto più che ampiamente. Il reverendo Canon Streeter, che rimanda i suoi lettori alle presunte confutazioni di altri uomini, non fa più neppure finta di aver studiato per sé la letteratura più di quanto finga di imitare la cortesia che caratterizza gli studiosi che hanno fatto così. Non gli si può nemmeno accreditare quello che lui assegna amabilmente ad alcuni sostenitori della tesi mitica — una «conoscenza superficiale e di seconda mano». A questo proposito egli non sembra avere nessuna informazione di sorta.

La grande eccezione alla regola della scortesia tra coloro che respingono esplicitamente la tesi mitica è il recente lavoro del professor Maurice Goguel; [1] e a lui è dato giustamente il primo posto in questa rassegna. È in ogni modo soddisfacente che la difesa dovesse essere intrapresa da un tale studioso così altamente qualificato e da un tale cortese contendente. Di tutti i trattati espressamente difensivi prodotti finora, il suo è il più — si potrebbe dire, è quasi il solo — caratterizzato da una perfetta piacevolezza di carattere. Lui stesso un critico «avanzato» dei documenti, non assume arie pontificie e non prova nessuna malizia teologica, accontentandosi di sostenere le questioni principali, come le vede, nello spirito della scienza storica. Possiamo quindi congratularci con noi stessi per avere il meglio che si possa dire per la difesa in questa fase del dibattito; e questo in una traduzione competente.

In un certo senso, infatti, il libro del prof. Goguel sarà trovato deludente dagli studiosi. Sebbene egli illustri a grandi linee la tesi mitica, egli non la esamina nei dettagli, e in effetti non sembra averla studiata. Così riguardo ai lavori del presente scrittore ha la nota: «Relativamente a Robertson, si veda Schweitzer (Gesch.); Guignebert, pag. 88». Ma Schweitzer per sua ammissione non legge un testo in inglese, oppure può leggerlo solo con difficoltà; e di certo non aveva letto i lavori in questione, di cui dà una falsa rappresentazione troppo assurda per essere derivata da qualche conoscenza. Il prof. Goguel, tuttavia, è titolato senza dubbio per abitudine dei teologi a seguire l'indirizzo che prende, che è quello di appoggiare semplicemente la sua argomentazione a supporto della storicità di Gesù sulla base dei documenti contestati, dal punto di vista dei profondi principi di evidenza storica.

Seguendo questo indirizzo, M. Goguel compromette alquanto il suo caso sostenendo, in un oscuro paragrafo (pag. 29), che la presentazione avanzata dal signor Couchoud del caso di Gesù come unico, e perciò come un enigma per lo storico, sia in effetti un tentativo di proibire alla Storia la «trattazione di grandi personalità, e per escludere dal suo dominio un Giulio Cesare, un Maometto, un Lutero e un Napoleone, e così per sopprimere uno dei fattori più importanti sull'evoluzione umana».  Questa è una ignoratio elenchi. Le persone nominate non sono in alcun senso enigmatiche al modo in cui lo è il Gesù evangelico. Un distinto esperto francese ha dichiarato al presente scrittore che il problema della storicità di Gesù è insolubile, perché «non ci sono documenti» — cioè, non ci sono documenti storici, propriamente detti. Questo non si può dire forse di nessuno dei quattro personaggi nominati da M. Goguel.

Quando lui arriva al documento quasi-storico, M. Goguel è costretto, da onesto studioso, ad ammettere che c'è solo un argomento logico per una menzione originale di Gesù da parte di Flavio Giuseppe; e che, se il passo interpolato nel Libro 18 delle 'Antichità' è rimosso interamente, i paragrafi precedenti e seguenti «sono in perfetto legame l'un con l'altro».  Sorprendentemente debole, comunque, è la sua affermazione (pag. 47) che Giuseppe in realtà mantenne il silenzio sul soggetto del Cristismo perché «questo culto costituiva una minaccia per Roma». Il Gesuismo fu mai una minaccia ? Non era lo stesso ebraismo molto più una minaccia per Roma in Palestina? Quella giustificazione equivale in realtà soltanto ad una maggiore ridicolizzazione del problema relativo allo status del Cristismo quando Giuseppe scriveva. L'intera difesa fondata su Giuseppe e sugli autori latini, in realtà, resta nelle mani di M. Goguel più debole che mai; e la difesa si rivolge per la forza della sua argomentazione alla sua manipolazione a priori delle probabilità e delle improbabilità. 

E anche qui, quando arriviamo ai primi problemi concreti, troviamo che in effetti ridicolizza la questione. Così riguardo al problema dei tre cognomina di Gesù — «il Nazirita», «il Nazareno», e «di Nazaret» (tutti ugualmente assenti dalle Epistole e dall'Apocalisse) — egli dichiara (pag. 52, nota): “È impossibile associare la parola Nazareno all'idea della setta [ebraica nazirita], poiché la tradizione cristiana......ha conservato un chiaro ricordo del fatto che Gesù non era un asceta come Giovanni il Battista».  Ma la storicità della tradizione cristiana è la cosa in discussione! La tradizione preserva entrambi gli aspetti incompatibili. Qui emerge il problema tattico provocato dall'ignoranza dei dettagli della tesi mitica. Parte di quella teoria è che le storie anti-ascetiche sono tentativi deliberati di deviare il cognomen dal suo significato originale a quello comportato dalla formula «di Nazaret». M. Goguel ammette che i discepoli di Giovanni il Battista erano chiamati Nazariti, e conclude che i nomi «Nazareno» e «Cristiano» erano dati ai Gesuisti dai loro avversari. Allora diventa più forte l'argomentazione a supporto della tesi che la storia e il cognomen di Nazaret siano miti deliberati. 

