lunedì 8 marzo 2021

IL MITO DELL'INSEGNAMENTOL'Insegnamento Speciale nei Vangeli

 (segue da qui)

II. — L'INSEGNAMENTO SPECIALE NEI VANGELI

L'ultimissimo «biografo» del vangelo di Gesù scrive [1] che il «notevole divario» tra il ritiro di Gesù e del suo resto di fedeli discepoli dal territorio ebraico nel territorio pagano «potrebbe essere riempito adeguatamente da una ricostruzione — per necessità breve — di quell'aspetto dell'attività del Signore che, dal Suo giorno fino ai nostri, non ha mai smesso di plasmare le esistenze e le aspirazioni degli uomini — vale a dire, la Sua opera imperitura come un Maestro».

Abbiamo appena visto che, per più di cento anni dopo la data assegnata alla morte di Gesù, la letteratura primitiva del movimento, dall'Apocalisse ebraica alla Seconda epistola di Pietro, non presenta assolutamente nessun segno di una preoccupazione del genere tra scrittori cristiani. L'Insegnamento di Gesù è l'unica cosa che mai menzionano riguardo a lui. Lui è il «Signore»; è anche un Sofferente e un Sacrificio; un Maestro non lo è.

E questo è perfettamente in linea con il fatto che le Epistole, al pari dei Vangeli, sono immerse nell'atmosfera ebraica dell'«escatologia», la dottrina delle «cose ultime», il credo nella imminente venuta della fine del mondo, in cui il Cristo deve recitare il ruolo del Redentore di tutti coloro che hanno riposto la loro fede in lui. È così ovvia questa preoccupazione che i moderni neo-unitariani, come abbiamo visto, sono divisi tra le soluzioni auto-contradittorie secondo cui Gesù era un insegnante morale che non aveva figurato come un Messia, e che era un Messia «escatologico» che proponeva soltanto un'«etica provvisoria» per un mondo che presto sarà finito. Di quel conflitto vitale non ci può essere nessuna soluzione mediante qualsiasi reinterpretazione dei vangeli come essenzialmente ricordi di una esistenza reale. Il problema può essere risolto soltanto tramite uno studio dei vangeli come quei documenti fabbricati la cui natura abbiamo già visto.

Insegnamenti Contrastanti. — Molto tempo fa prominenti uomini di chiesa hanno cominciato ad arrovellarsi sul conflitto di dottrine nei vangeli non meno che sul conflitto di racconti. Qui c'era un Maestro che ordina ai suoi discepoli di non recarsi in alcuna città dei gentili o dei Samaritani, tuttavia dichiara addirittura in Matteo (8:11-12) che molti gentili entreranno nel regno dei cieli mentre «i figli del regno saranno cacciati fuori nelle tenebre». In una circostanza egli dichiara che ogni iota e apice della legge devono essere adempiuti; in un'altra circostanza egli combatte l'osservanza rigorosa del Sabato.

Ancora più profondamente sconcertante è l'abisso incolmato e incolmabile tra l'esortazione ai fedeli a pregare poco, e in una forma semplice, e le raffigurazioni di un Maestro che trascorre intere notti in preghiera, e che vuole che il suo vangelo sia proclamato da discepoli che «erano perseveranti......nelle preghiere». Altrettanto grande è la contraddizione tra l'affermazione auto-contradditoria, «io sono mansueto e umile di cuore», messa in bocca all'autore di così tante invettive, e quell'altra affermazione: «Qui c'è uno più grande di Salomone»

Ovunque e sempre stiamo sul punto di arrestarci per incoerenze di azione e di dottrina. Il Gesù evangelico si rivolge ad una grande moltitudine in parabole; e quando la moltitudine se ne va, egli dice ai suoi discepoli che loro soli comprendono i misteri, mentre le parabole sono rivolte alla massa «perché guardino, ma non vedano, ascoltino, ma non intendano, perché non si convertano e non venga loro perdonato».

Insegnamento Composito. — Di queste contraddizioni, e anomalie morali peggiori delle contraddizioni, la sola spiegazione razionale è che provengono da mani diverse — da creatori dei vangeli o interpolatori che hanno dottrine loro proprie a cui desiderano dare uno status divino. Non si può derivarvi nessuna concezione uniforme di un maestro reale. È solo nel Discorso della Montagna che ricaviamo un insegnamento etico abbastanza coerente, e quell'insegnamento è (1) già comune tradizione giudaica; [2] (2) ovviamente redatto da collettori di tale tradizione; (3) certamente per nulla affatto un Sermone; (4) una simile confezionata serie di apoftegmi non avrebbe potuto essere riportata o memorizzata nel corso di un'udienza; (5) assente per la maggior parte dagli altri vangeli.

