lunedì 1 marzo 2021

IL MITO DI GIUDALa Fabbricazione Testuale

 (segue da qui)

V. — LA FABBRICAZIONE TESTUALE

§ 1. Prove Esterne

Prima di studiare i motivi documentari per questa conclusione, notiamo i motivi negativi per essa.

Fuori dai Quattro Vangeli. — Innanzitutto, il frammento recuperato del cosiddetto 'Vangelo di Pietro' parla espressamente di «Noi, i dodici apostoli», in lutto assieme dopo la cattura e l'esecuzione di Gesù, senza alcun accenno di un tradimento; e nessuno studioso data il documento entro il primo secolo. In secondo luogo, non solo non c'è nessuna menzione di Giuda come traditore in nessuna delle Epistole, ma anche il passo chiaramente interpolato in Prima Corinzi (11:23), in cui abbiamo la frase «il Signore Gesù, nella notte in cui fu consegnato», senza alcuna indicazione del traditore, è bilanciato in tal senso dal capitolo successivo (15:5-8) in cui si fa asserire a Paolo, con la stessa formula rivelatrice di introduzione, che Gesù dopo essere risorto dai morti apparve a «i dodici»; poi di nuovo a «tutti gli apostoli». In terzo luogo, la raffigurazione nell'Apocalisse (21:14) del regno dei Dodici non riconosce nessuna crepa nella fondazione di Dodici Apostoli. In quarto luogo, la riscoperta Apologia di Aristide (trovata nel 1889 dal sigor J. Rendel Harris, in una versione siriaca, nel convento sinaitico di Santa Caterina) parla dei Dodici Apostoli in termini che negano la possibilità che egli avesse sentito di Giuda come un traditore. Professando di basarsi su «quel Vangelo che poco tempo fa si parlava tra loro [i cristiani] che veniva predicato», Aristide quasi all'inizio scrive che Gesù «aveva dodici discepoli affinché si compisse in tempo il fine della sua incarnazione»; che fu «crocifisso dai Giudei», morì, e fu sepolto; aggiungendo: «e dicono che dopo tre giorni resuscitò ed ascese al cielo; e allora quei dodici discepoli si dispersero nelle province del mondo e predicarono la sua grandezza......».

 L'Apologia di Aristide è indirizzata a «Cesare Tito Adriano Antonino Augusto Pio» — cioè, o a Adriano oppure al suo successore Marco Antonino, che portava per adozione il nome di Adriano; e siccome Eusebio (4:3) parla di Aristide per aver dedicato, «come Quadrato», un'apologia ad Adriano, la presunzione è che essa fosse destinata all'imperatore  chiamato comunemente così. Il documento è datato di conseguenza tra gli anni 117 e 138. Non è necessario indagare se possa appartenere al regno successivo: se la storia fosse stata assente da un vangelo che circolava intorno al 120-135, dev'essere classificata come un'invenzione successiva, da qualsiasi punto di vista. 

Si potrebbe forse sostenere che un apologeta, facendo solo una breve dichiarazione in merito alle origini cristiane, avesse potuto naturalmente astenersi dal disturbare l'Imperatore con un dettaglio come la storia del Tradimento anche se la sapesse; ma d'altra parte è impensabile che avrebbe detto esplicitamente che «quei dodici discepoli» predicarono il vangelo dopo la Resurrezione se avesse saputo che uno di loro era ricordato per aver tradito il suo Signore. La sola conclusione legittima è che quando Aristide scriveva, i cristiani non avevano nessuna storia del Tradimento. 

In quinto luogo, anche la versione siriaca del cosiddetto 'Vangelo dei Dodici Apostoli', un documento stratificato rielaborato fino all'ottavo secolo, [1] mostra chiari segni di dislocazione e di manipolazione nei punti in cui enumera i Dodici e riporta la funzione. Giuda, con la solita parentesi, «colui che lo tradì», viene collocato per ultimo nell'elenco, in cui gli apostoli sono assegnati a tribù: poi vi segue la frase: «Questi dodici sono i suoi discepoli a cui promise dodici troni perché possano giudicare Israele». L'elenco è preceduto anche dalla frase: «E si scelse veri discepoli e dodici apostoli......i cui nomi sono i seguenti».