Rientra nel metodo di M. Goguel che il suo tentativo di spiegare le storie evangeliche del culto del Nome di Gesù praticato dove non vi erano stati i discepoli è abbastanza insoddisfacente. A volte egli potrebbe essere parzialmente giustificato (come a pag. 60) nell'accusare i miticisti di qualcosa di simile ad una ridicolizzazione del problema, come quando si afferma che un termine è usato simbolicamente (sebbene il simbolismo sia asserito anche dagli storicisti); ma in realtà il giudizio che la concezione paolina di Gesù «non contiene alcun elemento storico» non è una ridicolizzazione del problema, ma una spiegazione giustificabile delle lettere paoline come documenti. Anche così tanti sostenitori della tesi mitica prendono per garantita la priorità di Marco che M. Goguel non si espone ad una critica particolare per questa presa di posizione; ma quell'assunzione è nondimeno un elemento arbitrario nell'argomentazione a sostegno della storicità. Al pari dei nostri esperti inglesi, lui ignora l'argomento di Hermann Raschke secondo cui il Vangelo di Marcione era proprio «Marco». E quando sostiene (pag. 72) che prima che fosse cominciata la compilazione dei Vangeli «vi esisteva una tradizione orale capace di preservare i fatti con notevole fedeltà», egli mette a dura prova l'argomento della probabilità in un modo illuminante. 

La sua argomentazione è forse al suo meglio quando sostiene, come hanno fatto alcuni illustri razionalisti, che l'assenza apparente di una negazione ebraica (contro i Vangeli) della storicità di Gesù sia una dimostrazione della stessa. E invece noi troveremo [2] questo argomento assolutamente smentito da uno studioso rabbino che nondimeno afferma la storicità di Gesù. Ma proprio in questo punto M. Goguel commette una contraddizione sconcertante. Dopo aver presentato l'affermazione alle pagine 70-71, lui procede a trattare l'argomento di S. Reinach basato sulla dottrina dei Doceti, e commenta (pag. 78): 

«A questa tesi il signor Couissin obietta giustamente che la risposta alla negazione ebraica sarebbe stata senza efficacia, visto che gli ebrei negavano quello che affermavano i Doceti — vale a dire, che Gesù era stato visto e udito, come un'illusione o altro».

Così quando M. Goguel insiste che «gli ebrei» negavano davvero che Gesù fosse stato visto e udito, come può sostenere pure che loro, o alcuni di loro, non negassero la storicità di Gesù? Egli lascia totalmente sconcertato un lettore critico. 

Poco meno sfortunata è la sua tentata risposta all'argomento del signor Reinach secondo cui l'Epistola di Ignazio ai Filadelfiani prova che la storicità di Gesù era stata negata in quel periodo. Il passo su cui si basa è dato così:   

«Ho ascoltato alcuni che dicevano», scrive Ignazio: «Se non trovo (una certa cosa) negli archivi, nel vangelo io non credo. Io risposi loro: sta scritto (nell'Antico Testamento), ed essi di rimando: 'Proprio quello è il problema'. Ma per me gli archivi sono Gesù Cristo, la Sua croce, la Sua morte, la Sua resurrezione e la fede che viene da Lui».

La traduzione è del signor Reinach; e M. Goguel è abbastanza liberale da scrivere: «Il testo del passo non è certo. Per amor di discussione noi accettiamo quello di Reinach». Ai fini investigativi avrebbe fatto meglio a non farlo. Il passo dato è ricostruito piuttosto liberamente, e arriva dalla «recensione più lunga», mentre molti studiosi affermano che solo la recensione più corta sia autentica.

Ma se la lettura del signor Reinach è accettata, la difesa di M. Goguel è un fallimento. Lui manca del tutto il punto, come avanzato dal signor Reinach, riguardante la testimonianza dell'Antico Testamento. Il punto è che gli avversari (che M. Goguel suppone stranamente avessero negato che ci fosse qualche testimonianza dell'Antico Testamento) dichiararono quella stessa «testimonianza» distruttiva del credo nella storicità. «Voi sostenete», dicono in effetti a Ignazio, «sulla base delle profezie. Questo è proprio il problema. La storia evangelica di Gesù è apparentemente una semplice costruzione dalle profezie. Noi vogliamo una reale prova storica. Dov'è?» 

Difficilmente è necessario aggiungere che, a causa della sua tattica critica, M. Goguel non fa alcun tentativo di esaminare l'argomento mitologico relativo alla storia di Barabba. Quell'argomento è che la storia in questione è chiaramente non-storica, come ammette con riluttanza il signor Loisy, ed è comprensibile solo come un tentativo di affrontare una protesta ebraica secondo cui il Gesù umiliato e crocifisso dei vangeli è visibilmente un'elevazione ad uno status indipendente del «Gesù Barabba» di un antico e familiare rituale annuale. Mentre tali problemi vengono ignorati, l'argomentazione di M. Goguel resta fatalmente incompleta perfino come una plaidoirie.

D'altra parte, M. Goguel fa alcune ammissioni abbastanza fatali, senza accorgersene. Così a pag. 176 scrive che «L'identificazione di Gesù con l'agnello pasquale, in realtà, è comune nel cristianesimo antico. È antichissima, poiché è già trovata nella prima Epistola ai Corinzi». Il «poiché» è un esile fondamento; ma l'affermazione è veramente una capitolazione alla tesi mitica. In che modo l'impressione della grande Personalità eccezionale di un maestro avrebbe dovuto finire assorbita proprio fin dall'inizio nel concetto dell'agnello pasquale?