Perché è così assente? È difficile fornire qualche spiegazione accettabile a meno della conclusione che esso è incorporato tardivamente nel primo vangelo; poiché l'ignoranza di un simile corpo dottrinale da parte degli altri è incomprensibile a meno di non dover supporre che i loro compilatori o conoscevano che era ebraico oppure vi obiettavano a gran parte. Se «Marco» fosse veramente, come sostiene il dottor Hermann Raschke, il vangelo pubblicato da Marcione, l'ignoranza del Sermone vi potrebbe essere deliberata. In entrambi i casi siamo fin troppo lontani dal presupposto che Gesù vi figurasse principalmente come un Maestro.

D'altra parte è facile da concepire, in vista della Didachè, come i promotori del movimento gesuano primitivo sentissero la necessità di imporre un corpo dottrinale etico alle prime raccolte di Logia criptici o fantastici come quelle che potremo ricavare dalla testimonianza di Papia e dalle scoperte moderne dei frammenti non-canonici di Logia in Egitto, se i «Detti di Gesù» fossero stati messi prima in circolazione come «vangelo». L''Insegnamento dei Dodici Apostoli' aveva presentato la dottrina morale nel suo incipit. Lasciare la dottrina morale gesuana a quel manuale sarebbe equivalso a confessare una bancarotta didattica. Senza dottrina morale, le storie dell'Infanzia e di miracoli potevano fare appello soltanto ai più sempliciotti. Dove gli uomini potevano leggere, si chiedeva qualcosa di meglio. Il possesso dei Testi Sacri era la grande risorsa della religione ebraica rispetto a tutte le altre. La Chiesa cristiana, in competizione con la sinagoga, aveva interesse ad averli. 

E nel mondo degli ebrei parzialmente ellenizzati questo materiale era facilmente producibile. Era tutto già diffuso, tra la Septuaginta, la letteratura non-canonica, e la tradizione delle scuole, dove i maggiori Rabbini dovevano essere stati stimati da molti come meritavano. È consuetudine, anzi, asserire che dal lato letterario — a parte perfezionamenti dello stile greco — i sermoni e le parabole evangeliche sono ineguagliabili nella letteratura precedente. Campioni acritici della tradizione dichiarano che le parabole evangeliche fecero un'impressione mai provata prima o da allora. Non è così che Canon Charles, il più competente dei nostri esperti in quel campo, parla della letteratura ebraica intermedia tra l'Antico Testamento, con i suoi Apocrifi, e il Nuovo. Piuttosto lui trova una varietà di materiale che, a suo avviso, doveva essere stato assimilato da Gesù. Non è una critica corretta, d'altra parte, quella che si appoggia sull'impressionabilità delle parabole, a fronte della conclusione ricavata da così tanti studiosi secondo cui alcune delle «migliori» parabole costituiscono tra le ultime aggiunte ai vangeli, e di certo sono post-gesuane.

È davvero un risultato curioso della presupposizione il fatto che gli scrittori che rivendicano espressamente un effetto confortante e profondo all'insegnamento e alla personalità del Fondatore non possano nemmeno concepire che quell'influenza potesse essere adeguata alla produzione di un insegnamento impressionante da parte di altri nel nome del Fondatore!

Ma è così che, in generale, la presupposizione opera sempre. Una serie di apologeti tacitamente dispensano il Fondatore dagli insegnamenti che trovano imbarazzanti; un'altra serie si rifiutano di credere che chiunque altro potesse aver prodotto un insegnamento che è abbastanza accettabile. E non dobbiamo denunciare severamente quelle spontanee sciocchezze delle scuole teologiche; dal momento che è noto che l'esempio più sbalorditivo della fallacia a questo proposito proviene innanzitutto dalla penna di John Stuart Mill, nonostante sia adottato dal decano Inge.

Infatti è stato Mill a sostenere con fiducia [3] che le parti migliori dei Vangeli non avrebbero potuto essere state inventate da pescatori galilei (un suggerimento che nessuno studioso aveva mai fatto), al fine di rafforzare il credo che esse erano state inventate da un carpentiere galileo. Mill sta semplicemente prendendo per garantita la tesi che doveva essere dimostrata. Aveva deciso in anticipo, senza nessuno studio comparato della tradizione etica pre-cristiana, che (a) l'etica dei vangeli è originale e singolare, e (b) perciò deve provenire da Gesù il carpentiere galileo. Se poteva essere arrivata da compilatori istruiti in tradizione etica ebraica egli non lo ha mai nemmeno indagato. Le difficoltà immense sulla via di un credo critico dell'unità degli insegnamenti evangelici egli non le ha nemmeno percepite, e di conseguenza mai neppure esplorate. 