E ancora di più la struttura principale rivela sé stessa, poiché, dopo un paragrafo che termina con un'allusione al «santo vangelo dei quattro veraci evangelisti», ci viene detto che il Signore «comandò» ai dodici di «evangelizzare nei quattro angoli del mondo, e noi eseguimmo la predicazione». Solo allora sopravviene un paragrafo che racconta del tradimento di «uno dei suoi discepoli, colui che è chiamato Scariota» — un nome che non è stato dato prima nemmeno nella parentesi interpolata nell'elenco —,  della crocifissione, della morte di Giuda, e dell'elezione di Mattia. Perfino dopo ciò, si fa Gesù «apparire agli undici» — una rivelazione del fatto che l'elezione di Mattia era stata aggiunta separatamente alle interpolazioni precedenti. Così l'intera serie di fabbricazioni è chiara. La storia del Tradimento, qui come nei vangeli canonici, era stata inserita in un documento che in origine ne era privo; e ancora più tardi la storia dell'Elezione era stata sovrapposta goffamente a quella.

Nelle Epistole. — Se vi era qualche motivo per esitare in questo caso, non ce ne sarebbe però nessuno sui libri canonici. C'è soltanto un'unica conclusione possibile quanto ai passi in Prima Corinzi: interpolati come sono, furono interpolati ad un tempo in cui la storia del tradimento di Giuda non aveva ancora trovato diffusione. Il passo nell'undicesimo capitolo è logicamente l'interpolazione più tarda tra le due. 

Ma qui si prenda atto del fatto che il verbo greco che nelle nostre versioni è reso a questo proposito con «tradito» vuol dire in senso stretto «consegnato». Si tratta dello stesso verbo che è reso con «consegnato» in Marco 1:14, nel resoconto dell'arresto di Giovanni il Battista, che non è noto per essere stato «tradito»; e capita anche in Romani 4:25, e in Matteo 10:17, 19, dove non non si tratta di tradimento. Perciò potrebbe essere stato usato in Prima Corinzi senza alcun riferimento a qualche storia di tradimento ma semplicemente come allusione ad una storia di cattura. Tuttavia, un'interpolazione il passo ovviamente lo è, e potrebbe essere stata una interpolazione successiva; sebbene ci sia forza nel suggerimento [2] di Volkmar per cui il verbo ambiguo «consegnato» potrebbe aver dato il primo spunto per l'invenzione della storia di Giuda.

 § 2. Le Prove Interne

Infatti quando ritorniamo ai sinottici vi troviamo anche, a questo punto, prove di un processo di interpolazione, di data relativamente tardiva. Il lettore di larghe vedute si volga al 26° capitolo di Matteo, verso 21, e noti come il passo in cui Gesù mostra la sua conoscenza del tradimento di Giuda è introdotto dalla frase: «e mentre mangiavano». Ora vada al verso 26, alla fine di quel passo, e abbiamo di nuovo la frase «e mentre essi mangiavano», dove ora la questione è l'istituzione del sacramento. Perché il mangiare è specificato così due volte in poche righe, senza alcuna necessità narrativa? La spiegazione è abbastanza chiara. La ripetizione è creata dall'inserzione dei versi 21-5, introdotti dalla stessa frase.

Torniamo ancora di nuovo al 27° capitolo, in cui il verso 2 racconta di come «lo misero in catene, lo condussero e consegnarono (παρέδωκαν) al governatore Pilato». A questo punto interviene l'inizio del paragrafo: «Allora Giuda, che lo aveva tradito» (ὁ παραδιδοὺς αὐτὸν), che racconta del rimorso e del suicidio di Giuda, e dell'acquisto del campo del vasaio, a compimento della profezia di Geremia. Dopo quel paragrafo il verso 11 ricomincia: «Ora Gesù comparve davanti al governatore». Qui abbiamo la stessa procedura del capitolo 26. Qualcosa doveva essere aggiunto, ma nulla doveva essere tolto via.

Esattamente come nel caso dell'introduzione dell'episodio di Giuda alla cena, abbiamo un doppio uso dell'espressione, che rivela il processo di interpolazione, fatto deliberatamente. Quel processo è ripetuto, per quanto riguarda l'episodio della cena, nel 14° capitolo di Marco, dove abbiamo il passo di Giuda introdotto con: «Mentre erano a tavola e mangiavano»; e dopo la maledizione noi riprendiamo con: «Mentre mangiavano, egli prese del pane». In entrambi i vangeli l'elemento di Giuda è stato visibilmente aggiunto ad una narrativa già costituita; e siccome la storia del rimorso e del suicidio di Giuda non è interpolata in Marco o in Luca, la conclusione è che in Matteo essa è la più tarda interpolazione tra tutte. Le parole di ripresa sono i nostri indizi.