Abbiamo di nuovo (pag. 208) questa concessione alla tesi mitica: «È concepibile che la tradizione delle parole e dei detti di Gesù possa essere stata arricchita da aforismi o da dichiarazioni che in origine non gli furono attribuiti [ad esempio Atti 11:16, riferimenti errati in Goguel)], ma noi siamo incapaci di scoprire con certezza qualsiasi fatto di questo tipo nella tradizione evangelica. Inoltre, si sarebbe trattato soltanto di una questione di accrescimento, e avrebbe presupposto l'esistenza della tradizione evangelica». Dobbiamo ribattere con enfasi che non la avrebbe presupposto: avrebbe presupposto soltanto l'esistenza di un numero di Logia Jesou. Il professore sta di nuovo avanzando un'argomentazione circolare. La tesi mitica ipotizza la diffusione precedente del nome Gesù come divino, un risultato di un culto del Dio Eroe di antica data. Fa parte di quella tesi il fatto che i Logia Jesou sarebbero stati correnti; e, una volta iniziati, si sarebbero moltiplicati. M. Goguel non si rende conto del problema.

Inoltre, il suo motivo per cui non possiamo essere sicuri di logia inventati nei vangeli è smentito da una grande quantità di testimonianza critica. Assolutamente ogni critico progressista di una qualche importanza ammette la non-autenticità di un numero di detti gesuani nei vangeli. Ma la cosa decisiva è il Discorso della Montagna. Quando si realizza che quel documento, in sostanza, costituisce un'attribuzione a Gesù di detti morali che erano correnti molto prima del tempo assegnatogli, la pretesa di una «tradizione precedente» di detti del Gesù evangelico diventa assurda.

Altrettanto infelice è l'asserzione di M. Goguel (pag. 80 nota) che «la maggioranza di coloro che negano la natura storica di Gesù ripudiano la testimonianza delle epistole di Paolo. Il signor Couchoud è l'unica eccezione». Qui il professore rivela sicuramente la piccolezza della sua conoscenza della letteratura della tesi mitica. Né il professor W. B. Smith né il presente scrittore la hanno scommessa in un ripudio generale della «testimonianza delle Epistole di Paolo». Come lui ammette, il professor Drews sostiene solamente che certi passi (come 1 Corinzi 11:23) siano interpolati. Ma così sostengono numerosi esegeti professionisti che non respingono la storicità di Gesù. Così ha sostenuto il presente scrittore prima di rifiutarla. E, come vedremo, [3] quella «testimonianza» interpolata è distrutta come testimonianza (anche per l'ammissione di un campione storicista) dal fatto che si fa credere che Paolo parli di una rivelazione soprannaturale. 

A questo proposito, M. Goguel si compromette in difficoltà insuperabili. Ammettendo che l'espressione di Paolo «Io ho ricevuto» recasse tale pretesa, egli ricorre anche qui all'illecito espediente di fingere che essa «presupponga» una tradizione umana. Cosa allora, da quel punto di vista, dovrebbe indurre Paolo ad ignorare le prove in questione? Che il passo sia un'interpolazione redatta due volte è l'unica soluzione che la libera dall'accusa di puro ciarlatanismo. Paolo, come lui ammette, credeva in un Gesù pre-esistente. M. Goguel pensa di liquidare l'argomento affermando (pag. 87) che «Le controversie tra Paolo e gli apostoli di Gerusalemme stabiliscono che questi ultimi si vantavano di essere stati testimoni della vita di Gesù — un fatto che Paolo non contestava». Questa è pura ipotesi: né il vanto né l'ammissione è in evidenza; e il vanto, a fronte del caso, sarebbe stato inutile. Molte migliaia di persone, secondo i vangeli, erano stati definiti testimoni

La svista più curiosa di M. Goguel è la sua completa mancanza di riconoscimento del significato della storia della discesa dello Spirito Santo (Atti 1-2). Se si pensava veramente che gli apostoli avessero avuto una pretesa decisiva nella misura in cui avevano «testimoniato» la vita e la morte di Gesù (di cui si dichiarò che loro lo avevano abbandonato tutti), perché quella finzione del miracolo dello Spirito Santo? All'occhio del miticista, è tutto un manifesto processo di finzione su finzione. Ma per lo storicista, quale è la soluzione? Evidentemente gli inventori sentivano che l'apostolicità degli apostoli aveva bisogno di una conferma speciale; e diventa un problema interessante se fosse venuta per prima la rivendicazione di Paolo oppure la rivendicazione dei giudaizzanti del «dono dello Spirito Santo». Ma, ad ogni modo, la tesi dell'ammissione da parte di Paolo della «testimonianza della vita del suo Gesù pre-esistente» va a farsi benedire.