Se avesse fatto quelle cose, non avrebbe potuto scrivere il suo ulteriore argomento secondo cui (1) il quarto vangelo era l'opera di un discepolo; che (2) esso «importò materiale da Filone e dai platonici alessandrini»; e che (3) «l'Oriente era pieno di uomini che avrebbero potuto rubare ogni quantità di questo povero materiale». Qui Mill stava spiacevolmente disturbando il consenso popolare del sentimento. Il «povero materiale» in questione era ed è per molti studiosi cristiani, anche tra quelli che confessano la non-storicità del documento, un materiale anzi davvero superiore, possibile solo ad uno scrittore di cultura e profondità filosofica. No, per Matthew Arnold, come per suo padre prima di lui, il quarto vangelo aveva un valore storico, morale e letterario piuttosto speciale. Egli stava risolvendo il problema nei termini delle sue parzialità e dei suoi presupposti, così come lo stava facendo Mill dall'altro lato. Ed entrambi erano parimenti ciechi alle reali possibilità del caso. [4]

Ma ciò che Arnold ha fatto è stato fatto e si sta facendo fin dal suo tempo. B. Weiss venti anni fa si dichiarò a favore della storicità del quarto vangelo. Mentre la maggior parte degli storicisti lo mettono rispettosamente da parte come se fosse un documento edificante piuttosto che storico, i chierici, non in maniera accademica, per quanto acritici,  stanno ora sostenendo con sicurezza che esso «è uno specchio fedele del tempo di Gesù», che sia in qualche modo veramente «storico», e che produca, in realtà, l'«impressione» più ineffabile di tutti. [5] E perché non dovrebbero sostenere così? Se li si dice che Giovanni non è coerente con i sinottici, loro possono rispondere che i sinottici sono spesso incoerenti l'uno con l'altro, e con sé stessi. Allora perché respingere il quarto e accettare gli altri tre? La posizione di coloro che si appoggiano sui sinottici e mettono da parte il quarto vangelo è confutata in anticipo. 

Quel che fece l'autore ignoto del quarto vangelo nel processo di assimilare idee mistiche dal platonismo alessandrino, altri autori ignoti avrebbero potuto realizzarlo, e, come siamo costretti a dedurre, lo realizzarono nel processo di raccogliere e collezionare l'abbondante tradizione etica ed escatologica della letteratura religiosa canonica e post-canonica degli ebrei. Definire «originale» la raccolta nel Discorso sulla Montagna equivale a definirla quel che non è. [6] Anche al tempo di Mill era stato mostrato il contrario da studiosi competenti, ed egli non diede loro nessun ascolto. Che qualcuna delle parabole fossero «originali» quando furono inserite per la prima volta nell'uno o nell'altro dei vangeli potrebbe ben essere vero; ma nessun onesto studioso può negare che le più attraenti sono chiaramente aggiunte posteriori, non attribuibili al Gesù evangelico. [7

Ed eccoci di fronte a quella fatalità di una scelta forzata tra contraddizioni che è la Nemesi di ogni credo superficiale. I campioni della dottrina di una «personalità unica» ci assicurano costantemente che la personalità in questione ebbe l'effetto di elevare i livelli morali di vita una volta per tutte nel mondo in cui egli insegnò. Eppure nel momento in cui si suggerisce che l'influenza avrebbe potuto comprendere l'attività creativa di nuove menti al servizio della nuova causa, ci viene detto stizzosamente che una cosa del genere è impossibile.

Mill diventa perfino acceso quando ripete il ritornello. Teologi successivi, indignati per l'asserzione che anche la parabola del Buon Samaritano non costituisce il vertice più alto dell'etica antica, la approcciano con un'arrogante sfida a produrre qualsiasi cosa da confrontare con quella. L'obiettivo stesso della parabola è suggerire agli ebrei che un Samaritano può essere un uomo migliore di loro; e i campioni hanno continuato a sostenere che solo un uomo, un ebreo, poteva immaginare un tale Samaritano. È caritatevole ipotizzare che essi siano del tutto ignari della storia di Licurgo che perdona e riforma il brutale giovane aristocratico che aveva accecato il suo occhio, e, invece di metterlo a morte come i cittadini lo invitavano a fare, lo riportò da loro dopo un mese con le parole: «Voi mi avete dato un cattivo cittadino: io vi restituisco uno buono». Infatti se gli stizziti teologi dovessero negare che quella sia una storia ancor più bella del racconto del Buon Samaritano, rivelerebbero che il loro apprezzamento morale non è più ampio della loro erudizione.