In Luca il processo è diverso. Là la storia della sfida a Giuda non è data nel resoconto della cena. Ma all'inizio del capitolo possiamo rintracciare, mediante le parole di ripresa, l'interpolazione del tradimento di Giuda, il quale, ora siamo costretti a concludere, era stato interpolato o prima o dopo in termini simili nel primo e nel secondo vangelo. Il 22° capitolo di Luca comincia: «La festa degli Azzimi, detta la Pasqua, si avvicinava. E i capi dei sacerdoti e gli scribi cercavano il modo di farlo morire, ma temevano il popolo». Poi vengono i quattro versi che raccontano di come Satana entrò in «Giuda che era chiamato Iscariota», e  il settimo verso riprende: «Venne il giorno degli azzimi, nel quale si doveva sacrificare la Pasqua» — una ripetizione creata, come negli altri casi, dal paragrafo precedente. Quando questo è seguito (verso 24) dal paragrafo in cui viene detto che gli apostoli scioccamente litigiosi siederanno sui troni a giudicare le dodici tribù di Israele, non possiamo che concludere che, per quanto quel passo possa essere stato interpolato, esso deve essere stato scritto prima che la storia diffamante del tradimento di Giuda fosse stata inserita. E quando arriviamo nello stesso capitolo alla storia del tradimento di Pietro, e notiamo quanto si legge naturalmente il verso 63 proprio dopo il verso 54, con la storia di Pietro lasciata fuori, lo stesso sospetto di interpolazione si impone con forza. 

Che tali ripetizioni di frasi connettive come abbiamo notato siano veramente segni di interpolazione lo studioso può forse realizzarlo meglio volgendosi ad un'inserzione particolarmente ovvia nel primo vangelo (11:25-30), che comincia: «In quel tempo Gesù prese a dire: Io ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra» e termina: «Poiché il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero». Non c'è nessuna coerenza nell'espressione «In quel tempo»; e l'ultima delle due parti che costituiscono il passo è ancor più inconsistente col contesto. L'abate Loisy, cercando incertamente di collegare entrambi con il ritorno dei discepoli missionari, confessa il suo sospetto che il secondo sia post-gesuano; e molti critici respingono tutto quanto. È davvero uno stretto parallelo alle formule poetiche dei misteri pagani; [3] però anche a passi di Geremia (6:16) e di Ecclesiastico 51:25 seq.

Ma il punto che per il momento ci riguarda è la modalità dell'interpolazione. Il prossimo capitolo comincia esattamente come inizia l'interpolazione: «In quel tempo Gesù passò......». L'interpolatore doveva pervenire nel suo passo da qualche parte e in qualche modo. Come un brano di lirismo, non correlato ad alcun episodio, esso non ha da nessuna parte un posto adeguato; ma egli pensa di salvare la situazione introducendolo appena prima l'espressione «In quel tempo» che comincia il capitolo 12. La semplice psicologia dell'interpolatore è soddisfatta da quella misura di adattamento al contesto. Se non c'è coerenza di materiale, ci potrebbe essere almeno una coerenza manifesta della forma. [4

Non è improbabile che la ripetizione di frasi di richiamo fosse ritenuta necessaria per gli scopi di apprendimento orale e di recitazione; e la qualità compositiva cadenzale che il signor Loisy sta esponendo in definitiva, riguardo ai vangeli in generale, è particolarmente evidente nel passo in questione. Comunque sia, i vangeli sono densamente costellati da segni di inserzione cumulativa, e in particolare vediamo un processo di accrescimenti successivi relativi a Giuda e a Pietro su una storia che nella sua forma precedente non raccontava né del tradimento di Giuda né del rinnegamento da parte di Pietro. Tutte le allusioni occasionali a Giuda nei precedenti capitoli dei sinottici relativi al traditore predestinato sono semplici conseguenze dell'inserzione della storia al suo culmine. La loro inserzione ovviamente è retrospettiva. Giuda è descritto come «uno dei dodici» dopo tutte le inserzioni precedenti. Frasi come «Allora uno dei dodici, che era chiamato Giuda Iscariota», e «Allora Giuda che lo tradì», potrebbero da sole rivelare la procedura. Il fatto che Luca non inserisce la storia del rimorso e del suicidio di Giuda, e la sequela relativa al campo del vasaio, che in Atti è pure visibilmente tardiva, è una conferma ulteriore della conclusione della posteriorità dell'inserzione in Matteo. Fosse stata presto in circolazione, Luca l'avrebbe presentata naturalmente. E, una volta di più, la cosa sorprendente è che la scuola biografica non ha visto le tracce evidenti di un processo che doveva essere visto così chiaramente. 