Quando, di nuovo, egli avanza l'argomento familiare delle allusioni epistolari a «i fratelli del Signore», egli quasi dà diritto a quelli della sua stessa parte di rimproverarlo per il mancato riconoscimento della gravità della difficoltà creata dall'interpretazione ortodossa. [4] In che modo possiamo riconciliare con le storie evangeliche del ripudio di Gesù da parte di tutti i suoi parenti l'assunzione che i «fratelli» delle successive allusioni fossero realmente i suoi fratelli nella carne? Essi non compaiono negli Atti tranne che in 1:14, dove appaiono momentaneamente e inspiegabilmente con «le donne» e Maria, tutte da lì in poi del tutto scomparse dall'azione. Quando mai, allora, tali fratelli raggiunsero o potevano raggiungere uno status autorevole nel culto? Solo come il titolo di gruppo di una «confraternita» il termine è comprensibile. Penso di poter fornire a M. Goguel un argomento migliore per il suo scopo di quello che lui impiega. Ma egli potrebbe ben mormorare, ad un tale offerta, «et dona ferentes»; e siccome l'argomento non sarebbe valido in definitiva, sarebbe stato meglio che non fosse specificato.

A volte, infatti, leggendo M. Goguel, quasi si dispera di stabilire con lui qualche logico terreno comune, eventuali principi di giusto ragionamento, così sorprendentemente egli estrae prove da quel che è piuttosto fatale all'affermazione che sta facendo. Lui afferma, ad esempio, che il testo marciano (12:37; anche  Luca 20:44) in cui Gesù nega la discendenza davidica del Messia scritturale è «fuori questione» relativamente all'autenticità, «perché il testo va direttamente contro la concezione di un Messia davidico ricevuto universalmente nella Chiesa sin da Paolo». Si dispera di seguire tale ragionamento. Esso afferma (1) che Gesù ripudiò di certo la discendenza davidica; (2) che Paolo lo sapeva, che questo deve essere stato proclamato dagli apostoli se il testo è autentico, tuttavia deve essere stato assolutamente trascurato; (3) che la dottrina davidica di Paolo espulse completamente la dottrina anti-davidica sia nelle comunità gentili che nelle comunità giudaizzanti; e (4) che Marco deve essersi messo a scrivere un vero detto perché nessuno lo accettò!

Il professore non può vedere che il logion anti-davidico è solo parte della battaglia a suon di testimonianze fittizie tra due fazioni? Che la visione anti-davidica è un argomento messo in bocca a Gesù da un creatore del vangelo o da un interpolatore in un tempo quando la visione davidica non era benvenuta nei circoli cristiani gentili? [5]  Che, in effetti, è un logion tanto chiaramente fittizio quanto ogni altro del Nuovo Testamento? Nella sua visione di un credo «universale» pro-davidico, come mai anche Luca arrivò a darlo? Egli pretende sul serio che Luca desse qualunque cosa da lui trovata?

Evidentemente è vano fare simili appelli a M. Goguel; e proprio per quella stessa ragione nel complesso la sua difesa, nonostante la sua ammirevole piacevolezza, non ha nessun peso per uno studioso razionale della tesi mitica. Egli è in realtà al vecchio punto di vista a priori quando conclude dicendo che «la realtà storica della personalità di Gesù ci permette da sola di comprendere la nascita e lo sviluppo del cristianesimo, che altrimenti rimarrebbe un enigma e, nel vero senso della parola, un miracolo». La risposta sufficiente ad una tesi simile è che in base all'opinione di M. Goguel i culti di Jahvè, di Zeus, di Atena, di Mitra, e di Dioniso non possono mai essere esistiti davvero, poiché nessuno pretende che quelle divinità fossero principalmente personaggi storici. 

Quando, allora, si trova un teologo che afferma negli Expository Times, dopo un'ammissione della «persistente evasione di problemi da parte dei teologi», che «le opinioni di Drews, di W. B. Smith e di J. M. Robertson sono ora generalmente screditate tra investigatori seri e competenti», [6] noi constatiamo il pronunciamento come un brutum fulmen. L'avverbio «ora» è inteso a ingannare. Nessuno scrittore che ha accettato la tesi mitica sarebbe mai stato riconosciuto dal teologo in questione come un «investigatore serio e competente»; e l'allusione implicita secondo cui alcuni di questi in passato hanno accettato chi ora respingono, è una suggestio falsi. «È qualcosa», continua questo scrittore, «il fatto che la storicità di Gesù sia accettata come posizione stabilita perfino tra gli investigatori storici più 'avanzati' dei vangeli». Il miticista non ha che da rispondere che i suoi negatori in generale non sono «gli investigatori storici più avanzati», e che il signor Wright non si è mostrato neppure lui un «investigatore serio e competente». Ha semplicemente proferito calunnie invece di argomentare. 

L'affermazione ulteriore che «il professor Maurice Goguel di Parigi ha scritto di recente un libro in cui espone i motivi per cui il modernista protestante respinge la tesi del mito di Cristo di pochi critici eccentrici» è della stessa vacua natura. Il presente scrittore ha «esposto le ragioni» per descrivere anche il lavoro cortese e moderato del professor Goguel come una prestazione mediocre sebbene accurata, non basata su nessuno studio adeguato della tesi mitica, ed equivalente in effetti soltanto ad una riasserzione dell'affermazione a priori. Quell'affermazione è infine riconosciuta essere l'intera specialità del signor Wright. «Il mio secondo suggerimento», annuncia, «è che dietro il cristianesimo e dietro i Vangeli c'è una grande e travolgente personalità di bontà, di verità e di bellezza» — la vana asserzione che noi abbiamo udito un centinaia di volte, e che era stata avanzata in maniera di gran lunga più impressionante dal dottor Burkitt molto prima del signor Wright. 