Quella storia di Licurgo — che al pari dell'altra è probabilmente una «parabola» e non un ricordo storico — è una delle prove, a cui gli studiosi cristiani moderni sono così stranamente ciechi, della possibilità di buon pensiero etico e di somma arte parabolica tra uomini senza nome in un mondo in cui il metodo più comune per trasmettere una nuova dottrina era attribuirla ad un qualche nome illustre. Ci sono molti racconti e parabole interessanti nell'Antico Testamento, prodotti di arte «haggadica» orientale, ai quali nessuno studioso può pretendere di associare il nome di qualche autore. Le storie della Genesi non sono più credute dagli uomini istruiti come l'opera di «Mosè». I libri di Giobbe e di Rut non possono essere assegnati a nessun autore. E quei due libri fabbricati, come succede, abbondano nel «realismo» letterario che ingenui studiosi dichiarano costituire una prova della speciale storicità di «Marco» — questo alla faccia del realismo molto più marcato di alcuni episodi di «Giovanni».

Cosa l'arte haggadica orientale avrebbe potuto fare per vari scopi nei libri del canone dell'Antico Testamento, e nella vasta letteratura ebraica post-canonica, essa avrebbe potuto farlo per il nuovo movimento cristiano nel secondo secolo «dopo Cristo», quando le antiche attività umanistiche venivano spinte in quelli e altri nuovi canali sotto la mano pesante della Roma imperiale, che aveva posto fine dappertutto alla vita e alle discordie cittadine relativamente libere in virtù delle quali la Grecia e l'Asia Minore erano state per secoli lo scenario di un'impareggiabile attività intellettuale come pure politica. In quel molteplice mondo orientale il pensiero e la letteratura semitici ed ellenistici si incontravano e reagivano tra loro. L'emergenza post-esilica del nuovo pensiero etico tra gli ebrei è in ultima istanza una questione di penetrazione dall'esterno. Gli studiosi cristiani hanno ripetutamente insistito sulla testimonianza del Libro degli Atti relativa alla presenza continua di elementi «ellenistici» perfino nella Chiesa a Gerusalemme. Perché non possono realizzare che tra quelli e gli altri elementi gentili ritenuti presenti nella vita di Gerusalemme, per non dire nulla di quel che potrebbe essere stato fatto ad Antiochia, ci dovevano essere probabilmente uomini capaci di sviluppare una dottrina etica per la nuova religione? E quando il movimento era stato diffuso non solo attraverso l'Asia Minore e le Isole ma in Egitto e in Italia, cos'è più probabile rispetto al fatto che alcuni uomini di cultura legati alla Chiesa dovessero prendere parte ulteriore nelle espansioni sia narrative che didattiche nei vangeli?

Persino gli studiosi che hanno giurato di provare la storicità di Gesù, si potrebbe supporre, sarebbero felice di riconoscere la natura interpolata delle storie del Tradimento di Giuda, del Rinnegamento di Pietro, e dell'assassinio soprannaturale di Anania e Saffira. Se la loro schiavitù a documenti non analizzati li trattiene perfino da quella quantità di nuova percezione, il loro caso è davvero difficile. Se, d'altra parte, riconoscono, come fanno così tanti tra loro, la natura straniera di passi come le predizioni della Caduta di Gerusalemme, l'appello lirico-mistico «Venite a me», e l'invocazione «Gerusalemme, Gerusalemme», come pure la posteriorità di un numero di parabole, in che modo possono coerentemente rifiutarsi di contemplare la conclusione che la massa principale del materiale etico, ed in particolare la composizione chiaramente letteraria e non-orale del Discorso della Montagna, parlano di una molteplicità di mani?

Ma non c'è nulla di così ostruttivo ad una visione storica scientifica come una presupposizione. Uomini che sono stati educati sui classici greci, che hanno letto in Euripide il canto di Ippolito ad Artemide, che conoscono parimenti da Teocrito e da Ezechiele come per secoli le donne del passato «piangevano per Tammuz», che hanno letto il loro Omero e il loro Eschilo, che conoscono il racconto della «esausta Demetra, in cerca di Persefone» — tutte le testimonianze dei credi infinitamente vari riguardanti Dèi e Dèe immaginarie che per migliaia di anni intere razze accarezzavano — sono ancora esplicitamente rassicurati sul fatto che doveva esserci stato un meraviglioso Cristo storico che rendesse conto del credo cristiano.

