sabato 6 marzo 2021

IL MITO DI GESÙIl Mito del Vangelo

 (segue da qui)

IV. — IL MITO DEL VANGELO

Così viene anche respinta la mistificazione evangelica del Vangelo immateriale. Quando chiediamo, Quale era il vangelo predicato dai Dodici (incluso Giuda) quando furono inviati dal Maestro? non c'è risposta se non che fosse il semplice annuncio della venuta imminente del Regno di Dio, che era già stato, secondo i documenti, il vangelo di Giovanni il Battista e dei suoi «discepoli». Gesù, allora, secondo i documenti, non aveva nulla da insegnare ai suoi discepoli nel senso di un vangelo se non quella formula — quella, e l'arte di «cacciare demoni», e l'enfasi sulla «Conversione». Infatti il significato delle parabole doveva essere espressamente negato alla popolazione, che non era in grado di capirle.

Così la concezione sconcertante di un maestro etico che indottrina il suo discepolo con una sublime tradizione, e poi che lo guarda insensibilmente vendere la sua anima a Satana, viene respinta una volta per tutte. Non ci furono Dodici Apostoli gesuani; non ci fu nessuna predicazione di un vangelo da parte loro; non ci fu nessuna istruzione di Giuda; non ci fu nessun tradimento. Tutto ciò, almeno, è mito.

I nuovi problemi aperti dalla tesi mitica, invero, sono molteplici; e c'è spazio per l'ipotesi che il culto sacramentale quale deve essere stato uno degli elementi primari comportasse un pasto sacramentale di Dodici, con un rituale che rappresentava il Dio sacrificale, secondo la maniera del tradizionale Sacramento dei Dodici in cui Aronne, l'Unto (= Messia), e i (dodici) anziani di Israele «fecero un banchetto con il suocero di Mosè davanti a Dio» (Esodo 18:12). Un pasto sacramentale di dodici, con un presidente, sembra appartenere anche alla pratica del Tempio ebraico; e la figura mistica e mitica di Melchisedec, «Re di Pace», accettata dai primi cristiani come un allegoria di Gesù, è associata a sua volta ad un sacramento di pane e vino. Potrebbe essere stato che in un antico culto di un Dio Gesù analogo ad Adone e ad Osiride dodici celebranti fossero conosciuti come «Fratelli del Signore» prima che il culto ufficiale dei vangeli e degli Atti venisse creato sulla base di una storia di resurrezione e messianicità. Ma questo rimane materia di speculazioni.

Quel che possiamo dedurre dalla storia generale, rispetto ai vangeli che sono visibilmente compilati per scopi di edificazione, è che c'era un culto rituale in cui un personaggio sacro era celebrato alla maniera dei culti sacramentali che erano così comuni tra i pagani, e che sappiamo sopravvissuti tra i semiti. [1] Se c'è un unico principio su cui i miticisti sono stati d'accordo prima che sorse il problema di applicare i loro principi al cristianesimo, è che «il rituale è più antico del mito». Vale a dire, ovunque una storia di un personaggio divino è riferita come l'origine di un rito, la storia è un'invenzione per rendere conto del rito, le cui origini sono preistoriche per gli adoratori. Questa è una conclusione giustificata dall'intera somma di tradizioni mitologiche, e dal fatto che tutte le antiche storie di Stati e di istituzioni cominciano con i miti alla stessa maniera. 

Se eminenti antropologi, che hanno effettivamente affermato questo principio, vi rinunciano quando arrivano al culto di Cristo, è una loro faccenda personale. Lo studioso scientifico scrupoloso del passato deve aderire ai principi scientifici stabiliti dove sono chiaramente applicabili. L'intero aspetto dei documenti evangelici, specialmente dove presumono un'evangelizzazione sistematica durante la vita del Dio-Uomo, vieta ogni credo razionale in una tale procedura. Abbiamo visto che l'istituzione stessa dei Dodici Apostoli cristiani è un'invenzione, derivante da una base documentaria ebraica. La storia della Missione dei Dodici è così già cancellata; ma la sua falsità è resa evidente dai documenti stessi. 