Dopo la sua fiduciosa assicurazione ai lettori dell'Expository Times nel 1926 che la tesi mitica è stata «screditata», il signor Wright ha ritenuto opportuno contribuire al Modern Churchman nel 1927 con un articolo in cui si impegna, ciò nonostante, a confutarla. Ripetendo principalmente gli argomenti del professor Goguel, non fa nessun tentativo di affrontare le critiche che sono state passate su di loro, non dicendo niente del fatto che la tesi a priori invocata alla fine dal Prof. Goguel è respinta dal professor Van den Bergh van Eysinga: proprio come cita daccapo la sceneggiata del dottor Conybeare senza badare alle confutazioni di quella sceneggiata. Per tali combattenti come il signor Wright, è sufficiente dichiarare che il dottor Conybeare accusò i miticisti di perpetrare «strafalcioni», senza specificarli; e senza menzione del fatto che il dottor Conybeare era colpevole di errori su materie del Nuovo Testamento che sarebbero state screditabili da un catechista domenicale.

Oltre a ribadire verbosamente l'affermazione a priori, su cui è apparentemente incapace di ragionare, il signor Wright contribuisce al dibattito solo con una replica dell'argomento di M. Goguel secondo cui il silenzio di Giuseppe era perfettamente naturale, e che è «più imbarazzante per i miticisti che per i loro avversari». [7] Se il signor Wright si rivolgesse al lavoro del suo alleato il dottor Klausner, troverà questo studioso spiegare [8] che la tragedia di Gesù fece un'impressione troppo piccola per essere ricordata; mentre il professor Burkitt, al contrario, ritiene autentica la testimonianza di Flavio Giuseppe. L'«imbarazzo» in realtà non risiede tra i miticisti. Ma quando il signor Wright si appella anzi al ritratto che fa Anatole France di Pilato come colui che non ebbe nessun ricordo di Gesù, ci induce a domandarci se sa veramente quando lui sta smentendo la sua stessa argomentazione.

Anche l'argomentazione negli Expository Times è seguita da un'ammissione che involontariamente confuta l'intera argomentazione del signor Wright. «Io so», continua, «che quelle frasi [relative alla necessaria Personalità] potrebbero essere usate per nascondere difficoltà. Ma faccio questa seconda asserzione allo scopo di esporre la mia divergenza da quelli che, pur accettando la storicità di Gesù, mi sembrano fare di Lui una figura alquanto irrilevante». Che equivale a dire, ci sono studiosi, presumibilmente «investigatori seri e competenti» (altrimenti il signor Wright li avrebbe sicuramente liquidati con una delle sue facili formule), che vedono nei vangeli una figura storica che non è «una personalità grande e travolgente». Allora la posizione che una personalità del genere sia richiesta per rendere conto dell'evoluzione ecclesiastica è negata non solo dai proponenti della tesi mitica ma da alcuni teologi descrivibili come investigatori seri e competenti. Di quale valore, allora, è l'appello al consenso dei teologi di professione?

Si dice che la dottrina di Harvey sulla circolazione del sangue non fu accettata ai suoi giorni da nessun medico oltre i quaranta. Cioè, a grandi linee, esattamente quello che ci si aspettava, soprattutto vedendo che lo stesso Harvey impiegò molto tempo a vedere la semplice deduzione (per noi) dai fatti che erano stati accertati prima di lui. Che i «Modernisti protestanti» non debbano essere in grado di accettare la tesi della non-storicità del Gesù è un fenomeno della stessa natura; e la deduzione del signor Wright da ciò rientra nel modo ordinario del paralogismo teologico. Il vero studioso riconoscerà subito, in primo luogo, che l'asserzione a priori non conta nulla; e, in secondo luogo, che è inutile ricorrere in un dibattito simile al conteggio delle teste. Galileo non era facilmente disposto a quel piano semplice, come a sua volta si aspettava di essere. Come dato di fatto, c'è una testimonianza accademica dell'ampia accettazione della tesi mitica. Decine di segnalazioni accademiche hanno ammesso la profondità di gran parte del ragionamento dei professori Drews e W. B. Smith; e il professor Van den Bergh van Eysinga si schiera al fianco dei suoi connazionali Pierson, Loman e Bolland. Venti anni fa il professor Schmiedel di Zurigo ha scritto, in una conferenza su 'Gesù nella Critica Moderna', che «per circa sei anni l'opinione che Gesù mai veramente visse ha guadagnato un numero sempre crescente di sostenitori. Non serve a niente ignorarla o promuovere risoluzioni contro di essa nelle riunioni dei non teologi». [9] Che il numero di sostenitori sia notevolmente aumentato in questi vent'anni difficilmente sarà contestato da qualsiasi non-teologo istruito, o anche da teologi ben informati.

Eppure questo non prova nulla. Nello stesso periodo c'è stato probabilmente un incremento notevole del numero (in proporzione) di Spiritualisti e credenti nella «Scienza Cristiana», per non dire nulla dei credenti nel comunismo. La domanda per il serio studioso non è Quali sono i numeri? ma Quali sono gli argomenti? E per i sostenitori della tesi mitica — che non sono d'accordo in tutti i loro argomenti — è sicuro dire che loro non desiderano nessun assenso salvo quello degli studiosi che hanno valutato entrambi i lati del dibattito. La loro principale difficoltà è stata quello di trovare nuovi antagonisti che avanzassero delle argomentazioni al di là delle formule retoriche notate sopra. 

