sabato 27 febbraio 2021

IL MITO DI GIUDAIl Problema Critico

 (segue da qui)

II. — IL PROBLEMA CRITICO

I primi suggerimenti dei Cainiti non furono trascurati dai teologi razionalisti tedeschi di cento anni fa. Paulus, un tempo famoso, che ha prodotto una Vita di Gesù nel 1828, e di cui forte era la sostituzione di racconti prosaici e credibili al posto dei racconti incredibili in tutti i punti dei vangeli, vide un Giuda che cercava di raggiungere una buona fine con mezzi cattivi. Neander lo rappresentò esplicitamente come un sostenitore dell'idea che se Gesù fosse il Messia avrebbe impedito l'arresto richiamando legioni di angeli per salvarsi; mentre, se non fosse il Messia, avrebbe meritato la morte. In Inghilterra, l'arcivescovo Whately ha favorito la prima parte dell'ipotesi, che era stata avanzata molto tempo prima da Daniel Whitby, un commentatore del regno di Guglielmo e Maria, che a sua volta citò Teofilatto (11° secolo) per aver attribuito l'idea ad alcuni Padri. [1] De Quincey con zelo la ha adottata e sviluppata, [2] dichiarando che l'azione di Giuda fu indotta nella fiduciosa speranza che Gesù sarebbe stato costretto a dichiararsi il Messia, dopodiché il popolo di Gerusalemme si sarebbe unito a lui, e avrebbe così rovesciato il giogo romano.  Quella tesi attraente del problema è sostanzialmente rappresentata dal signor Phillpotts nel suo verso vivido e ritmico, che ha gran parte dello spirito e dell'energia di Browning e una musica a sé stante.


I teologi professionisti, specialmente in Inghilterra, naturalmente sono stati lenti a rispondere finora a tali suggerimenti, soprattutto da quando Milman sollevò la questione per le sollecitazioni tedesche e la speculazione inglese che suscitarono. Si dice di Carlyle che era immensamente affascinato da una frase di Milman relativa a «la straordinaria condotta di Giuda Iscariota». Quando leggiamo il passo in Milman iniziamo a capire come in quell'età il nuovo spirito della critica storica, generato da parte francese da Voltaire e da parte inglese da Gibbon, si adattava ad alcuni dei suoi problemi; e come, d'altra parte, un temperamento come quello di Carlyle reagì contro il ragionamento in tali questioni. 

Milman sta scrivendo nella sua immatura 'History of Christianity', che risale al 1840, ed è composta nella decadente prosa accademica di quel periodo:

«Molta ingegnosità è stata dimostrata da alcuni scrittori recenti nel tentativo di attenuare, o meglio di giustificare, questa straordinaria condotta di Giuda, ma il linguaggio in cui Gesù parlò del crimine sembra confermare l'opinione comune della sua enormità. È stato suggerito che Giuda poteva aspettarsi che Gesù mettesse in atto il suo potere, anche dopo la sua cattura, per eludere o fuggire i suoi nemici, e così la sua avarizia poteva calcolare di assicurarsi la ricompensa senza essere complice di un omicidio assoluto, tradendo allo stesso tempo il suo Maestro e defraudando i suoi datori di lavoro.

Secondo altri, motivi ancora più alti potrebbero essersi mescolati con il suo amore di guadagno: potrebbe aver supposto che, coinvolgendo così Gesù in difficoltà altrimenti inestricabili, gli avrebbe lasciato solo l'alternativa di dichiararsi apertamente e autorevolmente il Messia e costringerlo così alla realizzazione tardiva delle visioni ambiziose dei suoi partigiani.

È possibile che il traditore non possa aver contemplato, o non possa essersi permesso chiaramente di contemplare, le conseguenze finali del suo crimine: potrebbe aver indugiato nella vaga speranza che se Gesù fosse stato davvero il Messia, si sarebbe annoiato, se potremmo avventurarci nell'espressione, di 'una esistenza incantata', e sarebbe stato al sicuro nella sua intrinseca immortalità (una nozione in tutta probabilità inseparabile da quella del Liberatore) dalla malizia dei suoi nemici. Se non lo fosse stato, il crimine del tradimento non sarebbe di grandissima importanza. C'erano altri motivi che avrebbero concorso con l'avarizia di Giuda......» [3]

E così via. Lo storico, ufficialmente convinto della concezione che un uomo potesse «tradire» l'Onnipotenza che allo stesso tempo stava tradendo lui, si allea con cautela con i nuovi tentativi «liberali» di razionalizzare la storia dogmatica cristiana, ma è accurato a non assumere nessuna posizione chiara. Giuda è rimasto moltissimo com'era nella tradizione, una persona malvagia, avida, vendicativa, incapace di venerare «la squisita perfezione di un personaggio così opposto al suo», e nemmeno da considerare sincero nel suo rimorso, questo essendo piuttosto una percezione dell'odio in cui era incorso piuttosto che un pentimento per quello che aveva fatto.