Eppure lo studio più attento da parte dei più devoti studiosi di professione non fa che confermare la conclusione critica che gli insegnamenti nei vangeli sono sovrapposti al movimento primario. L'essenza dell'indagine [8] del professor Schmiedel si presenta così: 

«Il contesto in cui troviamo ora i detti di Gesù non deve mai......essere considerato una guida affidabile nel determinare quale potrebbe essere stato il significato originale. In ogni caso il contesto ci comunica solo quello che gli evangelisti, o i loro predecessori, trovavano che significasse; anzi in molti casi è impossibile credere che anche per loro il punto dove introducono il detto è mirato a trasmettere qualche suggerimento relativo al significato. Una fonte come i logia [9] poneva naturalmente pochissima attenzione su questo punto. Il maggior numero di detti di Gesù sono come blocchi irregolari. Tutto ciò che si vede con perfetta chiarezza è che essi non appartengono in origine al luogo dove sono trovati ora».

Il professor Schmiedel, naturalmente, ha i suoi personali motivi accuratamente dichiarati per considerare ampiamente storici i vangeli; ma anche lui sembra fallire di vedere le giuste, o ragionevoli, conclusioni dalle sue stesse ammissioni. E dove egli fallisce, gli approcci comuni dei difensori della fede hanno ancor meno sospetti sulle possibilità storiche del caso, e sono incomparabilmente più acritici nell'affrontarlo. 

Fino ad oggi, gli uomini sono infinitamente occupati nella ricerca di giustificazioni per la «fede», prove delle sue funzioni salvifiche, encomi per il suo presunto potere di illuminazione. E fino ad oggi, forse, pochi hanno realizzato la sua funzione principale nella vita umana, che è la paralisi della ragione pensante. Questo non è un argomento di semplice credo religioso; questo non è che l'espressione predominante, la più ampia illustrazione del processo. È un processo che sorge in ogni dipartimento della vita mentale, dal dominio della «regola generale» nelle attività di routine più semplici alla paralisi del giudizio critico nelle operazioni più generali di giudizio. La fede non è che approccio statico, il presupposto, al di là se fervido o impassibile, di sapere tutto circa l'argomento in questione, quando il minimo clamore di sobrio dubbio rivelerebbe che noi non sappiamo.

È così che, per la maggior parte degli uomini, accademici o altrimenti, l'incommensurabile discussione sulla religione e sulla Bibbia, su Dio e su Gesù, li ha lasciati ciechi di fronte a due fatti altamente significativi ed altamente interessanti, che entrambe le religioni ebraica e cristiana (per non citare altre) sono prodotti della collaborazione umana. Essi parlano della grandezza del «Libro» senza rendersi conto del semplice fatto eccezionale che la Bibbia è una collisione di due letterature, come quella che si potrebbe fare raccogliendo in due «libri» le letterature di Grecia e di Roma. E, vedendo senza percepire il concreto fenomeno documentario, essi mancano completamente il fenomeno sociologico, la potenza sociale del combinato disposto in letteratura.

Uomini che, eticamente motivati, declamano con convinzione intorno al valore dell'organizzazione e del «lavoro di squadra» nella vita, non raggiungono mai la concezione di un «lavoro di squadra» nei vangeli. Eppure i vangeli sono veramente l'esempio eccezionale di un «lavoro di squadra» in forma di libro; proprio come l'ascesa e la durata del sistema cristiano è l'esempio eccezionale in sociologia del potere persistente dell'organizzazione contro la vita casuale di uno sforzo e di un movimento isolati. Eresie relativamente sani sono perite; dogmi pazzi sono sopravvissuti. Cosa trattiene persone sensibili ed esperte dal vedere quelle cose è soltanto il presupposto di una Grande Personalità. 

Rousseau, affrontando il problema con tutta la certezza dell'ignoranza, prima ancora che la tesi di Astruc sulla composizione del Pentateuco (1753) avesse ricevuto qualche studio intelligente, ha declamato che «l'ipotesi che più uomini si siano messi d'accordo per inventare di sana pianta questo libro è meno verosimile dell'altra, che uno solo con la sua vita ne abbia fornito la materia. [10] Gli autori ebrei non avrebbero mai trovato quel tono né quella morale; e il vangelo ha caratteri di verità così grandi, così evidenti, così perfettamente inimitabili, che la figura del suo inventore sarebbe più stupefacente di quella del suo protagonista».  [11]

Il teorema è al tempo stesso falso nei fatti, falso nell'argomentazione, e falso per l'intera argomentazione precedente della Professione di fede del vicario Savoiardo nel quale si presenta. I vangeli sono l'opera di molte più di sole quattro mani; essi per inciso non sono «d'accordo»; essi davvero copiano le parole di molti precedenti scrittori ebrei che avevano trovato «quel tono e quella morale», e degli scrittori greci che avevano fatto così a loro volta; c'è al lavoro, per la maggior parte, non un'«invenzione» ma una compilazione; e non c'è nulla di «stupefacente» in tutto ciò per chiunque conosca la rilevante letteratura precedente, ebraica e pagana.