Quando troviamo uno studioso così riflessivo e così sincero come il professor F. C. Burkitt cancellare blandamente per sé tutti quelli indizi con l'osservazione che «Niente è più caratteristico dello stile di Matteo della sua predilezione per la ripetizione delle sue stesse frasi», [5] siamo quasi spinti a disperare della visione accademica. Come abbiamo visto, la ripetizione della frase fatta dall'interpolazione relativa a Giuda alla Cena è quasi esattamente la stessa in Marco come in Matteo; e in Luca abbiamo una ripetizione analoga della frase nei confronti del pane azzimo e della Pasqua, per lo stesso tipo di motivo — la necessità di saldare un inserimento. Cosa allora deve rendere conto della ripetizione di frasi in Marco e in Luca? Il dottor Burkitt, al pari di così molti dei modernisti, si appoggia fortemente sulla canna spezzata della priorità di Marco. Che cosa allora può fare per lui in questo caso il presupposto della priorità di Marco? Matteo trovò una ripetizione così congeniale da copiare quella di Marco? Non è chiaro che o l'interpolazione è tale in entrambi, oppure che Marco segue Matteo con le solite differenze verbali, tuttavia con la ripetizione significativa?  

Ancora e ancora, in Matteo, la ripetizione delle frasi dovrebbe suggerire ad uno studioso attento che vi è stata una manipolazione del testo. Abbiamo notato il caso del passo 11:25-30. Ma cosa del capitolo 22, dove abbiamo (a) il paragrafo (15-22) che comincia: «Allora i Farisei si ritirarono, e tennero consiglio per vedere di coglierlo in fallo nei suoi discorsi», che tratta del tributo a Cesare; poi (b) del paragrafo (23-33): «In quello stesso giorno vennero a lui dei Sadducei», che discute della resurrezione; poi (c) di quello che comincia: «Allora i Farisei, udito che egli aveva chiuso la bocca ai sadducei, si riunirono assieme» per discutere con Gesù «il grande comandamento»; e infine (d) del paragrafo (41-46): «Mentre i farisei erano riuniti assieme».

Qui la consonanza dei «riunirsi assieme» non è così esatta in greco come in inglese, ma abbiamo in tutti e tre i paragrafi le parole «dicendo, Maestro» (Didaskale), e i primi due finiscono con frasi con lo stesso effetto, entrambe che cominciano con Καὶ ἀκούσαντες; e invece di spiegare i fenomeni con la predilezione di Matteo per la ripetizione di frasi siamo indotti a ipotizzare un processo di accrescimento in cui un dibattito viene aggiunto ad un altro per stabilire la dialettica trionfante del Signore. Qui la differenza tra Matteo e Marco (12:13-37) è che quest'ultimo rivela delle aggiunte successive, senza il meccanismo del «riunirsi assieme» dei gruppi ostili, riducendo una forma più elaborata ad una forma più naturale di narrativa, come fa così di frequente. 

L'errore dei modernisti, possiamo qui riassumere, è che leggono piuttosto con il loro orecchio interiore invece che con i loro occhi, sul presupposto che tra le voci ventriloque dei vangeli possono identificare la voce del Signore, e trovandola semplicemente in quelle che a loro piacciono di più; mentre se leggessero con occhi vigili potrebbero identificare le diverse mani che manipolarono il testo, rendendolo una meraviglia di mosaico. E così mancano identificazioni che potrebbero almeno in parte servire a loro stesso conforto rivelando la faziosità di qualche materiale imbarazzante.

In merito a questo troviamo un diverso tipo di fallimento che capita a Strauss, il quale così stranamente definì la storia di Giuda «senza dubbio storica», dopo aver indicato alcuni dei suoi aspetti chiaramente mitici. In nessun momento stava prestando qualche attenzione alla struttura come distinta dal significato dei documenti evangelici. Da qui il suo fallimento. Era di fondamentale importanza obiettare alla sua prima 'Vita di Gesù' che ha indicato le innumerevoli discrepanze tra i vangeli senza tentare di tracciare il processo della loro composizione; anche se lui potrebbe ragionevolmente replicare che sarebbe meglio che le due indagini dovessero essere condotte separatamente. Nella sua seconda 'Vita' (1864),tuttavia, scritta quasi trenta anni dopo la prima, non è ancora riuscito a fare il dovuto esame bibliografico; ed eccolo che espressamente parla (3° Auflage, pag. 283) del tradimento di Gesù da parte di un falso discepolo come «senza dubbio storico».

