giovedì 4 marzo 2021

IL MITO DI GESÙAnalisi Storica e Testuale

 (segue da qui)

II. — ANALISI STORICA E TESTUALE

Lo studio non è minimamente una campagna pianificata di «distruzione». Non è una strategia di «materialisti». Si può dire che ha germogliato, dopo l'escursione di Bruno Bauer nella Germania pre-imperiale, dagli studi testuali scientifici di un numero di teologi olandesi (in particolare da Pierson e Loman) — certamente non rivoluzionari o un gruppo superficiale. Due dei principali esponenti viventi della Tesi Mitica, il professor Arthur Drews e il professore W. B. Smith, sono teisti dichiarati. L'impresa è semplicemente una continuazione più scrupolosa del lavoro di critica storica, iniziata molto prima da Renan, gestita da lui più artisticamente che scientificamente, e  portata avanti con maggiore attenzione da molti seri studiosi fin da allora. Il vero impulso ad un trattamento sempre più radicale del problema è solo il fallimento degli aspiranti biografi a raggiungere una soluzione ragionevole — il fallimento su cui ha insistito Schweitzer, con soddisfazione temporanea di Oxford e di Cambridge, e fatalmente condiviso da lui stesso. 

Il presente scrittore, come ha affermato altrove, ha iniziato più di quarant'anni fa a rintracciare, sociologicamente, la reale evoluzione storica della Chiesa cristiana, sul presupposto non vacillante che essa cominciò con un Gesù Maestro, che aveva Dodici Discepoli. È stato il semplice sforzo di collegare storicamente quel presupposto con tutte le prove documentali che a poco a poco lo hanno costretto alla resa, pezzo per pezzo, dei presunti dati primari, e così a posporre indefinitamente la costruzione sociologica che si era accinto a fare, a favore della ricerca necessaria relativa alle fondazioni reali dell'intero sistema. 

Questa ricerca comporta da subito l'utilizzo dei lavori di molti studiosi moderni, da Baur e Strauss a Wrede e Schweitzer, e uno studio bibliografico del testo che né questi né gli specialisti nella ricerca accademica testuale hanno fatto adeguatamente. Concentrandosi sul problema della compilazione dei vangeli l'uno dall'altro o da «fonti», essi mancano molti dei fenomeni di accrescimento perpetuo tramite invenzioni posteriori relative all'azione, sebbene riconoscano interpolazioni della dottrina. Abbiamo visto come tutti parimenti hanno trascurato le chiare tracce testuali dell'interpolazione posteriore della storia di Giuda, nonostante il riconoscimento di quelle tracce avrebbe potuto salvare effettivamente la tesi biografica da una delle sue difficoltà più flagranti.

Il Dramma. — Essi hanno mancato ugualmente le prove testuali che vanno a provare che la storia in cinque atti della Cena, dell'Agonia, della Cattura, della Crocifissione e della Resurrezione, così com'è nei primi due dei sinottici, era un testo drammatico, ridotto alla forma narrativa con un minimo di narrativa necessaria, e aggiunto ai vangeli dopo che quelli, o alcuni di loro, erano in circolazione. Questa tesi soleva essere scartata sulla base del fatto che gli ebrei erano inveteratamente ostili al dramma. Può difficilmente essere scartata così dalla scuola emergente di esegeti professionisti che vedono nei vangeli un prodotto ellenistico. La ricerca accademica tedesca ora riconosce le derivazioni greche di molte storie di miracoli, [1] dopo che il defunto dottor Conybeare aveva deriso l'idea con soddisfazione dei tradizionalisti; e il professor Burkitt e altri riconoscono la forza dell'influenza ellenistica perfino a Gerusalemme. L'emergere dell'influenza greca in un dramma misterico diventa così probabile piuttosto che altrimenti. [2]

E, sebbene la forza principale dell'argomentazione risiede nell'attuale morfologia drammatica dei vangeli a questo punto, la probabilità è aumentata dalla nota esistenza di drammi misterici associati all'adorazione di Osiride e di altri Dèi Salvatori. Forse il parallelo più importante di tutti è quello citato dal professor Van den Bergh van Eysinga [3] a proposito del culto di Eracle, che, sappiamo, fu descritto storicamente da Diodoro Siculo (1:2) mentre «passò facendo del bene».  Come nota lo studioso olandese, la tragedia senecana Ercole sul monte Eta è basata probabilmente su una  tragedia greca «stoico-cinica» precedente attribuita a Diogene di Sinope, che probabilmente sarebbe stata una esibizione più interessante.