Eppure Milman era per il suo tempo illiberale un «liberale»; e la sua discussione sulle nuove speculazioni, derivanti dalla Germania, relative alla motivazione umana nella storia evangelica, contava altrettanto nella vita intellettuale della vecchia Inghilterra vittoriana come contò la  presentazione di Abramo, nella sua 'History of the Jews', come «uno sceicco arabo». E se concludessimo che il suo liberalismo e la sua critica storica non siamo andati molto lontano, saremmo costretti giustamente a confessare che la critica storico—religiosa ufficiale o professionale di oggi, dopo quasi un centinaio d'anni, non sia andata molto oltre.

Lo stimolo di Milman, in effetti, è stato poco corrisposto dalla ricerca accademica inglese, che anche nell'età successiva si è spesa nella nuova analisi documentaria dell'Antico Testamento piuttosto che in qualche trattamento radicale dei problemi vitali del credo coinvolto. Ad un esame relativamente audace della letteratura dell'Antico Testamento è seguito un semplice esame di revisione testuale del Nuovo Testamento; e il tipo di indagine sulle origini cristiane che avrebbe dovuto seguire è stato lasciato principalmente a mani straniere.

È vero che l'approccio clericale ortodosso al credo cristiano, fin da Renan, è stato tacitamente diretto più o meno al fine neo—unitariano di provare che il Gesù evangelico fosse un essere umano storico — un'eresia che è diventata praticamente ortodossia. Ma il perseguimento di questo fine è stato relativamente poco scientifico come lo era l'ortodossia del passato. Già nel 1857, il professore di Zurigo Gustav Volkmar aveva affermato nitidamente l'essenziale incredibilità della storia del Tradimento; e «G. R.», l'autore di un lavoro piuttosto ampolloso intitolato 'Gospel Paganism; or, Reason’s Revolt against the Revealed’, aveva ripreso il tema nel 1864  (pag. 104); che Thomas Scott ha trattato nuovamente nella sua 'English Life of Jesus', 1866 (riscritto nel 1871). È stato di nuovo discusso indipendentemente da Derenbourg nel suo 'Essai sur l'histoire et la géographie de Palestine', nel 1867 (nota 9); ed è stato sviluppato lungo le linee di Volkmar nell'opera anonima, ‘The Four Gospels as Historical Documents’ (1895), un'espansione della 'English Life of Jesus' di Scott ritenuta l'opera di Sir George W. Cox.

A questo punto la pura incredibilità della storia evangelica si era così impressa sugli spiriti più critici nella Chiesa che l'ammissione di Keim, nella sua monumentale Life of Jesus (1863), di un desiderio che la narrativa potesse essere respinta come non-storica, trovò simpatizzanti tra i lettori della traduzione inglese; e nell''Enciclopaedia Biblica' (1899-1903) il professor Cheyne, che era diventato convinto della sua natura mitica, e aveva ulteriormente realizzato la non-storicità dei Dodici Apostoli, la trattò coraggiosamente e definitivamente  come non-storica. Ancora una volta, nel 1901, il signor P. C. Sense, nella sua 'Historical Inquiry into the Origin of the Third Gospel’ (pag. 382), confessò la sua incredulità nella sua storicità, sottolineando che non vi è alcuna allusione a Giuda in qualsiasi scrittore ortodosso prima di Ireneo; e recentemente, nel Hibbert Journal (aprile, 1925), il dottor Jacks la ha dichiarata nel contempo «inspiegabile» e inutile, osservando, dopo Wrede, l'innaturalità della passività degli undici. In Germania una mezza dozzina di scrittori sono andati oltre. E ancora la massa degli studiosi di professione, in Inghilterra e altrove, non fanno nessuna ammissione di dubbio.

Così la storia di Giuda sta per essere affrontata da molti nella nostra età «emancipata» proprio come è stata affrontata nell'Inghilterra del 1837; e gli studiosi professionisti, preoccupati del compito di respingere la tesi mitica in generale, si sono tuffati non più in profondità di Milman nel problema particolare che gli era stato affidato dalla aspeculazione tedesca del suo tempo.