Eppure troviamo al giorno d'oggi uno studioso ebreo [12] che, implicando falsamente che Rousseau stesse discutendo la storicità di Gesù, la quale non era allora in discussione, [13] ed omettendo la frase relativa all'impossibilità di «autori ebrei» che scrivessero come un unico ebreo si presume che per tutto il tempo avesse parlato, dichiara di trovare in quella spacconata, come fece il suo connazionale Joseph Salvador prima di lui, «una replica adeguata al miscuglio di dimostrazioni pseudo-scientifiche avanzate» dai miticisti. Tutto ciò che il brano fa è quello di smentire al massimo l'intera polemica precedente di Rousseau sulla capacità dell'uomo di trovare la sua etica personale senza sacerdoti o rivelazioni. Al posto di tutte le autorità che rifiuta egli non ha che ipotizzato un unico rivelatore ebreo, con un monopolio di verità morale. Stiamo dando ascolto ai giudizi etico-letterari di un retore che non può condurre la sua  polemica personale senza un'assoluta auto-contraddizione. E questa è l'autorità che è sufficiente, sull'intero problema della storicità, ad un biografo ebreo di Gesù che pretende di scrivere da critico storico. Risposta profonda al profondo.

Lungi dal dovere la loro misura d'appello, distinta dalla loro autorità tradizionale, alla rivelazione di una personalità concepibile, i vangeli ne fanno, in virtù della molteplicità e della discordanza stessa della loro materia, il risultato della libera collaborazione di cento mani; alcune che inseriscono frammenti etici divergenti, alcune che inseriscono parabole, altre che inseriscono contro-parabole;  alcune che inseriscono finzioni storiche, alcune che inseriscono contro-finzioni; alcune che inseriscono resoconti di discussioni, alcune che inseriscono sermoni apocalittici; altre, che inseriscono invettive liriche o elegiache; tutto intervallato da solenni antichi racconti di miracoli, tutto completato da un dramma misterico rozzamente ridotto ad una forma narrativa.

Per milioni, la battaglia è vinta con i miti graziosi dell'Infanzia; per altri milioni, tutto verte sulla condiscendenza della Divinità per placare la Divinità morendo da Sacrificio redentore per il peccato umano. Tutti i seri tentativi per estrapolare una Personalità non fanno che suscitare insolubili conflitti di conclusione ed interpretazione. La tesi di una Personalità che conquista tutto è l'invenzione di una sociologia non veritiera, che non si piegherà all'analisi. Il cristianesimo sussiste, quando cominciò, non come la dottrina di una Personalità ma come un «Interesse Crescente». Infatti il nucleo della Cristianità, la Personalità, a questo giorno è adeguatamente rappresentata da una figura su una croce, o un ritratto debolmente sentimentale, conforme ad una convenzione consolidata, che esprime solo un appello al tradizionalismo acritico.