Volkmar nel 1857 [6] aveva mostrato forti ragioni per ritenerlo non-storico; e di quelle ragioni Strauss prende atto. [7] È istruttivo trovare che egli le rifiuta non in quanto prive di peso — che lui non poteva dire e non dice — ma a causa dell'ipotesi secondo la quale Volkmar spiega l'inserzione dell'invenzione in quello che definisce «il vangelo originale». Quell'ipotesi era che il motivo consisteva nel fare un'apertura per il nome di Paolo nell'elenco dei Dodici obbligando uno a venire eliminato — un'intenzione che, riconosce Volkmar, fu attuata negli Atti degli Apostoli dall'invenzione successiva dell'elezione di Mattia da parte degli Undici, una storia la cui motivazione è rivelata, ad avviso di Volkmar, dai versi 21 e 22. Ora, quella è una spiegazione altamente plausibile della procedura; ma nella misura in cui Volkmar attribuiva distrattamente l'invenzione del tradimento di Giuda al «vangelo originale», Strauss argomentava, abbastanza giustamente, che in quella fase l'influenza paolinista non poteva essere abbastanza forte. Su questo punto, tuttavia, egli respinge l'intero argomento contro la non-storicità della storia del tradimento. Eppure se solo Volkmar avesse riconosciuto che la finzione non è primitiva ma successiva, Strauss difficilmente avrebbe potuto rifiutarsi di ammetterlo.

§ 3. L'Elezione di Mattia

Infatti la parte di Atti 1 che si riferisce all'elezione di Mattia al posto di Giuda è nella sua sostanza una manifesta interpolazione come le storie di Giuda nei sinottici. L'idea stessa, infatti, di eleggere per il gruppo dei Dodici, che si presume stabilito da «il Signore», un sostituto per uno screditato e deceduto, è una chiara invenzione, comprensibile solo come espediente in una controversia. Non c'è da nessuna parte alcuna pretesa che il numero fosse stato mantenuto successivamente alla morte dei discepoli o, come dice la tradizione, al loro martirio. Allora perché avrebbe dovuto essere mantenuto in questo modo in un unica circostanza? E, se la storia evangelica è vera, i discepoli come potevano pretendere di eleggere qualcuno per compiere una funzione creata dal Fondatore? 

La storia è un mito retrospettivo, che racconta di un tempo in cui, non essendoci notoriamente nessun gruppo permanente di Dodici, le fazioni combattevano per le loro pretese ad un'autorità derivata dagli Apostoli nei giorni in cui, per tradizione, vi erano dodici Apostoli Giudaizzanti con sacrosante rivendicazioni, e i seguaci del Cristismo gentile andavano reclamando per il loro remoto fondatore, Paolo, uno status tanto elevato quanto quello accordato ai presunti apostoli originali. Il libro degli Atti degli Apostoli è come se fosse il «palinsesto» principale in cui le tracce bibliografiche di quel conflitto si possono seguire. Posteriore com'è l'intera narrativa di apertura del primo capitolo, si può vedere che la storia dell'elezione è ancora più tardiva, come è stato riconosciuto dagli investigatori moderni. [8] La frase introduttiva del verso 15, «In quei giorni, Pietro, alzatosi in mezzo ai fratelli, disse» con la parentesi sovrapposta che segue, rivela la procedura. Come sostiene Jungst, è probabile che il passaggio da «uomini» nel verso 21 a «da noi» nel verso 22 costituisca una redazione; ma è ancora più chiaro che la parentesi nel verso 15, e l'ulteriore parentesi malcelata dei versi 18 e 19, sono toppe sulla toppa principale. Nel primo scritto 2:1 era seguito immediatamente da 1:14.

§ 4. Il rinnegamento di Pietro

Qui la prima conclusione che si impone su di noi è che la storia dell'elezione di Mattia fu fabbricata prima di quella del Rinnegamento del suo Signore da parte di Pietro. Se quest'ultima storia fosse stata già presente nei vangeli al momento dell'inserimento della storia di Mattia all'inizio degli Atti, la procedura del traditore Pietro intesa a scegliere un sostituto per il traditore Giuda sarebbe stata una mostruosità al di là dell'immaginazione. Proprio lui tra tutti gli uomini, in tal caso, avrebbe dovuto rimanere in silenzio. Così è anche il caso con la storia di Anania e Saffira, condannati a morte per una menzogna veniale proprio dall'uomo che aveva rinnegato il suo Signore con maledizioni (presunte in Matteo e in Marco, non in Luca). La storia del Rinnegamento, in fin dei conti, è la contro-invenzione da parte gentile alla storia in Atti dell'elezione di Mattia. E potrebbe essere allo stesso tempo un contrattacco alla storia orribile dell'omicidio soprannaturale di Anania e di sua moglie, che a sua volta potrebbe aver costituito un attacco all'Anania paolinizzante (Atti 9:10), che potrebbe aver figurato in un antico «Atti di Paolo»