Non è necessario soffermarsi a lungo sul lato teologico della discussione: il dibattito ricorrente relativo a come Giuda possa essere giustamente trattato come un famigerato traditore quando, di fronte alla storia evangelica, lui è il  ministro predestinato del piano di salvezza. Senza la sua azione, teologicamente parlando, il sacrificio divino non sarebbe stato realizzato; come mai allora poteva essere decentemente condannato non solo all'eterna esecrazione ma alla punizione eterna quando il tradimento codardo di Pietro restò impunito? Giuda portò il suo rimorso, secondo uno dei due racconti scritturali della sua fine, fino ad arrivare al  suicidio; e il tedesco Von Hase ha sostenuto che il suo rimorso dimostrò la sua originaria nobiltà di carattere. Pietro non mostra nessun perdurante senso di vergogna nei documenti.


Una coscienza inquieta del dilemma risiede presumibilmente alla base del mito popolare, incarnato in 'Saint Brandan' di Arnold, che rappresenta Giuda rilasciato dall'inferno un giorno in ogni anno; e alcuni buoni pietisti sono andati oltre. Anatole France, in 'Le Jardin d 'Epicure', racconta di un buon Abate, il “più amabile dei Cainiti”, che devotamente sperava e pregava per il perdono di Giuda. E in effetti deve essere difficile per il pietista umano riconciliare il trattamento di Giuda con quello del ladro penitente, specialmente in vista delle regole stabilite nel Discorso della Montagna sulla paziente rimostranza e dissuasione dei malfattori.


Il dilemma teologico della fede ortodossa sul'argomento è davvero un dilemma difficoltoso, e probabilmente è stato la fonte di così tanta incredulità al pari di ogni altro elemento nei testi sacri. Ci sono ancora menti che aderiscono convulsamente alla dottrina di vetusta data secondo cui il Divino Artefice ha diritto per la natura delle cose a creare recipienti di disonore a sua volontà, predestinando i loro peccati da tutta l'eternità, e punendoli per tutta l'eternità nella giusta sequenza; ma quei fanatici sono sempre più superati dalle menti che decidono che se un sistema religioso riduce la vita ad una farsa morale il sistema avrebbe fatto meglio ad andarsene. Quel terribile detto evangelico,

«Il Figlio dell'uomo se ne va, come è scritto di lui, ma guai a colui dal quale il Figlio dell'uomo viene tradito: sarebbe meglio per quell'uomo se non fosse mai nato»

non è più accettabile per uomini pensanti, fossero perfino mistici.

Da qui, allo stesso modo, le difese speciose dell'abate Oegger (che in seguito divenne un Swedenborgian) e gli sforzi umani dei Neanders, dei Whatelys, e dei De Quinceys per fabbricare un personaggio di Giuda che lo ponesse nella categoria dei peccatori perdonabili, lasciando da sola la questione se la salvezza salvezza della razza umana sia davvero supposta dipesa dall'accidente di un tradimento che, nella circostanza del caso, fu ad occhi umani completamente inutile allo scopo di provocare una tragedia prevista e accettata in anticipo dalla vittima.

Ma la razionalizzazione di credi irrazionali, per non dire altro, è un compito arduo, e spiriti ardenti son da trovarsi che non permetteranno «nessuna assurdità» su Giuda Iscariota. Nei primi anni novanta l'allora vescovo di Ripon rinviò a quel che un certo giornalista ha descritto sdegnosamente come «la passione moderna nel riabilitare l'infame». [4] Per il vescovo, Giuda era «un tipo dell'uomo senza principi». Come ha sottolineato giustamente, Giuda aveva avuto il suo monito, sebbene il vescovo non poteva concepire che Giuda potesse aver «distrutto il suo posto personale come tesoriere» del gruppo per la semplice ricompensa di trenta sicli. Il defunto professor Fairbairn, d'altra parte, adottò l'opinione corretta che Giuda fu un uomo deluso in cerca della sua vendetta. 

Il fervido giornalista appena citato, che, io penso, fu il defunto Andrew Lang, non era riluttante ad adottare una spiegazione che lasciava Giuda regolarmente condannato come un folle traditore. Quello era ciò di cui lui era principalmente preoccupato. Un uomo cattivo, sosteneva irresponsabilmente, è un uomo cattivo, e i soli documenti che possediamo riguardo a Giuda lo rappresentano come tutto ciò. È verissimo. Ma il moralista zelante, che era solito parlare di Gesù come «Nostro Signore», ha fallito di realizzare, nel suo zelo, che egli stava ancora lasciando i suoi compagni di fede in un dilemma che era stato riconosciuto da alcuni teologi, tra loro il tedesco Keim, che doveva scrivere per lettori più riflessivi di quelli che piacevano al giornalista. E, quel che è peggio, il vescovo di Ripon, che avrebbe dovuto sapere meglio, aveva eluso a sua volta quel dilemma.