È particolarmente significativo che nel primo vangelo la storia dell'invio dei dodici (immediatamente dopo la «chiamata») è una interpolazione così goffa che non c'è nessuna menzione del loro ritorno; e dopo un capitolo in cui Gesù tratta di Giovanni lo troviamo che cammina nei campi con loro — «affamati» come detto sopra; senza una parola del ricordo della loro esperienza precedente. Quell'esperienza è presentata da Marco (6:12, 13) in due frasi concise: «E partiti, predicavano che la gente si convertisse, scacciavano molti demoni, ungevano di olio molti infermi e li guarivano». Che una testimonianza del genere dovesse passare per storia tra uomini istruiti, e dovesse essere indicata ai nostri giorni da studiosi clericali come proveniente da un «testimone oculare» — per intenderci, da Pietro — è un sufficiente promemoria della distanza da colmare prima che la storia evangelica sia generalmente soggetta ad uno studio razionale.

Luca, a sua volta, si accontenta di un'unica frase: «Allora essi partirono e giravano di villaggio in villaggio, annunciando dovunque la buona novella e operando guarigioni». Ma in questo vangelo dichiaratamente tardivo abbiamo successivamente la storia (capitolo 10), assente dagli altri, di un invio di settanta altri discepoli, con la stessa serie di comandi, e con un'istruzione speciale relativa ad entrare nelle case di ospiti amichevoli, «mangiando e bevendo di quello che hanno». E i settanta fanno un rapporto: «Signore, anche i demoni si sottomettono a noi nel tuo nome»

Questo ovviamente non è una prova di nulla. La storia dei settanta viene respinta perfino dagli studiosi ortodossi come un'invenzione (per i critici più radicali, un'invenzione «paolinizzante») per stabilire una missione gentile da parte del Fondatore, dato che «settanta» o «settanta-due» sono per gli ebrei il numero accettato delle «nazioni», e forse di un gruppo sussidiario di esattori di tributi impiegati dal Sommo Sacerdote. Che l'invio della missione di gruppo debba essere un fatto storico, e tuttavia essere stato trascurato dagli altri sinottici, è una proposta rifuggita persino dai nemici dichiarati della tesi mitica. Eppure un esercizio davvero piccolo di riflessione critica consentirà a chiunque, non impegnato alla tradizione, di rendersi conto che la storia dell'Invio dei Dodici è ugualmente non-storica. Essa è un interpolazione non correlata in Matteo, dove non c'è nessun accenno né ad un ritorno né ad un rapporto; e il conciso rapporto in Marco, visibilmente la riflessione di un redattore, è di per sé una confessione di ignoranza. L'intera testimonianza è assolutamente sospesa «in aria». 

L'Invio degli apostoli, in breve, non è che un esempio più antico, su larga scala, della procedura documentale riguardo la storia di Giuda. È stato imposto su un vangelo che in origine ne era privo e che, nella sua forma più antica, deve essere stato privo anche della menzione dei Dodici. Così la testimonianza si decompone, pezzo per pezzo.

Siamo costretti a concludere che nella loro forma più antica il primo e il secondo vangelo non possedevano nessuna menzione di Dodici Apostoli; e che solo qualche tempo dopo che quell'elemento era stato introdotto nei documenti vi si aggiunse la narrazione del tradimento di Giuda, constatando che allo stesso modo in Matteo, in Marco e in Luca essa reca i segni specifici di un'interpolazione. Ma l'invio dei dodici per predicare il vangelo è a sua volta un'interpolazione tardiva. La sua introduzione in Marco si trova in un contesto diverso da quello in Matteo, dove gli si fa seguire immediatamente la «chiamata». In Marco, dove la chiamata (3:13) si svolge sul «monte», abbiamo quel dettaglio mitologico aggiuntivo, che rivela un simbolismo successivo, ma la missione viene inserita in seguito (6:6b-13), in una maniera che denuncia o un'interpolazione oppure una correzione da parte di Marco delle altre narrazioni:

«Gesù andava attorno per i villaggi, insegnando. Allora chiamò i Dodici, ed incominciò a mandarli a due a due......Ed essi scacciavano molti demoni, ungevano di olio molti infermi e li guarivano».

Se questo si possa considerare un passo originale in Marco, basterebbe da solo a confutare il presupposto neo-unitariano secondo cui quello sia il vangelo più antico. La frase di chiusura del passo completa l'episodio, dove Matteo lo lascia senza alcuna chiusura. Se Matteo avesse copiato Marco, un tale elemento non avrebbe potuto essere ignorato. Ma, accorciando come fa la storia del discorso agli Apostoli in Matteo, è evidentemente sovrapposta su Marco, interpolata col minimo interesse per la verosimiglianza nell'introduzione.