Nel dramma di Seneca il semidio, figlio di Giove e di una madre mortale, descrive i suoi servigi nel liberare gli uomini da molti mali, e pretende di essere accolto in cielo. Ha ucciso i mostri divoratori; è «disceso agli inferi» e penetrato nella tana di Cerbero; ha distrutto il Dio della Terra Anteo, e abbattuto Busiride davanti ai suoi altari di sacrifici umani. Tutte le nazioni lo lodano: ha punito ogni sorta di delitti a mani nude: non chiede che il permesso di ascendere al cielo: può trovare la via da sé mediante la morte. Attraverso la giungla della declamazione di Seneca seguiamo il mito di Eracle e della vendicativa Deianira. Lui, l'equivalente di Sansone, non è «senza peccato» e un dio asessuato, e la gelosia di sua moglie reca su di lui la tortura della veste di Nesso, per cui uccide Lica.

Lui, il vincitore universale, geme e piange; la sua madre addolorata, Alcmena, viene a piangere con lui; ma egli padroneggia la sua agonia e decide di morire, invitto, sulla grande pira che lui stesso ha ordinato di edificare, non mostrando nessuna debolezza, confortando sua madre finché riesce a guardare con occhi asciutti, e incoraggiando i suoi compagni con la sua perfetta fortezza nella morte. «Ecco già il Padre mi chiama e spalanca il cielo: vengo, padre!» sono le sue ultime parole. Quindi, quando la mater dolorosa ha raccolto le sue ceneri e ha invitato il mondo a piangere con lei, arriva la voce dell'asceso Ercole a dirle di non piangere più, poiché egli è salito al cielo e siede con gli immortali, avendo vinto una seconda volta la morte. [4

Molto diversa, certamente, è la breve e semplice tragedia senza sesso allegata ai vangeli, l'opera, felicemente, di mani meno letterate di quelle di Seneca; ma a sua volta la commemorazione di un Eroe del Culto che mai visse. Avevano servito modelli più semplici di quelli che possiamo trovare nella secondaria tragedia senecana; ma c'era un dramma, che metteva in scena il sacramento primordiale e il sacrificio primordiale; e lo rivela la concisa trascrizione alla fine dei vangeli. 

Che lo studioso si rivolga da sé alla storia dell'Agonia in Matteo e in Marco e osservi come (Matteo 26:44-46; Marco 14:40-42), a ridosso di un'«uscita» e di un «inizio», vi sia stata una trasposizione di frase che esegue due discorsi in uno. Si fa dire a Gesù, in un discorso: «Dormite ormai e riposate;.......Alzatevi, andiamo»; dove nel dramma gli si doveva far dire: «Dormite ormai e riposate» alla sua seconda entrata in scena; mentre l'espressione finale «Basta» era pronunciata alla terza entrata in scena. Solo un testo drammatico fatiscente, seguito senza comprensione, avrebbe potuto ammettere la confusione. Dato che manca l'indizio della natura drammatica della sezione, studiosi come Bleek, Volkmar e Wellhausen si sono accontentati della cattiva soluzione di rendere «Dormite» un'interrogazione o un'antifrasi; mentre Loisy [5] in definitiva ritiene le parole rivolte al resto dei discepoli, che «senza dubbio», erano rimasti svegli! Anche lui trova le frasi «incoerenti piuttosto che realistiche», e ipotizza che un redattore ha aggiunto la clausola «Basta». Il dottor Montefiore riconosce concisamente, senza un accenno della tesi drammatica, che «il triplice andirivieni è drammatico, ma a malapena storico». La tesi dice perché.

La conclusione di un testo drammatico spiega egualmente lo strano silenzio dei discepoli alla cena, su cui anche gli esegeti sono stati mossi a perplessità. Giuda è dichiarato un traditore, e si siedono con lui durante il pasto, non facendo nulla per interferire con la sua azione. Chiaramente stiamo leggendo una finzione; ma perché la finzione avrebbe dovuto essere fabbricata così goffamente? Dobbiamo solo riconoscerla come dramma e la cosa diventa comprensibile. Nel volto e nella gestualità, nel dramma, i discepoli potevano mostrare il loro orrore e la loro avversione. È la rigorosa riduzione del dramma a semplice narrativa a rendere inconcepibile la scena. 

Il valore del metodo critico completo, notando parimenti i fenomeni testuali e il significato del contenuto, si vede subito nel fatto che spiega l'inverosimiglianza altrimenti inspiegabile della storia dell'Agonia. Critici come Schweitzer, riconoscendo esplicitamente le anomalie della biografia liberale, non meno dei giornalisti, laici e clericali, che deridono tutt'intorno la tesi mitica, sono capaci di credere nella storicità di una narrazione che racconta ciò che disse Gesù in preghiera quando, come racconta la stessa narrazione, gli stessi discepoli che erano stati scelti per mantenere una sorveglianza particolare si erano addormentati.