E in tal modo incombe il racconto della collera di Carlyle alla 'Luce del Mondo' di Holman Hunt estaticamente acclamato da Ruskin per il suo elaborato simbolismo, in assoluta cecità alla sua nullità artistica. Qui c'era una fede che paralizzava l'arte, esattamente come aveva fatto nell'antico Egitto. Carlyle, per una volta reso in qualche misura artisticamente perspicace con la sua repulsione,  recitò in faccia allo sfortunato artista, «alzando la sua voce quasi ad un urlo», la sua derisione feroce di quella «fantasia papista», «addobbata in vesti sacerdotali e con una corona, e con gioielli sul suo petto e un'aureola dorata intorno al suo capo». Per il biografo, che desiderava ritratti realistici dei suoi eroi, ciò costituiva il peggiore dei tanti fallimenti, peggio della «pura, debole, femminea non-entità, abbellita da un elegante abito di seta, con gemme e pietre preziose che circondano il tutto», di Da Vinci. Anche Albrecht Dürer, raffigurando la storia dell'Uomo dei Dolori, «aveva canoni tradizionali che gli impedivano di offrire la piena verità». [14] Carlyle stava esprimendo in anticipo le emozioni della scuola odierna che cercano di creare per sé un eroe a partire da un Dio dissolto. Quel che voleva era un volto realistico per «il più nobile, il più fraterno, e il più eroico Essere che mai camminò sulla terra di Dio». Come mai, si domandava, la folla di antichi scultori aveva trascurato di offrirglielo? Così uomini ostinati possono ingannarsi pretendendo di convalidare il passato della loro fantasia. Un abile artista francese moderno ha fatto qualcosa che avrebbe potuto soddisfare Carlyle, che nella sua tarda età ricavò soddisfazione in un «John Knox» che non era John Knox, ma aveva una barba di «plausibile lunghezza». E l'artista modernista non sta che abbagliando il modernista adoratore dell'eroe con una sembianza di «realtà». Ci sarà sicuramente detto che l'«impressione» di Carlyle prova la grandezza della figura che aveva creato per sé stesso, il che è persuasivo proprio come lo sarebbe l'affermazione che la sua idea lirica de «l'Uomo Odino» provasse la storicità del Dio principale della mitologia norrena.

Il metodo di Carlyle con Odino è in realtà il metodo dell'intero corpo di teologi di professione e dilettanti che in quest'epoca insistono nell'assicurare la storicità di Gesù con la forza dei loro sentimenti per lui. Tanto poco quanto lui nei suoi racconti epici, essi si degneranno di affrontare la mole della scienza mitologica che punta alla conclusione che gli Dèi Celesti sono prodotti dell'animismo più antico dei popoli, e che gli Dèi Figli proprio altrettanto sicuramente sono prodotti di un folclore successivo. Anche lo stesso Carlyle non poteva non vedere che gli Dèi norreni sono Dèi della Natura; nondimeno lui doveva avere un Odino che fosse «un Maestro e Capitano di anima e corpo», il pensatore più profondo del suo tempo, che predicasse una religione di Valore, per la quale venisse deificato. 

Questo proprio nell'atto di notare come Snorro e Saxo e Torfaeus ricavano una biografia da ogni mito, e riducono tutto quanto a cronologia; e come «ogni vaga diceria sul numero avesse una tendenza a risolversi nel numero Dodici». Com'era il pubblico che accettò da Carlyle la necessaria storicità di Odino, con i suoi Dodici, così è il pubblico che al giorno d'oggi ripete in coro i profeti minori che respingono sdegnosamente l'idea che Gesù e i suoi Dodici possano essere tutto fuorché reali personaggi storici. 

Eppure nemmeno la vasta inerzia di una fede organizzata può tenere soddisfatti teologi pensanti con il disprezzo spontaneo della massa per qualsiasi suggerimento che i loro documenti non siano che parti di una mitologia. Essi sanno che i documenti sono andati sgretolandosi sotto le loro mani da oltre cento anni; e loro sono propensi a distinguere. È il professor Burkitt, uno dei più competenti e più temperati tra i teologi inglesi viventi, che ha ammesso [15] che «l'antica ortodossia, considerata come un sistema fissato, non esiste più. Non si tratta semplicemente di brecce che sono state fatte nel muro, o che proiezioni che stavano sulla via del pensiero moderno sono state cancellate: l'intero edificio è collassato. Dove Gibbon vide un edificio vecchio e decrepito, noi ci troviamo di fronte ad un mucchio di rovine. Ci sono poche pietre una sull'altra che non sono state buttate giù; ma il mucchio rimane — cosa dobbiamo farne?»

Così parla lo studioso esperto e onesto. Molto diverso è il tono della «assistenza chiassosa» di pubblicisti laici e di professione che pensano di sbarazzarsi della letteratura della tesi mitica nella collera e nei modi del signor Bumble. Ma essi, tra loro, hanno dieci lettori per ogni lettore dello studioso. 

Sta allo studioso storico, riconoscendo che il materiale deve essere pazientemente meditato, affrontare tutto questo ozioso apriorismo mediante le prove riunite dell'incompatibilità dei documenti evangelici, parimenti per narrativa e per dottrina, con ogni ipotesi biografica che ipotizza un Maestro riconoscibile. Ciò è stato di fatto dimostrato, come abbiamo visto, dagli ultimi esponenti delle nuove tesi biografiche unitarie, ognuna a sua volta che protesta che le tesi rivali sono ingiustificate, finché una vivace dichiarazione della tesi «escatologica» crea prima una nuova speranza e poi un nuovo allarme.