§ 5. Barsabba e Barnaba

Vi emerge nel capitolo 1 ancora un altra rivelazione della motivazione. Nel verso 23, si presume che «Giuseppe, chiamato Barsabba, che era soprannominato Giusto», sia stato nominato in competizione con Mattia, con quest'ultimo ad essere eletto. Non c'è nessuna menzione ulteriore di un Giuseppe Barsabba; ma nel capitolo 4, verso 36, abbiamo la storia di «Giuseppe, che dagli apostoli era soprannominato Barnaba, che significa Figlio dell'Esortazione, un levita originario di Cipro». Mentre, comunque, Barnaba figura frequentemente negli Atti, non c'è nessuna menzione ulteriore di Giuseppe Barsabba. È così particolarmente singolare che nel capitolo 15, verso 22, vi sono nominati, dopo Paolo e Barnaba, «Giuda, detto Barsabba, e Sila, uomini autorevoli tra i fratelli», che sono anche classificati (verso 32) come «profeti». E di questo Giuda Barsabba, a sua volta, non c'è  menzione ulteriore.

Da questo groviglio di fabbricazione adattativa vi emerge un'unica conclusione abbastanza chiara. Ad un certo punto nel movimento Gesuista primitivo vi era stato un Giuda Barsabba tra i capi. Quando, negli interessi di un evoluto paolinismo o gentilismo, vi era stata messa in circolazione la storia del tradimento di Gesù da parte di Giuda Iscariota, il partito giudaizzante, rendendosi conto del piano paolinista di fare posto a Paolo nei tradizionali dodici, lo contrastò fabbricando una nuova storia dell'elezione di Mattia. E, siccome figurava allora nel ricordo di alcuni che un Giuda Barsabba era stato un «uomo autorevole tra i fratelli», si giudicò più opportuno coprire le sue tracce introducendo sfacciatamente un Giuseppe Barsabba, ulteriormente camuffato come Giusto, in competizione per l'apostolato lasciato libero da Giuda Iscariota. Sfortunatamente — o per fortuna — l'intraprendente redattore dimenticò, oppure mancò, di eliminare dai manoscritti la menzione di Giuda Barsabba nel capitolo 15, con la sua rivelazione per coloro che possono portare l'intelligenza critica su di essa.

§ 6. Considerazioni Generali

Che l'intera storia della fabbricazione, invenzione su invenzione, sarà mai districata sarebbe avventato da prevedere. Il lavoro certamente non sarà fatto da uomini di chiesa vincolati a «salvare la faccia» del cristianesimo primitivo. Ma vi spicca inequivocabilmente il fatto decisivo che il mito evangelico del Traditore Giuda Iscariota si sviluppò dalle occulte rivalità tra Paolinisti gentilizzanti e Giudaisti autocelebrativi, in quale tempo nel secondo secolo è al presente impossibile da dire. La conclusione ampiamente ragionevole è che la manipolazione dei vangeli a questo proposito si rese efficace in un tempo in cui il giudeo-cristianesimo non era che un retaggio piccolo e in declino, e la maggior parte della Chiesa risiedeva nei territori di lingua greca.

Che la storia di Giuda sia penetrata tardi nei vangeli lo abbiamo visto con un semplice esame bibliografico, la cui omissione parimenti da Strauss e da Volkmar lasciò gran parte della loro argomentazione a priori e, come vediamo proprio in questo caso, non convincente. Volkmar ostacolò il suo argomento negativo contro la storicità del tradimento introducendo la tesi che i Paolinisti fossero gli autori del «vangelo originale», e che in quella veste inventarono la storia.

Uno studio della trama dei vangeli avrebbe potuto aprirgli gli occhi di fronte al suo errore. Avrebbe visto a questo punto, non una narrativa primitiva, ma una tarda interpolazione, sia in Matteo che in Marco; e avrebbe potuto così diffidare altri dal cadere nell'errore relativo di credere che Marco sia il vangelo più antico. Tutto ciò che ha ottenuto da quel duplice errore è stato di far chiudere gli occhi a Strauss di fronte allo schiacciante argomento esterno contro la storicità della storia di Giuda. Dal respingimento della tesi infondata di Volkmar di un primitivo vangelo paolinizzante, Strauss passò ciecamente alla conclusione che la storia del tradimento è «senza dubbio storica».