Ultimamente, comunque, nonostante la suggestiva astinenza del signor C. J. Wright, alcune argomentazioni sono state esposte; e uno è disposto a dire che esse indicano l'inizio della fine della difesa tradizionalista. Una delle ultime argomentazioni è quella avanzata dal dottor Warschauer nella sua 'Vita Storica di Cristo', [10] dedicata al dottor Albert Schweitzer e introdotta, sebbene non promossa, dal professore F. C. Burkitt. Niente nell'intero dibattito, forse, rivela più disastrosamente la bancarotta argomentativa dei conservatori più fiduciosi, che eppure presuntuosamente passano per «investigatori seri e competenti». Nell'incipit del suo lavoro, il dottor Warschauer si compromette così:

 «Riteniamo inutile trattare quelle aberrazioni della critica che mirano a ridurre la figura di Gesù Cristo al mito o alla finzione; l'assurdità di tali tentativi è troppo manifesta per richiedere una confutazione. Vorremmo semplicemente rammentare al lettore che, perfino se nessuno dei vangeli fosse arrivato fino a noi, dovremmo avere una inconfutabile e dettagliata testimonianza del Gesù storico nelle Lettere dell'Apostolo Paolo, scritte nel quinto e sesto decennio del primo secolo da uno che conobbe da vicino uomini che erano stati essi stessi in termini di intimità personale con nostro Signore. Da quelle Epistole sole dovremmo aver appreso che un potente Personaggio dal nome di Gesù, molti dei cui discepoli sopravvivevano ancora (1 Corinzi 15:6), era stato a esercitare di recente una notevole attività in Palestina; che tra i suoi molti seguaci vi era stata una cerchia interna di dodici (ib. verso 5), alcuni dei quali egli nomina (Galati 2:8, 9) come conosciuti di persona da lui, come lo fu anche uno dei fratelli del Signore, Giacomo, che occupava una posizione prominente nella chiesa primitiva (Galati 1:19; 2:9), essendosi unito alla cerchia degli Apostoli; che la sua comunità credeva che Gesù fosse il Messia o Cristo......che i Suoi discepoli erano convinti che egli Si fosse manifestato a loro ripetutamente dopo la sua morte (ib., 15:5-8); e che il suo ritorno fu anticipato da loro nel prossimo futuro, in base all'autorità delle sue stesse promesse (1 Tessalonicesi 4:15-17). Le Epistole paoline sono sufficienti, e più che sufficienti, per sbarazzarsi del cosiddetto 'mito di Cristo'».

Si osservi che Paolo viene citato qui come una prova della storicità di Gesù tramite una testimonianza della sua resurrezione, che il dottor Warschauer non crede abbia avuto luogo; e che la testimonianza è dichiaratamente quella di uno scrittore che a sua volta non aveva creduto alla resurrezione quando fu proclamata dai presunti testimoni. Non contento di questo gioco di prestigio delle «prove», il dottor Warschauer sostiene la menzione di una «eccezionale attività» di cui non c'è nessuna testimonianza di sorta nel documento citato. Inutile dire che non per un momento si dà rilievo alla tesi, ora comune tra gli studiosi, che il passo paolino citato costituisce una di due interpolazioni flagranti e affini nell'epistola. Ma quelle sono piccole cose a confronto con l'atto di auto-distruzione argomentativa di cui l'esposizione sopra citata rappresenta il primo passo. 

Passando da quella oziosa parodia di un argomentazione che il dottor Warschauer deve sapere è familiare ad ogni studioso, ed è stata ripetutamente confutata, procediamo a pagina 305 del libro del dottor Warschauer. Là deve trattare il racconto paolino dell'istituzione del Sacramento, che lui non accetta come storica; ed egli si compromette così:

«È una singolare circostanza che nell'introdurre il racconto di quel che accadde nella notte in cui Gesù fu tradito (1 Corinzi 11:23) Paolo non dice di aver appreso i fatti degli altri apostoli, ma fa uso della formula davvero impressionante, 'Io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso'......(Confronta Galati 1:12). Vale a dire che, lungi dall'invocarla, egli ripudia l'autorità umana, sia per il suo insegnamento in generale che per il suo racconto dell'istituzione della Cena del Signore in particolare, ma dichiara che la sua conoscenza gli è arrivata tramite canali soprannaturali». 

Come il dottor Warschauer è abbastanza bravo ad ammettere per implicazione, questo è valido solo per i fedeli; e lui procede a suggerire, naturalmente con cautela, che la storia è una finzione, e che il Sacramento in realtà proveniva dall'esterno. Non gli viene in mente di suggerire un'interpolazione: lascia Paolo accusato di invenzione. Ritornando ora all'esordio citato prima, ci rendiamo conto che il dottor Warschauer si è ritrovato lui stesso, per il suo respingimento della tesi mitica, proprio sul tipo di prova che, verso la sua conclusione, egli ammette come priva di valore.

Infatti il passo 1 Corinzi 15:6, che lui presenta innanzitutto come «inconfutabile......testimonianza del Gesù storico», è introdotto da quella stessa formula: «Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto», che, come confessa in seguito il dottor Warschauer inconsciamente, «ripudia l'autorità umana» e rivendica passivamente una conoscenza tramite canali soprannaturali.  

Così il «biografo» ha scommesso la sua argomentazione a favore di un Gesù «storico» su un pezzo di testimonianza che poi ammetterà, nel rispetto del suo dichiarato soprannaturalismo, non essere di nessuna validità per scopi storici. Il commento su una tale esposizione non è una mera replica della palese accusa di «assurdità» mossa dallo scrittore. Né è un'allusione al fatto che egli sta coscientemente mentendo; infatti questa consapevole sciocchezza sarebbe troppo pericolosa da parte di qualsiasi pubblicista aperto alle critiche. Il giusto giudizio è che il suo cervello non funziona correttamente. Lui semplicemente non può «coordinare i suoi pensieri». Per quanto riguarda la storia paolina dell'Ultima Cena come una deliberata fabbricazione, lui, se la sua mente funzionasse correttamente, non avrebbe potuto citare alcun passo paolino per provare una verità storica. Ma i suoi processi mentali sono così totalmente incoerenti che non solo crede così lui stesso, ma in realtà si basa su una forma di asserzione che subito egli ammette, per la sua forma, cancellata per ogni scopo di dimostrazione storica. 