In questo momento, se possiamo fare qualche conclusione accurata dalle più recenti pubblicazioni di Vite e «soluzioni», il processo di provare la storicità di Gesù si riduce ad una vuota asserzione, che egli offrì una «rivelazione» indipendentemente da tutti i documenti che sono presunti contenerla — un tesi avanzata settant'anni fa da M. Paul Janet, e ripetuta spesso da allora. Questa è la tesi dell'opera del reverendo dottor Vacher Burch, [16] della Cattedrale di Liverpool, su 'Gesù Cristo e la sua Rivelazione', dedicata con affetto al vescovo A. A. David. Quell'opera non fa alcun tentativo di confutare la dimostrazione che gli insegnamenti evangelici sono totalmente derivati, e o pre-gesuani oppure post-gesuani. Essa semplicemente interrompe tutte le derivazioni come esercizi nell'arte di «talmudiare», e afferma ad nauseam che qualsiasi cosa Gesù insegnò trasmetteva una «rivelazione» che lo stesso insegnamento non poteva veicolare e non veicolava quando scritto o pronunciato da altri. 

A questa dura asserzione, comunque, vi si aggiunge significativamente ciò che per il pubblico britannico è un elemento praticamente nuovo di «evidenza cristiana» — vale a dire, la pretesa che la versione medievale «slavonica» di Giuseppe (scoperta venti anni fa e non ancora pubblicata per intero), presa con Egesippo, prova che Giuseppe ha inserito nell'originale aramaico o ebraico della sua 'Guerra Giudaica' passi circa Giovanni il Battista che ci giustificano nel credere che abbia scritto realmente il passo circa Gesù nelle 'Antichità'. Difficilmente è possibile sopravvalutare la sottigliezza dell'argomento (esaminato qui di seguito) così escogitato dal dottor Burch. Ma il fatto stesso che a questa tattica ricorre un polemista che proclama la presenza di una «rivelazione» soprannaturale negli insegnamenti evangelici è eloquente delle pressioni della tesi mitica sulla coscienza ecclesiastica. 

È inconcepibile, in effetti, che le tattiche del dottor Burch, al di là se retoriche o documentarie, saranno approvate dalla maggioranza dei teologi seri. Finora, almeno, essi hanno scommesso la loro causa su una negazione più completa della tesi mitica, sempre in effetti su linee a priori, ma con un affidamento dichiarato sul «senso storico» di uomini istruiti, a volte accompagnato da una caratterizzazione più o meno sprezzante  di quello dei sostenitori della tesi mitica. A quella difesa allora, dobbiamo rivolgere in ultima istanza la nostra attenzione.

NOTE

[1] Dottor Warschauer, The Historical Life of Christ, pag. 167.

[2] Si vedano i dettagli in Christianity and Mythology, seconda edizione, Parte 3, Seconda Div., § 6.

[3] Three Essays on Religion, pag. 253-254.

[4] Si veda Christianity and Mythology, Parte 3, Second Div., § 12.

[5] Si veda The Fourt Evangelist del reverendo dottor C. F. Nolloth, 1925, pag. 171 e passim. Quest'opera è un riassunto eccellente dell'operazione accademica della “volontà di credere”. 

[6] Il signor Middleton Murry (Life of Jesus, prefazione) cita un vescovo inglese che confessa che “Gesù non aggiunse nulla al pensiero umano”. Il signor Murry è scandalizzato; ma il vescovo senza dubbio continuò a spiegare la sua affermazione, come fanno tanti altri.

[7] Si veda Christianity and Mythology, Parte 3, Seconda Div., § 11.

[8] Encyclopaedia Biblica, art. VANGELI, col, 1886.

[9] Le raccolte presunte di “dicta” che erano state diffuse separatamente.

[10] Ciononostante, Rousseau afferma che il vangelo è “pieno di cose incredibili......che è impossibile per qualsiasi uomo ragionevole concepire o ammettere”.

[11] Emilio, libro 4. Oeuvres, ed. 1817, 6, pag. 111-112.

[12] Klausner, come citato, pag. 70.

[13] Voltaire conosceva amici di Bolingbroke che negavano la storicità di Gesù. Ma Rousseau non menziona nemmeno una tale negazione. Egli sta discutendo l'originalità dell'insegnamento. 

[14] Pre-Raphaelitism and the Pre-Raphaelite Brotherhood di Hunt, 1905, 1, 352 seq. Il passo è riprodotto nel volume 4 della Life of Carlyle di D. A. Wilson, capitolo 35.  

[15] Christian Beginnings, 1924, pag. 8.

[16] Citato sopra, pag. 60.

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