La storia come si presenta è il culmine dell'incredibilità. Ci viene detto che i tre discepoli scelti, dopo aver visto che il loro Maestro «cominciò a sentire paura e angoscia», e dopo essere stati avvisati da lui, «La mia anima è triste fino alla morte: restate qui e vegliate», sono trovati da lui addormentati non appena ha pronunciato la sua preghiera di tre righe. Non vi è alcun suggerimento di un intervallo. Essi si erano addormentati mentre lui stava pregando! E quei presunti prodigi di insensibile indifferenza sono accettati come testimoni delle parole della preghiera! [6]

Il lettore pensante domandi a sé stesso, Come mai una tale assurdità letteraria venne ad essere scritta? e vedrà che c'è soltanto un'unica soluzione. Nessun narratore serio poteva aver inventato una tale storia perché fosse letta. Ma nel momento in cui la riconosciamo per un dramma in origine, l'assurdità letteraria scompare. Lo spettatore era destinato a vedere il Salvatore cadere al suolo, e ad ascoltarlo pregare; il sonno dei discepoli non creava per lui come spettatore nessuna difficoltà. Solo quando il dramma fu ridotto fedelmente e devotamente alla forma narrativa, [7] da anime semplici incapaci di riflessione critica, accadde che l'intera cosa diventò l'incredibilità che è per noi nei vangeli. 

Nel terzo vangelo qualche percezione di difficoltà è già da supporre. La fusione in uno solo di due discorsi ai discepoli addormentati è evitata, dato che solo un discorso finale viene dato, sebbene i discepoli siano pittorescamente descritti mentre «dormivano di tristezza». [8] Potrebbe essere stato che lo scrittore del terzo vangelo, o un redattore, avesse accesso ad un testo più semplice del dramma, anche se d'altra parte questo testo in altri punti concorda con Matteo e con Marco. La stessa conclusione di una conscia percezione di difficoltà è suggerita dal fatto che in Luca scompare la storia del processo di mezzanotte davanti al Sinedrio. 

Anche in questo caso, un riconoscimento della struttura drammatica del testo nei vangeli precedenti avrebbe esonerato la scuola biografica da un ostacolo. Ma loro si rifiutano di essere esonerati; essi devono aggrapparsi a tutto ciò che aiuta comunque a colmare una lacuna. Il professor Schweitzer si rifiuta a sua volta. Egli deve avere l'Agonia per la sua tesi dell'«autocoscienza» di Gesù, come deve avere un traditore Giuda che comunichi ai sacerdoti che Gesù afferma di essere il Messia; sebbene parimenti nella storia impossibile del processo notturno e nella storia di Luca del processo all'alba si fa dire abbastanza a Gesù, dal punto di vista di Schweitzer, per essere accusato di blasfemia senza alcuna rivelazione da parte di Giuda.

Riornando di nuovo a quella figura deplorevole, affrontiamo la manipolazione della storia evangelica da parte del professor Schweitzer con la domanda: Cosa aveva insegnato Gesù ai suoi discepoli? O meglio, per che cosa egli aveva dei discepoli? Per tenerli all'oscurità? Per accusarli di folle tradimento? Per sviluppare nel migliore di loro uno stato psichico che li inducesse ad addormentarsi immediatamente dopo aver detto loro di essere rattristato fino alla morte, e dopo averli ammoniti a stare in guardia? 

Il Modo di Vivere del Gruppo. — Quelle non  sono questioni capziose: sono le sfide necessarie per suscitare attenzione da coloro che hanno letto rispettosamente i vangeli senza la dovuta riflessione critica; quelli che, come il presente scrittore in gioventù, prima di essere stato costretto ad esaminare, prendono per scontato che un Maestro itinerante con dodici discepoli scelti, la cui sola apparente occupazione era esorcizzare demoni e ascoltare parabole, presenti un aspetto storico abbastanza naturale. Ad un'inchiesta si troverà che il ritratto è una costruzione fittizia, difficilmente più plausibile per la Palestina di quanto non lo sarebbe stato per una comunità moderna.

E i sinottici non si limitano semplicemente ad esporre il modo di vivere economico del gruppo itinerante: danno resoconti contraddittori, evidentemente fabbricati separatamente per scopi dottrinali o apologetici. In una storia si fa dire a Gesù che «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell'Uomo non ha dove posare il capo». In un altra, riferendosi a Giovanni il Battista come un asceta, che per quel motivo era stato etichettato come posseduto da un demone, gli si fa dire: «È venuto il Figlio dell'uomo, che mangia e beve, e dicono: Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori» — una specie di rimprovero di cui non c'è stato alcun suggerimento precedente. Proprio nel capitolo successivo (Matteo 12) ci viene detto di come i suoi discepoli «ebbero fame e cominciarono a cogliere spighe e le mangiavano». In Luca (7:33-36) il discorso sul mangiare e sul bere è immediatamente seguito dalla storia di Gesù che accetta l'invito di un fariseo «a mangiare con lui». Quelle storie separate, come quella dell'ordine al discepolo di «lasciare i morti seppellire i loro morti» che segue l'apologo «Le volpi hanno le loro tane», sono invenzioni dottrinali. I vangeli non mostrano nessuna conoscenza della vita reale del presunto Maestro e dei suoi Dodici Discepoli.