 E questo è tanto più sorprendente perché nella sua prima Vita egli aveva indicato serenamente le ragioni per concludere che l'intera storia del tradimento del Messia da uno che si era seduto a tavola con lui è una delle solite derivazioni evangeliche dall'Antico Testamento, dove la storia originale era la storia di Davide e del traditore Achitofel, che alla fine si impiccò (2 Samuele 15:31; 17:23), e il verso nel 41° Salmo (verso 9): «Anche l'amico con il quale vivevo in pace, in cui avevo fiducia, e che mangiava il mio pane, si è schierato contro di me». Quel testo è presentato effettivamente nel quarto vangelo da Gesù come il motivo della sua azione; ed erano proprio questi spunti della tradizione veterotestamentaria ad aver portato Strauss a ritenere mitici così parecchi elementi della storia evangelica. La storia del pagamento a Giuda è fabbricata nella stessa maniera sul passo di Zaccaria (11:12-13):

«Poi dissi loro: Se vi pare giusto, datemi la mia paga; se no, lasciate stare. Essi allora pesarono trenta sicli d'argento come mia paga. Ma il Signore mi disse: Getta al vasaio [Siriaco: nel tesoro], questa bella somma, con cui sono stato da loro valutato.

Ma era in particolare il compito della scuola biografica di individuare la posteriorità della storia del tradimento. L'abate Loisy, che riconosce l'incredibilità della storia del processo di mezzanotte di fronte al Sinedrio, non può vedere l'altrettanta incredibilità della storia dell'inutile tradimento, e ne discute con i suoi soliti «sans doute». [9] Tuttavia la rimozione della storia di Giuda dai vangeli come un'interpolazione tardiva — una rimozione richiesta dalla negazione di una storia simile anche nell'interpolazione relativa alla resurrezione in Prima Corinzi — avrebbe rimosso almeno uno dei più ovvi ostacoli al credo nella storicità della storia principale.

Non che la rimozione possa finalmente salvare la storicità del resto. Loisy ha ammesso con esplicito candore che se la storia del processo di fronte a Pilato può essere efficacemente messa in discussione non vi rimane nessun fondamento solido per affermare la storicità di Gesù. E quella storia è considerata incredibile e fittizia da un numero crescente di studiosi, il prodotto o del generale obiettivo evangelico di rovesciare la colpa della morte di Gesù sugli ebrei oppure di un particolare obiettivo di dissociare il Gesù evangelico dalla memoria di un sacrificio umano in cui un «Gesù Barabba» era in origine la vittima annuale, e successivamente la finta vittima. Anche così le storie del tradimento di Giuda e del rinnegamento di Pietro possono essere viste come risultati dell'animosità gentile contro i Dodici nella Chiesa antica. [10] Domandiamoci come mai Pietro poteva essere descritto come uno che avrebbe tenuta alta la testa nei primi giorni di Gerusalemme, e che avrebbe maledetto Anania e Saffira per un peccato assai più lieve, se fosse stato noto che aveva rinnegato vilmente e ripetutamente il suo Signore — domandiamoci questo, e otterremo una nuova visione del lungo processo di recriminazione e imputazione tra cristiani Giudaisti e cristiani gentili, che negli Atti si cerca di ridurre ad un compromesso.

È stata a lungo la moda degli esegeti clericali eludere o sminuire il significato di quel conflitto, la cui realtà storica fu chiarita per prima da Baur; e anche un pensatore così non convenzionale come il dottor Burkitt ha applaudito al verdetto che «È uno degli errori della Scuola di Tubinga il non aver riconosciuto che Pietro, non solo in Atti ma nelle Epistole paoline, è dalla parte ellenistica, non dalla parte ebraica». «Questa ammirevole frase» scrive il dottor Burkitt, [11] «potrebbe essere presa per segnare la fine di una lunga controversia». Segna in realtà la continuazione, o la rinascita, della tattica di porre il cannocchiale sull'occhio cieco. Limitare l'indagine alle dubbie attività di Pietro e Paolo ricavate da documenti falsificati equivale ad escludere dall'indagine la sostanza principale dei fatti. La caratteristica dell'ortodossia «liberale» è sempre stata [12] la pretesa, contro Baur, che il dissidio tra Paolo e Pietro fosse di breve durata. I testi evangelici, studiati criticamente, sono la testimonianza che il conflitto reale fu lungo, e che la narrativa di Atti è una semplice drammatizzazione di uno scisma prolungato. [13

NOTE

[1] Si veda l'accurata introduzione di J. Rendel Harris alla sua preziosa trascrizione e traduzione, 1900.  