E tale è l'ignoranza critica e l'incompetenza raziocinante del giornalista medio e del chierico medio che un'iniziativa che è un mero collasso dell'argomentazione, una auto-confutazione della sua stessa tesi, passa tra loro per un valido contributo ad un grande dibattito; e si dichiara che la tesi mitica, che è stata sottoposta ad un piccolo polverone, è stata ancora una volta «esplosa».

Ma anche il dottor Warschauer è stato parzialmente superato. Deplorevole com'è il suo suicidio dialettico, ha diritto a credito per il suo coraggio. Ha almeno avanzato un'argomentazione. Ecco a malapena i commenti suggeriti dalla 'Vita' immediatamente precedente dello studioso ebreo, il dottor Joseph Klausner di Gerusalemme, il cui 'Gesù di Nazaret' [11] è stato acclamato, con alcune manifestazioni di dubbi, da un certo numero di tradizionalisti contenti di un sostegno ebraico alla storicità di Gesù, sebbene al prezzo di critiche spiacevoli. Ricavano questo da lui:

«Durante il periodo (cinquant'anni o meno) che intercorse tra la morte di Gesù (alla data approssimativamente ricordata dai vangeli canonici) e l'età di Giuseppe  e del rabbino Eliezer ben Ircano, oppure tra Paolo e Tacito, era abbastanza impossibile per una presentazione puramente fabbricata della figura di Gesù aver fatto presa così fermamente sull'immaginazione della gente al punto che storici come Giuseppe e Tacito, e uomini come il rabbino Eliezer ben Ircano (che era così cauto nel trasmettere quel che aveva sentito dai suoi maestri), dovessero credere alla sua esistenza e tutti quanti riferirsi a lui come ad uno che aveva vissuto e operato piuttosto di recente e si era fatto amici e discepoli; oppure che Paolo dovesse aver avuto un credo così completo in lui e non dubitare mai che Giacomo fosse il fratello, [12] e Pietro e i suoi compagni i discepoli, di Gesù».

«Così tanto è chiaro; e quelli che negherebbero completamente non semplicemente la forma che Gesù assume ora nel mondo o quella che egli assume secondo i Vangeli, ma anche la sua stessa esistenza e la grande importanza positiva, o negativa, della sua personalità — questi uomini negano semplicemente qualsiasi realtà storica». [13]

Lo studioso ebreo ha evidentemente appreso il fatto suo dai suoi emuli cristiani: «andrà duro ma migliorerà l'istruzione». Se loro diffamano, egli li emulerà. Senza dubbio supponeva di star avanzando una sequenza di argomenti; sfortunatamente egli condivide la normale debolezza del devoto, nella misura dell'incapacità a realizzare la differenza tra un sequitur ed un non-sequitur. E anche lui volge le  sue pistole contro sé stesso, per non dire nulla della sua discussione sulla tesi mitica senza conoscerne le posizioni.

1. Annunciando vagamente che i suoi avversari «negano qualsiasi realtà storica» — nel qual caso difficilmente ha bisogno di preoccuparsi di discuterne — sostiene che era un credo in una figura di Gesù che aveva «fatto presa sull'immaginazione della gente» per il tempo di Giuseppe. Come abbiamo visto, l'intera letteratura epistolare del Nuovo Testamento mostra che nessuna «figura» umana di Gesù esisteva nell'immaginazione di alcuno.

2. Sapendo che la «testimonianza» di Giuseppe è ritenuta dalla stragrande maggioranza anche della scuola biografica una completa interpolazione; visto che lui stesso insiste sul fatto che essa contiene una grossolana interpolazione; dato che afferma soltanto di «credere, comunque, che non ci siano motivi sufficienti per ritenere falso tutto quanto», egli presenta in Giuseppe un testimone decisivo della storicità del Gesù evangelico. È difficile qui ricavare un semplice crollo della percezione logica; ma se ci asteniamo da ogni ulteriore accusa, quella deve essere sferrata con enfasi particolare.

3. L'argomento relativo alla durata del tempo necessario per sviluppare un  credo nel Gesù evangelico è o un riconoscimento della quasi totale ignoranza della tesi mitica, oppure un altro prodigio di fallimento argomentativo. La tesi mitica ipotizza una diffusione precedente (ossia, «pre-cristiana») di (a) un nome sacro Gesù, e (b) di un culto di una natura sacramentale. Se il dottor Klausner non lo sa, il suo attacco alla tesi mitica è semplicemente ignorante, in quanto non sa quel che sta diffamando. Se lo sa, il commento mostrerebbe, di necessità, che il suo attacco è fraudolento.