Gesù deve essere considerato da coloro che credono nella sua esistenza storica o, in termini della fede storica, una persona soprannaturale, un Dio incarnato, oppure, nei termini della tesi neo-unitariana che sta ora diventando ortodossa, un uomo e maestro innaturalmente dotato.  

 E in entrambi i casi egli deve essere considerato, se seguiamo il vescovo di Ripon e il signor Lang, come colui che ha scelto tra i suoi dodici apostoli «un tipo dell'uomo senza principi». Renan, l'effettivo fondatore del neo-unitarianesimo, accetta quella situazione. E l'assunto comune sembra essere che una simile sfortuna avrebbe potuto capitare al Maestro innaturalmente dotato come a qualsiasi altro uomo.

Il critico pagano Celso, tuttavia, iniziò una difficoltà duratura quando provocò i primi cristiani, da qualche parte intorno al 200 E.C., con il fatto che il loro Signore non aveva avuto abbastanza sagacia da discernere un cattivo nel suo immediato seguito, come avrebbe fatto qualsiasi capobrigante. E, mentre il buon cristiano medio è preparato a questo punto a ricadere sulla dottrina del Divino Artefice che crea e utilizza recipienti di disonore per i suoi scopi elevati, i teologi più scrupolosi, con Keim, riconoscono una difficoltà da cui sarebbero felici di trarsi fuori. 

Infatti la scuola neo-unitariana cerca di necessità di fabbricare un Gesù comprensibile, per quanto ingestibile possa essere il compito. Sulla vecchia tesi ortodossa, Gesù vedeva nei cuori di tutti gli uomini, e deve aver conosciuto la natura di Giuda. No, per la sua prescienza divina egli era consapevole che Giuda lo avrebbe tradito, ed egli lo scelse con quella conoscenza. Per la scuola neo-unitariana quella visione delle cose è diventata offensiva e impossibile. Loro devono avere un Superuomo che, per quanto gli sia stato fatto recitare il ruolo di Dio, rimane un uomo in tutto e per tutto, e non è semplicemente umano per scopi teologici quando sta affrontando il suo destino predestinato.

Il Dio che esitò alla prospettiva di adempiere al piano di «Suo» padre e al «Suo» personale obiettivo eterno è una concezione abbastanza fastidiosa anche per il teologo ortodosso. Per il neo-unitariano è una chimera. Il suo Gesù deve essere stato un riformatore umano, oppure un idealista, che non aveva pianificato il suo sacrificio personale. Per lui, allora, il Gesù storico non può aver detto quelle cose circa la sua morte necessaria «come fu scritto»; la dichiarazione che egli deve essere tradito; e che sarebbe stato meglio per il traditore predestinato se egli non fosse mai nato. Quelle cose, per la scuola biografica, devono essere finzioni dei creatori dei vangeli. Eppure è ai creatori dei vangeli che devono guardare per qualche conoscenza del loro Gesù!  

NOTE 

[1] Lectures on the Characters of Our Lord's Apostles, By a Country Parson di Whately (1851), pag. 102. Whately aggiunge che “i miglior Commentatori hanno supposto” che Giuda mirava a costringere Gesù a utilizzare i suoi poteri soprannaturali. Ma egli accetta la motivazione di Giuda data in Giovanni, e sostiene che Giuda poteva fare più moneta col “suo sistema di peculato” di quanto ottenne dalla ricompensa. 

[2] Works, ed. 1863, volume 6, saggio su Giuda Iscariota. De Quincey cita Jeremy Taylor come sostenitore della sua opinione. Citato in Montefiore, The Synoptic Gospels, seconda edizione, 1, 347.

[3] Opera citata, libro 1, capitolo 7 (Parigi ed. 1840), pag. 173. 

[4] Difficilmente può essere stato per quell'ispirazione che Burns scrisse il suo caratteristico resoconto di Giuda come molto inferiore in perfidia alla regina Elisabetta: “Un cane triste, certo, ma i suoi demeriti sono ancora insignificanti rispetto alle azioni dell'infernale Bess Tudor. Giuda non sapeva, o almeno non era affatto sicuro, cosa e chi fosse quel Maestro; la sua turpitudine fu semplicemente tradire un uomo degno che era sempre stato un buon Maestro per lui, un grado di turpitudine che è stato persino superato da molti della sua specie da allora”. Lettera al dottor Moore, 28 febbraio 1791. 

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