È solo sulla tesi mitica che i fenomeni sono assolutamente comprensibili. La storia della Missione in Matteo, al pari dell'intero apparato dei Dodici, fa parte della propaganda giudaizzante  che rivendicava preminenza per l'originaria fazione ebraica della chiesa. Il mito dei Dodici viene prima. Più tardi viene la storia della Missione, che rivendica di nuovo uno status divino primario per la fazione ebraica. In Marco, che, al di là se e quando composto per la prima volta, è gentilizzante e non giudaizzante, sono omessi tutti gli elementi giudaizzanti nelle istruzioni ai dodici. In Luca l'obiettivo paolinizzante è realizzato a questo proposito dall'invenzione ulteriore della Missione dei Settanta, un contrattacco alla Missione dei Dodici.

È ancora in una fase successiva, quando il dramma misterico gentilizzante è stato aggiunto ai sinottici, che le particolari compromissioni di Giuda e di Pietro influenzano ancora ulteriormente la bilancia a favore della parte gentilizzante.  A questo punto i Vangeli sopravvissuti, con Luca in circolazione, sono prevalentemente «cattolici», sebbene il nazionalismo giudaico della dottrina in Matteo non possa essere eliminato. La storia di «Luca» del processo di Erode, aggiunta agli altri, rovescia la colpa dell'uccisione di Gesù in modo decisivo sugli ebrei, senza alcun interesse per il problema teologico risultante, sollevato specialmente dalla storia di Gesù, relativo a come si debba valutare un atto malvagio che, secondo la concezione «cattolica», compie la salvezza dell'umanità.

Tra i problemi accidentali c'è quello della data probabile della compromissione di tutti i dodici: «Allora tutti i discepoli, abbandonatolo, fuggirono» (Matteo 26:56b): una clausola importante sovrapposta ad un'altra con cui non ha nessuna coerenza. S deve supporre che sia stata inserita dopo la storia che fa Pietro seguire Gesù fino alla «corte», ma crea in modo significativo una confusione collocandolo sia «dentro» che «fuori». In Marco (14:50) la dichiarazione è più breve, ma ancora incriminante; in Luca, curiosamente, essa è assente, come se il compilatore o i redattori rinunciassero all'intera incriminazione. La conclusione sembrerebbe essere che la tendenza paolinizzante in Luca, come negli Atti, è parzialmente controllata da uno spirito di compromesso; e che questo compromesso, che fu annullato in alcuni punti dall'interpolazione successiva delle storie del tradimento e del rinnegamento di Pietro, fu lasciato indisturbato nel momento della non-menzione della fuga degli undici.

Nel quarto vangelo anche quell'attribuzione è assente, dato che là si specifica che «un altro discepolo» aveva accompagnato Pietro al palazzo del sommo sacerdote. Ma anche là, è importante notare, la storia del rinnegamento di Pietro (18:25-27) è un'interpolazione successiva. Il verso 24 recita: «Anna perciò lo mandò legato a Caifa, sommo sacerdote»; e il verso 28: «Condussero Gesù perciò dalla casa di Caifa nel pretorio». Qui, nell'ultimo vangelo tra tutti, la storia del rinnegamento figura come un'aggiunta posteriore. Questa conclusione, da allora proposta a lungo come parte della tesi mitica, è stata avanzata di recente come un fatto testuale indiscutibile dal dottor Rudolf Bultmann, [2] professore di teologia a Giessen (ora a Marburg), indipendentemente da ogni discussione della tesi mitica. Non vi è quindi alcun modo critico di evitare la conclusione che abbiamo raggiunto su quel problema particolare. La storia del rinnegamento appare essere ancor più tardiva di quella del tradimento.

Finora, siamo condotti alla conclusione che nella loro forma più antica i vangeli non solo non avevano nessuna storia del Tradimento e nessuna storia del Rinnegamento, ma non avevano neanche una storia o una lista di Dodici Apostoli, e, a fortiori, nessuna storia di una Missione dei Dodici. Devono avere presentato allora, con o senza la storia della Nascita, un Gesù che piaceva al credo o da Maestro oppure da Operatore di Miracoli. È una di quelle due raffigurazioni, allora, un residuo fatto storico?

NOTE

[1] Si dovrebbe ricordare qui che questa opinione non è accettata da tutti i proponenti della tesi mitica.

[2] Die Geschichte der Synoptischen Tradition, 1921, pag. 162, 163.

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