4. E i nostri dubbi sulla sua buona fede diventano alquanto acuti quando notiamo che, mentre in realtà ricorre alla successiva testimonianza rabbinica (nel caso di Eliezer) come prova della realtà storica del Gesù evangelico, in precedenza ha notato (pag. 23) che al tempo del detto Eliezer gli ebrei parlavano di Gesù «Ben Panthera» o «Ben Pandera»; e, prima di ciò (pag. 19), così aveva posto lui stesso l'intera questione:

«L'apparizione di Gesù, durante il periodo di disturbo e di confusione che colpì la Giudea sotto gli Erodi e i Procuratori romani, era un evento così poco appariscente che i contemporanei di Gesù e dei suoi primi discepoli difficilmente la notarono; e per il tempo in cui il cristianesimo era diventato una setta grande e potente i «Saggi del Talmud» erano già molto distanti dal tempo di Gesù, e non ricordavano più nella loro vera forma gli eventi storici che erano accaduti al Messia cristiano: essi si accontentavano delle storie popolari che erano correnti riguardo a lui e alla sua vita».

Sarebbe difficile eguagliare, in una seria controversia accademica, questo impiego di affermazioni mutualmente distruttive per provare la stessa tesi. Il dottor Warschauer è l'unico rivale recente del dottor Klausner di prominente importanza; e la sua impresa sembra così chiaramente una questione di vuoto cerebrale che noi rifiutiamo, nel suo caso, l'ipotesi di un gioco di prestigio critico.

Se nel caso del dottor Klausner siamo fortemente tentati di inquadrarlo, quello scrittore non ha almeno nessun motivo per lamentarsi. Un critico che presume che i suoi antagonisti «negano qualsiasi realtà storica» può difficilmente aspettarsi giudizi indulgenti quando viene colto così sul fatto a mentire con una testimonianza storica. Eppure potrebbe essere che nel caso del dottor Klausner come in quello del dottor Warschauer stiamo semplicemente testimoniando ancora una volta gli effetti stupefacenti del fervido presupposto sul pensiero comune vincolato a trovare sembianze di ragioni per credi adottati acriticamente.

Molto tempo fa Renan ha constatato la normale malafede dei teologi; procedendo a volte, anzi, ad esibire una certa carenza di buona fede scientifica nel suo trattamento personale del suo problema biografico. Dopo la sua giovinezza, comunque, Renan non fu mai colpevole di insolenza aggressiva; laddove il corso comune dei nostri rivendicatori della storicità di Gesù sembra dipendere dalla inclinazione all'insolenza in proporzione alla loro incompetenza congenita per l'argomentazione. Forse sarà per il nostro bene personale, allora, allontanarci per il momento da questi artisti del mercato per considerare i seri argomenti di studiosi teologi che combinano un'alta competenza accademica con uno spirito di cortesia e candore, e che argomentano, se non in modo convincente, tuttavia nello spirito della ragione, e sicuramente in buona fede. 

Una cosa, in effetti, il dottor Klausner ha fatto per l'avvertimento di altri sostenitori della tesi biografica. Sembrerebbe inutile, d'ora in poi, replicare a coloro che hanno sostenuto, visibilmente in buona fede, che se non ci fosse stata nessuna base storica per la narrativa generale relativa a Gesù nei vangeli i rabbini del secondo secolo avrebbero detto così. L'ammissione del dottor Klausner potrebbe essere sufficiente a sbarazzarsi di quella difesa. Ma se forse un tale ragionatore bifronte dovrebbe essere considerato con sospetto in quanto indegno di fede, è significativo notare che nel Dialogo di Giustino Martire con Trifone [14] il Padre della Chiesa ascrive al suo avversario ebreo proprio la posizione che, ci è stato detto, i Rabbini non sollevarono. «Cristo», dice il suo Trifone (capitolo 8), «se è davvero nato, ed esiste da qualche parte, è sconosciuto......voi invece, raccogliendo una vuota diceria, vi siete fatti un vostro Cristo e a causa sua ora state andando ciecamente alla rovina».

La replica del Padre della Chiesa non è neppure una citazione della testimonianza evangelica ma un ricorso volubile alla profezia veterotestamentaria, indicativa a sufficienza del normale approccio cristiano nei confronti delle prove. E quando i disputanti procedono alla discussione della dottrina di Giustino secondo cui Gesù era un Dio pre-esistente, diventa chiaro abbastanza che la «storicità» è un concetto che non era venuto in mente allora all'intelligenza cristiana.

NOTE

[1] Jesus the Nazarene — Myth or History ? Di Maurice Goguel, Dottore di Teol. e  Lett. (Parigi), Prof. of Esegesi e Critica del N.T. nella Facoltà della Libera Teologia Protestante (Parigi). Tradotto da Frederick Stephens. (T, Fisher Unwin ; 1926.)

[2] Si veda di seguito, pag. 138.

[3] Di seguito, pag. 133-135.

[4] Si veda il problema discusso di seguito, pag. 139 seq.

[5] Il punto ha un interesse speciale in relazione alla tesi che Marco sia il vangelo adattato di Marcione. Si veda l'Appendice su Il problema di Marco. Marcione avrebbe assunto la visione anti-davidica.

[6] il reverendo C. J. Wright, B.D., Penzance, art. su “Alcune Tendenze e Problemi nella Teologia Moderna”, Expository Times, 1926, pag. 154.

[7] M, Goguel scritte “… forse più imbarazzante”. Il signor Wright prudentemente omette il “forse”. 

[8] Si veda di seguito, pag. 138.

[9] Traduzione inglese di lettura citata, 1907, pag. 12-13.

[10] Fisher Unwin Ltd. (Ernest Benn Ltd.), 1927.

[11] Traduzione inglese, Macmillan Company, New York, 1925.

[12] Su questo punto si veda la parte seguente.

[13] Opera citata, pag. 70.

[14] Una composizione retorica in forma di dialogo, ma probabilmente motivata da effettiva disputa con ebrei.  

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