[2] Opera citata, pag. 261. 

[3] Si veda Christianity and Mythology, second edizione, pag. 388. Confronta Montefiore, The Synoptic Gospels, in loc.

[4] In greco la ripetizione formale è forse più evidente: 

Ἐν ἐκείνῳ τῷ καιρῷ ἀποκριθεὶς ὁ Ἰησοῦς

Ἐν ἐκείνῳ τῷ καιρῷ ἐπορεύθη ὁ Ἰησοῦς

[5] Christian Beginnings, 1924, pag. 16.

[6] Die Religion Jesu und ihre erste Entwickelung, 1857, pag. 260 seq.

[7] Leben Jesu (seconda), 3° ed. 1874, pag. 273-274 (§ 43).

[8] Una rassegna concisa dello studio degli Atti fino al 1895 è data in Die Quellen der Apostelgeschichte di Johannes Jüngst (Gotha, 1895), che fa un importante progresso rispetto al precedente lavoro di Spitta. Il successivo lavoro inglese sembra non aver tratto profitto dalla sua analisi. Quanto alla natura secondaria della storia dell'elezione di Mattia, si veda la sua sezione su “Die Ersatzwahl für Judas”, pag. 23-6, e la “Quellenübersicht” alla fine. La principale critica a cui Jüngst sembra essere aperto è l'abitudine di ipotizzare “Quellen” per tutte le differenze invece di indicare semplicemente cambiamenti di mano. Ma l'esame è attento e convincente. 

[9] L'Evangile selon Marc, 1912, pAG. 419.

[10] Il signor L. G. Rylands, nella sua opera importante su The Evolution of Christianity (R. P. A., 1927), scrive (pag. 178) che “L'episodio del rinnegamento di Gesù da parte di Pietro fu incluso nel Vangelo secondo gli Ebrei, un episodio così vergognoso per Pietro che nessun giudeocristiano poteva averlo inventato”. Si dovrebbe notare che la base documentaria di questo è piuttosto esile, essendo soltanto una nota marginale sul Codex A di Tischendorf in Matteo  26:74: 'Nel vangelo ebreo [Τὸ Ἰουδαικόν]: “«Ed egli negò, giurò e maledisse”'. Ancora, è possibile che la storia fosse stata aggiunta in una data successiva ad un vangelo originariamente ebraico. Il signor E. B. Nicholson ipotizza un manoscritto “nazareno”.

[11] Christian Beginnings, pag. 57 nota, citando i professori Jackson e Lake.

[12] Ad esempio, Donaldson, Crit. Hist. of Christ. Lit., 1864, 1, 43.

[13] Sono indotto ad aggiungere a questo proposito che il professor Burkitt non tiene in debito conto l'esposizione di Baur in Das Christenthum. L'adozione inglese di un atteggiamento ritschliano piuttosto che bauriano è l'espressione naturale della preferenza clericale per il tradizionalista lassista e auto-contradditorio rispetto al più rigoroso ragionatore. Baur non è affatto soddisfatto dal facile pronunciamento citato. Di nuovo, nel suo stesso verdetto (The Gospel History, 3° edizione, pag. 39), che “Baur e i suoi seguaci” respinsero la tesi della priorità di Marco perché Matteo ha il Discorso della Montagna e Marco no, il dottor Burkitt è semplicemente stravagante. “Questo è naturalmente un modo molto rozzo di porre la questione”, confessa piacevolmente, “ma credo che sia abbastanza vicino”. Come questo possa essere detto da uno che ha studiato la massiccia discussione di Baur nella Kritische Untersuchungen über die Kanonischen Evangelien è un mistero. Baur non poteva aver scommesso il suo caso sul Discorso. Egli applica una critica severa su tutta la linea; cosa mai fatta dall'altra parte in risposta. È molto più plausibile dire che la scuola marciana si è rivolta e si è aggrappata alla sua tesi principalmente perché Marco li solleva dalla Storia della Natività, dando così un utile vantaggio alla visione neo-unitaria. Questa motivazione, chiara al punto di partenza, è ora accuratamente ignorata dai campioni della priorità di Marco. 

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