Nella narrativa dell'invio dei Dodici per «predicare» e fare miracoli, si fa dire al Signore: «Non procuratevi oro, né argento, né moneta di rame nelle vostre cinture......perché l'operaio ha diritto al suo salario». Come se, nelle presunte circostanze, potessero ricavare oro e argento. E tutto questo appena ad un soffio dalla dichiarazione: «Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi». Anche questo, per stessa ammissione degli studiosi che credono in un Gesù storico, è l'invenzione di un periodo nel quale il culto stabilito, come visto in corso nell'adattato «Insegnamento dei Dodici Apostoli», era portato avanti da «profeti» vagabondi che venivano mantenuti per un giorno o due alla volta da quelli a cui predicavano, già liberamente organizzati in gruppi. I dodici discepoli non avrebbero potuto avere nessun pretesto del genere nella presunta situazione, con un vangelo consistente esclusivamente nella frase: «Il regno dei cieli è vicino». L'incarico e il comando di «Guarire gli infermi, resuscitare i morti, sanare i lebbrosi, cacciare i demoni», è un'assicurazione sufficiente che qui siamo fuori dalla Storia reale.

Quando troviamo il dottor Klausner che spiega con la sua solita certezza che «Gesù sentiva la fatica del costante insegnamento, e dopo che i suoi nemici erano diventati numerosi egli inviò i (suoi) dodici discepoli così che anche loro potessero predicare la venuta imminente del regno dei cieli e la necessità di pentimento e buone opere», ci rendiamo conto di nuovo della fatalità del tradizionalismo acritico. Il lettore cristiano richiamerà senza dubbio che Matteo afferma espressamente (11:1) che non appena Gesù aveva dato ai suoi discepoli missionari le loro istruzioni «egli partì di là per insegnare e predicare nelle loro città». Il critico ebreo, obbligato a presentare una figura realistica, cancella tanti testi quanti non gli vanno a genio, e ignora il fatto che il vangelo su cui dichiara specialmente di fare affidamento, quello secondo Marco, su questo punto è ancora più manifestamente non-storico dell'altro.

Ma la vera confutazione di tutte le armonizzazioni e le invenzioni biografiche sta nel riconoscere la posteriorità dimostrabile dell'intera storia della missione dei Dodici.

NOTE

[1] Ad esempio Bultmann, Geschichte der synopthischen Tradition, pag. 147.

[2] A questo proposito, si veda lo studio di T. Whittaker su “Origene e Celso”, in The Metaphysics of Evolution, ecc., 1926, pag. 229.

[3] La littérature chrétienne primitive, 1926: Avant-propos, pag. 16—18.

[4] Il professor Van Eysinga racconta che un ragazzo che aveva letto il riassunto del professore nella sua opera olandese sul Cristianesimo Precristiano copiò le citazioni da Seneca per un esercizio sulla morte di Cristo, e ricevette le congratulazioni del suo pastore!

[5] L'Evangile selon Marc, in loc.

[6] È significativo della natura del “senso storico” del dottor Klausner il fatto che, riguardo a questa storia di cose viste e sentite da uomini addormentati, egli dichiari che “L'intera storia porta l'impronta della verità umana; solo alcuni dettagli sono dubbi”. Tra quelli egli non riconosce la centrale falsità.

[7] Uno dei risultati consolidati della bibliografia evangelica è che il “primo vangelo” o i primi vangeli mancavano del racconto della tragedia. Esso deve essere stato aggiunto en bloc quando fu rilasciato il manoscritto del dramma misterico. Il dottor Burch, nell'opera già citata, ci dice (pag. 39) che “Tra i risultati più recenti dello studio critico dei vangeli ci sono quelli che dimostrano che la nascita e la giovinezza e la crocifissione, nella forma ampliata del testo greco ricevuto, sono documenti aggiunti all'estensione originale delle Vite di Gesù Cristo”. Chiunque si prenda la briga di consultare The Synoptic Problem for English Readers, di Alfred J. Jolley (1893), troverà presentati, trentaquattro anni fa, quei risultati “più recenti”, che erano stati precedentemente raggiunti da B. Weiss. Ed era tutto fatto da un punto di vista ortodosso. Ad alcuni di noi comunicò luce che non ha ancora raggiunto il dottor Burch.

[8] Il dottor Klausner li descrive fiduciosamente come se avessero smaltito un pasto pesante!

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